sabato 28 marzo 2009

Ma il nuovo partito non sarà monocratico


di ILVO DIAMANTI

Il Popolo della Libertà, in questi giorni, si trasforma in un partito vero. Personalizzato, presidenziale, maggioritario, rivolto alla società, impresa politica di marketing e comunicazione. Un modello imitato anche dal Partito Democratico. Rispetto al quale, però, il PdL sta sicuramente meglio. Non solo perché governa. E il governo continua a godere di un buon grado di consenso popolare. Ma perché, dopo le elezioni di un anno fa, ha allargato ulteriormente il suo vantaggio, che oggi, secondo l'Atlante politico di Demos-coop, è di oltre 13 punti percentuali. Infatti, il Pdl è stimato poco al di sotto del 39%, il Pd poco al di sopra del 26%.

Il Pd, tuttavia, sembra aver interrotto la discesa iniziata lo scorso in autunno e che pareva quasi inarrestabile, visto che negli ultimi mesi era sceso sotto il 24%. In questo periodo, il Pd ha affrontato il distacco di molti elettori. Esuli in patria. Delusi dal partito ma, prima ancora, dalla società che li circonda. Metà degli elettori che lo avevano votato nel 2008, infatti, si sente più lontana dal Pd. Si tratta di un'area composita. Dove coabitano elettori perlopiù giovani, istruiti. Molti di essi laici, residenti nelle zone rosse. Molti, invece, sono orientati al centro. In passato hanno votato per la Margherita e per il Partito Popolare. Metà di essi esprime fiducia in Beppe Grillo. Un'area ibrida, quindi, che riflette in modo esemplare l'integrazione incompiuta del PdL. Le traumatiche dimissioni di Veltroni hanno prodotto un sussulto emotivo. Il rischio - reale - di assistere alla rapida dissoluzione del Pd ha frenato e, anzi, interrotto l'esodo di tanti elettori di centrosinistra verso l'esilio. La scelta di Dario Franceschini sembra aver sopito, almeno fin qui, l'insoddisfazione degli elettori del Pd. Tanto che il 33% di essi ritiene che il prossimo segretario e leader del Pd dovrebbe essere proprio lui. Bersani, secondo nelle preferenze dei Democratici, è indietro di oltre 25 punti percentuali.

Tuttavia, il marchio "presidenziale" del PdL appare molto più netto. Visto che 6 elettori su 10 indicano come leader Silvio Berlusconi. Da cui l'idea che il PdL, più che un nuovo partito, frutto dell'accordo tra FI e AN, costituisca una versione più larga del partito personale del Cavaliere. Anche per la nota riluttanza di Berlusconi a condividere le leve del comando. A sottoporsi alla fatica - a lui insopportabile - della mediazione, della collegialità, del negoziato. Quando si tratta di governare: figurarsi nel partito. Tuttavia, il 18% degli elettori del PdL vorrebbe Gianfranco Fini leader del nuovo partito e il 24% lo indica, comunque, come seconda scelta. Difficile, per questo, pensare a un partito monocefalo. Anche perché le differenze di visione fra gli elettorati dei due 2 "soci fondatori" appaiono ancora visibili. Fra gli ex elettori di AN, infatti, la quota dei sostenitori di Fini alla guida del PdL sale a un terzo; alla pari con Berlusconi. Inoltre, il 35% di essi preferirebbe tornare indietro. AN e FI: divisi e senza alcuna con-fusione.

Il bipartitismo all'italiana, quindi, è ancora lontano. In primo luogo, ha bisogno di due partiti davvero forti. Per ora il Pd non lo è. Appare, invece, un partito in cerca di identità. Ha un elettorato sempre più vecchio. Dove abbondano i pensionati, gli impiegati del settore pubblico, le professioni intellettuali (si spiegherebbe altrimenti tanto accanimento da parte del governo verso gli statali e i professori?). Fra gli elettori del PdL, invece, pesano maggiormente i giovani, i lavoratori dipendenti del privato, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i liberi professionisti. Oltre alle casalinghe. Insomma: il Pdl è trascinato da ceti affluenti, spinto dal dinamismo del privato. Il Pd è anagraficamente vecchio. Esterno ai punti nevralgici del sistema produttivo.

Dal punto di vista dei valori, il PdL interpreta, soprattutto, la domanda di sicurezza. Le paure. Oltre all'insofferenza verso le regole. Marcia fra ronde e diritto a ristrutturare la casa. E' un calco del mutamento sociale che ha investito il paese negli ultimi trent'anni. Dei ceti sociali che lo hanno trainato. In più, ha una visione etica ormai ripiegata su quella della gerarchia ecclesiastica. Sulla vita come sulla famiglia. Da ciò i problemi del bipartitismo all'italiana. Il Pd, Partito Unitario dei Riformisti, deve fare i conti con un elettorato biograficamente e professionalmente conservatore. Poi, ha bisogno di "un'anima", come evoca il titolo del recente saggio scritto da Luigi Manconi (per l'editore "Nutrimenti"). Per ora è più uno "stato d'animo", depresso dal senso di declino che opprime una parte dei suoi elettori. Tuttavia, anche il PdL, il Partito Unitario dei Moderati, deve ancora diventare un "partito". L'integrazione tra i gruppi dirigenti dei due soci fondatori - FI e An - non è scontata. Come non lo è la leadership di Berlusconi. Abituato a non essere discusso. Padrone a "casa sua". Ci si dovrà abituare, visto che Fini non pare intenzionato a fare la parte dell'amministratore di condominio. Inoltre, più che moderato, per i valori che esprime, appare conservatore. Perfino tradizionalista. E, dal punto di vista dell'impianto elettorale, trascinato a Centrosud. La concorrenza con la Lega si farà sentire.

Insomma, il bipartitismo italiano fra PUM e PUR, per ora, è ancora imperfetto.

(28 marzo 2009)

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