Al Senato si discute in questi giorni la controversa legge sul testamento biologico che, dopo le polemiche sul caso Englaro, dovrebbe regolare la zona grigia di sofferenza in cui si trovano centinaia di italiani in stato vegetativo. In questa intervista destinata alla tv, il professor Umberto Veronesi difende la piena libertà di scelta e di coscienza dell’individuo.
Il professor Umberto Veronesi è appena tornato da un viaggio lampo negli Stati Uniti per un congresso internazionale di oncologia.
Lei è vicino agli 85 anni, ma non sta fermo un minuto. Quando non è in viaggio in Italia e all’estero, al mattino opera i suoi pazienti dell’Istituto Europeo di Oncologia che dirige a Milano, all’ora di pranzo riceve i collaboratori della Fondazione che porta il suo nome, il pomeriggio visita, la sera va al cinema che è una sua grande passione. C’è un segreto?
«A parte una buona eredità genetica, che non è merito mio, sono certo che molto dipenda dalla vita regolare che faccio da sempre e dalla dieta che ho adottato. E poi dalla passione per quel che faccio che mi dà una spinta continua, alimentando motivazioni sempre nuove per restare attivo».
In che consiste questa dieta miracolosa?
«Non è miracolosa, ma molto rigorosa. Tanta frutta fresca, verdura e legumi, un po’ di pesce ogni tanto, mai carne».
Perché ce l’ha tanto con la carne?
«Per motivi morali da un lato e igienico-sanitari dall’altro. Sono cresciuto in una cascina contadina nelle campagne intorno a Milano, in mezzo ai vitellini, agli agnelli, ai maialini, imparando che ti riconoscono, si affezionano, e così decisi molto presto che non avrei mai potuto mangiarli. Ma c’è anche una ragione umanitaria, maturata più tardi: per allevare gli animali necessari ad alimentare la dieta carnivora che prevale nei paesi ricchi sono necessarie gigantesche quantità di cereali, acqua e terreni, che vengono sottratte a quel miliardo di persone nel mondo che muoiono di fame e di sete. E poi c’è il ruolo della carne, soprattutto se carbonizzata in superficie, nella genesi del tumore del colon e in generale nelle patologie del metabolismo legate all’iperalimentazione».
Nel suo studio all’Istituto c’è una bicicletta da corsa. Vuol dire che anche in età avanzata bisogna fare molto sport?
«No, non molto, poco ma ben fatto, senza forzare e rischiare traumi. Fa bene stare sempre in movimento, camminare, non impigrirsi. Anche per questo dormo poco, quel che basta per ricaricarmi».
Non sarà che continua a fare così tante cose anche perché pure lei ha paura di morire, come tutti?
«Come a tutti anche a me non piace l’idea di dover morire. Ma fin da bambino con la morte ho fatto i conti prima degli altri. Mio padre è morto che ero molto piccolo, da giovane partigiano antifascista sono rimasto ferito in azione, la scelta di diventare oncologo mi ha costretto, all’inizio della mia vita di medico, a occuparmi soprattutto di malati terminali senza speranza».
Come l’hanno cambiata quelle esperienze così dolorose?
«Da una lato mi hanno indotto a fare di tutto, a impegnarmi al massimo. Perché il cancro non fosse più necessariamente sinonimo di morte sicura. Dall’altro mi hanno fatto capire che la morte si può allontanare ma non evitare. Anzi, che morire è anche un dovere».
Come sarebbe a dire un dovere?
«Sì, anche un dovere. Prima o poi, dobbiamo lasciare a chi viene dopo di noi lo spazio, le risorse per svilupparsi liberamente. In natura la morte è una necessità per preservare il ciclo vitale da cui dipendono tutti gli esseri viventi. Diciamo che la morte è un fatto naturale che dobbiamo accettare».
Lei ha curato migliaia di pazienti, moltissimi sono guariti, altri, in attesa delle terapie definitive capaci di sconfiggere tutti i tipi di tumori, sono morti, purtroppo. Tra questi ultimi chi ha affrontato meglio quella che lei chiama un fatto naturale?
«Sembra paradossale, ma ho visto morire meglio, più serenamente i non credenti, probabilmente perché si preparano all’eventualità per tempo, ci pensano quando impostano il loro progetto di vita sapendo che non avrà sviluppi ulteriori dopo la fine. Applicano una sorta di laicismo stoico. Paradossalmente, invece, molti credenti ci arrivano più spaventati, non so perché».
