C’era una volta il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi. Non c’è più, chi ancora ne parla suscita sbadigli. Ma forse a qualche lettore interesserà sapere che c’è tutto un sistema che ha elevato il conflitto d’interessi, o se si vuole il connubio d’interessi fra controllore e controllato, a regola suprema di governo. Vale per i segretari comunali: tutori della legalità degli atti firmati dal sindaco, ma al contempo - dopo la legge Bassanini che ha introdotto lo spoils system (n. 127 del 1997) - nominati e revocati dal sindaco medesimo. Vale per i giudici ordinari, dato che nessuna norma impedisce a un magistrato che tiene udienze a Napoli di fare l’assessore a Napoli. Vale per il difensore civico - che dovrebbe tutelare i cittadini nei casi di maladministration - perché ancora una volta è assurdo che il controllato, ossia il Consiglio regionale o comunale, designi il proprio controllore. Vale a maggior ragione per la pletora di autorità indipendenti, che dagli Anni Novanta hanno preso posto nel nostro ordinamento: i cui membri sono nominati dai presidenti delle Camere (e dunque dalla maggioranza di governo) oppure eletti dal Parlamento con voto limitato (e dunque, nella sostanza, lottizzati fra i partiti).
Ma se c’è un settore dove gli interessi si miscelano, dove controllore e controllato vestono l’identica casacca, questo è il settore della giustizia amministrativa. Dovremmo poter dire che è uno scandalo, se la parola non fosse ormai abusata. Perché lo scandalo aggredisce la funzione giurisdizionale, sentinella dei diritti. Perché la trasforma da guardiano indipendente dell’amministrazione a protettore degli amministratori. Perché infine disegna un’area d’impunità sul potere più elevato, il potere di governo. Ne è testimonianza la composizione del Consiglio di Stato, dove un quarto dei membri è di nomina governativa (legge 27 aprile 1982, n. 186), benché questa magistratura costituisca il più alto grado di giudizio contro gli abusi del governo. Ne è testimonianza la composizione della Corte dei conti, dove il governo nomina 39 consiglieri (d.P.R. 8 luglio 1977, n. 385), benché i giudici contabili vigilino sulle spese del governo. Col risultato che quest’ultimo, oltre a beneficiare di guardiani spesso compiacenti, se ne serve non di rado come una discarica per liberarsi dei personaggi più ingombranti.
Valgano a mo’ d’esempio la nomina in Consiglio di Stato di Nicolò Pollari, dopo la sua rimozione da capo dei servizi segreti per una gestione alquanto disinvolta delle intercettazioni (gennaio 2007); nonché la nomina alla Corte dei conti di Roberto Speciale - nomina poi rifiutata dall’interessato - dopo che il governo stesso lo aveva licenziato con gravissime accuse dal comando generale della Guardia di finanza (giugno 2007). Ma almeno in questo la seconda Repubblica coincide con la prima. Negli Anni 70 un esecutivo Andreotti fece un’infornata di 17 consiglieri di Stato, per lo più parlamentari trombati alle elezioni; tanto che un giurista prudente come Mortati parlò di situazione patologica. Senza dire dei pareri obbligatori del Consiglio di Stato ai ministeri, dove però c’è sempre un consigliere distaccato a capo di gabinetto del ministro. Più che un parere, una strizzatina d’occhio.
Ma la stravagante regola che mette il giudice in mano all’imputato non funziona solamente nei palazzi romani. Funziona dappertutto, dalle isole alle Alpi. In Sicilia il Consiglio di giustizia amministrativa ospita un giudice designato dal ministro dell’Interno e 9 scelti dal presidente della Regione siciliana (decreto legislativo 24 dicembre 2003, n. 373). In Trentino Alto Adige 2 giudici su 6 del Tribunale amministrativo regionale vengono nominati dal Consiglio provinciale di Trento, mentre a Bolzano c’è una sezione autonoma dove il governo nazionale nomina 4 giudici e il Consiglio provinciale di Bolzano gli altri 4 (d.P.R. 6 aprile 1984, n. 426). Nelle sezioni regionali della Corte dei conti siedono 2 magistrati rispettivamente designati dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali (legge 5 giugno 2003, n. 131). Insomma non c’è male: chi pensa che il rapporto fra politica e giustizia sia troppo lacerato, e che la lacerazione provochi un formidabile complesso per le nostre istituzioni, potrà rassicurarsi. Almeno per la giustizia amministrativa, il complesso si è trasformato in un amplesso.