Secondo lei, però, morire non è solo un dovere ma anche un diritto, visto che per primo ha avviato in Italia il dibattito sul testamento biologico.
«Certo! Morire è un dovere biologico, nel senso che abbiamo detto prima, ma anche un diritto etico. La libertà dell’individuo, del cittadino, deve riguardare non solo il suo progetto di vita, ma anche il suo progetto di morte. Deve essere riconosciuta a tutti la libertà di scelta e di coscienza anche in questo. La scienza e le tecnologie della medicina non possono evitare la morte ma possono allungare la vita anche per decenni. È giusto riconoscere a chi lo vuole il diritto ad andare avanti senza limiti prevedibili, ma anche a chi la vede diversamente di chiedere di evitare o sospendere inutili accanimenti».
Ma secondo lei quando è che ci si trova di fronte a un accanimento, all’inutilità degli sforzi per il mantenimento in vita?
«Quando ci si trova di fronte allo stato vegetativo permanente diagnosticato a livello neurologico. Insomma, quando muore il cervello, come verificabile dopo almeno un anno di osservazione clinica e di esami elettroencefalici. È una fase in cui gli organi continuano a funzionare, ma la persona non è più viva, non ha coscienza, percezioni, nemmeno sofferenza. Proprio come in una pianta».
Dunque, contrariamente a quello che molti ancora pensano, secondo lei la vita di un uomo ha sede nel cervello e non nel cuore.
«Certamente! La stessa disciplina dei trapianti si basa sulla differenza fra morte cardiaca e morte cerebrale. Quando un organo viene espiantato il corpo può essere ancora caldo, fisicamente vitale, ma la persona è morta, il cervello non funziona più, non riceve né trasmette più sensazioni o pensieri. Quel che conta a quel punto è che una morte si trasforma nella salvezza di un’altra vita».
Ma è sempre tutto così chiaro, sicuro?
«Nel caso dei trapianti sì. Il testamento biologico deve invece tenere conto di alcuni casi intermedi, in cui il cervello mantiene il barlume di alcune funzioni, oppure negli stati cosiddetti locked, in cui un essere umano si ritrova incarcerato nel suo stesso corpo. Sono aspetti in cui le disposizioni date liberamente in vita e in piena coscienza diventano ancora più importanti».
Lei ha detto che la scienza medica non può evitare la morte ma allungare la vita sì. Che ne pensa di chi si fa congelare in attesa di nuove scoperte o di chi si fa lavare il sangue per non invecchiare?
«Che non mi posso occupare di fantascienza e di leggende metropolitane. Quanto alla depurazione del sangue la possono garantire solo fegato e reni funzionanti e in buona salute».
E invece dell’insistenza del Presidente del Consiglio Berlusconi sugli studi in corso per portare la vita umana a 120 anni?
«Che effettivamente ci si sta lavorando in varie parti del mondo e che è una prospettiva possibile. Basti pensare che in un secolo, in Italia, l’aspettativa di vita alla nascita è raddoppiata grazie ai miglioramenti nell’igiene, nell’alimentazione, nella medicina preventiva e nelle terapie, in generale alle condizioni di vita meno logoranti. È più che verosimile che con le nuove conoscenze genetiche e con le applicazioni della medicina predittiva si possa fare di meglio, ma gradualmente, generazione dopo generazione».
Dunque nessuna promessa di immortalità. Ma perché lavorare proprio sul traguardo dei 120 anni, né di più né di meno?
«Perché sappiamo che geneticamente ogni specie vivente, compresa quella umana, è programmata per una durata massima di vita che non è modificabile. Possiamo però puntare a portare progressivamente tutti più vicini a quel traguardo, correggendo le imperfezioni, riparando i danni, prevenendo e rallentando i processi di invecchiamento».
Mentre è nel pieno della battaglia sulla legge per il fine vita, lei intanto lavora anche al nuovo progetto della sua Fondazione, l'incontro mondiale Science for Peace in programma a Milano il prossimo novembre. Ma che c’entra un medico oncologo divulgatore scientifico con l’argomento principe della politica internazionale?