michele.ainis@uniroma3.it
Ma se c’è un settore dove gli interessi si miscelano, dove controllore e controllato vestono l’identica casacca, questo è il settore della giustizia amministrativa. Dovremmo poter dire che è uno scandalo, se la parola non fosse ormai abusata. Perché lo scandalo aggredisce la funzione giurisdizionale, sentinella dei diritti. Perché la trasforma da guardiano indipendente dell’amministrazione a protettore degli amministratori. Perché infine disegna un’area d’impunità sul potere più elevato, il potere di governo. Ne è testimonianza la composizione del Consiglio di Stato, dove un quarto dei membri è di nomina governativa (legge 27 aprile 1982, n. 186), benché questa magistratura costituisca il più alto grado di giudizio contro gli abusi del governo. Ne è testimonianza la composizione della Corte dei conti, dove il governo nomina 39 consiglieri (d.P.R. 8 luglio 1977, n. 385), benché i giudici contabili vigilino sulle spese del governo. Col risultato che quest’ultimo, oltre a beneficiare di guardiani spesso compiacenti, se ne serve non di rado come una discarica per liberarsi dei personaggi più ingombranti.
Valgano a mo’ d’esempio la nomina in Consiglio di Stato di Nicolò Pollari, dopo la sua rimozione da capo dei servizi segreti per una gestione alquanto disinvolta delle intercettazioni (gennaio 2007); nonché la nomina alla Corte dei conti di Roberto Speciale - nomina poi rifiutata dall’interessato - dopo che il governo stesso lo aveva licenziato con gravissime accuse dal comando generale della Guardia di finanza (giugno 2007). Ma almeno in questo la seconda Repubblica coincide con la prima. Negli Anni 70 un esecutivo Andreotti fece un’infornata di 17 consiglieri di Stato, per lo più parlamentari trombati alle elezioni; tanto che un giurista prudente come Mortati parlò di situazione patologica. Senza dire dei pareri obbligatori del Consiglio di Stato ai ministeri, dove però c’è sempre un consigliere distaccato a capo di gabinetto del ministro. Più che un parere, una strizzatina d’occhio.
Ma la stravagante regola che mette il giudice in mano all’imputato non funziona solamente nei palazzi romani. Funziona dappertutto, dalle isole alle Alpi. In Sicilia il Consiglio di giustizia amministrativa ospita un giudice designato dal ministro dell’Interno e 9 scelti dal presidente della Regione siciliana (decreto legislativo 24 dicembre 2003, n. 373). In Trentino Alto Adige 2 giudici su 6 del Tribunale amministrativo regionale vengono nominati dal Consiglio provinciale di Trento, mentre a Bolzano c’è una sezione autonoma dove il governo nazionale nomina 4 giudici e il Consiglio provinciale di Bolzano gli altri 4 (d.P.R. 6 aprile 1984, n. 426). Nelle sezioni regionali della Corte dei conti siedono 2 magistrati rispettivamente designati dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali (legge 5 giugno 2003, n. 131). Insomma non c’è male: chi pensa che il rapporto fra politica e giustizia sia troppo lacerato, e che la lacerazione provochi un formidabile complesso per le nostre istituzioni, potrà rassicurarsi. Almeno per la giustizia amministrativa, il complesso si è trasformato in un amplesso.
michele.ainis@uniroma3.it
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