«La medicina contemporanea non può dimenticare la sua origine filantropica per eccellenza. Noi lavoriamo al servizio dell’uomo, per aiutarlo contro il dolore e le malattie. Ma, ancora oggi, nella maggior parte del mondo non si muore di infarto o di cancro o di incidenti stradali come nelle nazioni più ricche, ma a causa della fame, della sete e della guerra, con quest’ultima che è spesso conseguenza e sempre causa delle prime due. Ho invitato a Milano i premi Nobel e i massimi studiosi del problema per ricordare al mondo che il linguaggio della scienza è universale e pacifico; che può esprimere le soluzioni razionali dei problemi che sono alla base di molti conflitti; e deve ricordare che solo con la riduzione delle spese per gli armamenti si possono ricavare le risorse necessarie per evitare tutte quelle morti per fame, sete, malattia e violenza, che non sono affatto parte del ciclo della natura».
Alessandro Cecchi Paone
17 marzo 2009
Il professor Umberto Veronesi è appena tornato da un viaggio lampo negli Stati Uniti per un congresso internazionale di oncologia.
Lei è vicino agli 85 anni, ma non sta fermo un minuto. Quando non è in viaggio in Italia e all’estero, al mattino opera i suoi pazienti dell’Istituto Europeo di Oncologia che dirige a Milano, all’ora di pranzo riceve i collaboratori della Fondazione che porta il suo nome, il pomeriggio visita, la sera va al cinema che è una sua grande passione. C’è un segreto?
«A parte una buona eredità genetica, che non è merito mio, sono certo che molto dipenda dalla vita regolare che faccio da sempre e dalla dieta che ho adottato. E poi dalla passione per quel che faccio che mi dà una spinta continua, alimentando motivazioni sempre nuove per restare attivo».
In che consiste questa dieta miracolosa?
«Non è miracolosa, ma molto rigorosa. Tanta frutta fresca, verdura e legumi, un po’ di pesce ogni tanto, mai carne».
Perché ce l’ha tanto con la carne?
«Per motivi morali da un lato e igienico-sanitari dall’altro. Sono cresciuto in una cascina contadina nelle campagne intorno a Milano, in mezzo ai vitellini, agli agnelli, ai maialini, imparando che ti riconoscono, si affezionano, e così decisi molto presto che non avrei mai potuto mangiarli. Ma c’è anche una ragione umanitaria, maturata più tardi: per allevare gli animali necessari ad alimentare la dieta carnivora che prevale nei paesi ricchi sono necessarie gigantesche quantità di cereali, acqua e terreni, che vengono sottratte a quel miliardo di persone nel mondo che muoiono di fame e di sete. E poi c’è il ruolo della carne, soprattutto se carbonizzata in superficie, nella genesi del tumore del colon e in generale nelle patologie del metabolismo legate all’iperalimentazione».
Nel suo studio all’Istituto c’è una bicicletta da corsa. Vuol dire che anche in età avanzata bisogna fare molto sport?
«No, non molto, poco ma ben fatto, senza forzare e rischiare traumi. Fa bene stare sempre in movimento, camminare, non impigrirsi. Anche per questo dormo poco, quel che basta per ricaricarmi».
Non sarà che continua a fare così tante cose anche perché pure lei ha paura di morire, come tutti?
«Come a tutti anche a me non piace l’idea di dover morire. Ma fin da bambino con la morte ho fatto i conti prima degli altri. Mio padre è morto che ero molto piccolo, da giovane partigiano antifascista sono rimasto ferito in azione, la scelta di diventare oncologo mi ha costretto, all’inizio della mia vita di medico, a occuparmi soprattutto di malati terminali senza speranza».
Come l’hanno cambiata quelle esperienze così dolorose?
«Da una lato mi hanno indotto a fare di tutto, a impegnarmi al massimo. Perché il cancro non fosse più necessariamente sinonimo di morte sicura. Dall’altro mi hanno fatto capire che la morte si può allontanare ma non evitare. Anzi, che morire è anche un dovere».
Come sarebbe a dire un dovere?
«Sì, anche un dovere. Prima o poi, dobbiamo lasciare a chi viene dopo di noi lo spazio, le risorse per svilupparsi liberamente. In natura la morte è una necessità per preservare il ciclo vitale da cui dipendono tutti gli esseri viventi. Diciamo che la morte è un fatto naturale che dobbiamo accettare».
Lei ha curato migliaia di pazienti, moltissimi sono guariti, altri, in attesa delle terapie definitive capaci di sconfiggere tutti i tipi di tumori, sono morti, purtroppo. Tra questi ultimi chi ha affrontato meglio quella che lei chiama un fatto naturale?
«Sembra paradossale, ma ho visto morire meglio, più serenamente i non credenti, probabilmente perché si preparano all’eventualità per tempo, ci pensano quando impostano il loro progetto di vita sapendo che non avrà sviluppi ulteriori dopo la fine. Applicano una sorta di laicismo stoico. Paradossalmente, invece, molti credenti ci arrivano più spaventati, non so perché».
Secondo lei, però, morire non è solo un dovere ma anche un diritto, visto che per primo ha avviato in Italia il dibattito sul testamento biologico.
«Certo! Morire è un dovere biologico, nel senso che abbiamo detto prima, ma anche un diritto etico. La libertà dell’individuo, del cittadino, deve riguardare non solo il suo progetto di vita, ma anche il suo progetto di morte. Deve essere riconosciuta a tutti la libertà di scelta e di coscienza anche in questo. La scienza e le tecnologie della medicina non possono evitare la morte ma possono allungare la vita anche per decenni. È giusto riconoscere a chi lo vuole il diritto ad andare avanti senza limiti prevedibili, ma anche a chi la vede diversamente di chiedere di evitare o sospendere inutili accanimenti».
Ma secondo lei quando è che ci si trova di fronte a un accanimento, all’inutilità degli sforzi per il mantenimento in vita?
«Quando ci si trova di fronte allo stato vegetativo permanente diagnosticato a livello neurologico. Insomma, quando muore il cervello, come verificabile dopo almeno un anno di osservazione clinica e di esami elettroencefalici. È una fase in cui gli organi continuano a funzionare, ma la persona non è più viva, non ha coscienza, percezioni, nemmeno sofferenza. Proprio come in una pianta».
Dunque, contrariamente a quello che molti ancora pensano, secondo lei la vita di un uomo ha sede nel cervello e non nel cuore.
«Certamente! La stessa disciplina dei trapianti si basa sulla differenza fra morte cardiaca e morte cerebrale. Quando un organo viene espiantato il corpo può essere ancora caldo, fisicamente vitale, ma la persona è morta, il cervello non funziona più, non riceve né trasmette più sensazioni o pensieri. Quel che conta a quel punto è che una morte si trasforma nella salvezza di un’altra vita».
Ma è sempre tutto così chiaro, sicuro?
«Nel caso dei trapianti sì. Il testamento biologico deve invece tenere conto di alcuni casi intermedi, in cui il cervello mantiene il barlume di alcune funzioni, oppure negli stati cosiddetti locked, in cui un essere umano si ritrova incarcerato nel suo stesso corpo. Sono aspetti in cui le disposizioni date liberamente in vita e in piena coscienza diventano ancora più importanti».
Lei ha detto che la scienza medica non può evitare la morte ma allungare la vita sì. Che ne pensa di chi si fa congelare in attesa di nuove scoperte o di chi si fa lavare il sangue per non invecchiare?
«Che non mi posso occupare di fantascienza e di leggende metropolitane. Quanto alla depurazione del sangue la possono garantire solo fegato e reni funzionanti e in buona salute».
E invece dell’insistenza del Presidente del Consiglio Berlusconi sugli studi in corso per portare la vita umana a 120 anni?
«Che effettivamente ci si sta lavorando in varie parti del mondo e che è una prospettiva possibile. Basti pensare che in un secolo, in Italia, l’aspettativa di vita alla nascita è raddoppiata grazie ai miglioramenti nell’igiene, nell’alimentazione, nella medicina preventiva e nelle terapie, in generale alle condizioni di vita meno logoranti. È più che verosimile che con le nuove conoscenze genetiche e con le applicazioni della medicina predittiva si possa fare di meglio, ma gradualmente, generazione dopo generazione».
Dunque nessuna promessa di immortalità. Ma perché lavorare proprio sul traguardo dei 120 anni, né di più né di meno?
«Perché sappiamo che geneticamente ogni specie vivente, compresa quella umana, è programmata per una durata massima di vita che non è modificabile. Possiamo però puntare a portare progressivamente tutti più vicini a quel traguardo, correggendo le imperfezioni, riparando i danni, prevenendo e rallentando i processi di invecchiamento».
Mentre è nel pieno della battaglia sulla legge per il fine vita, lei intanto lavora anche al nuovo progetto della sua Fondazione, l'incontro mondiale Science for Peace in programma a Milano il prossimo novembre. Ma che c’entra un medico oncologo divulgatore scientifico con l’argomento principe della politica internazionale?
«La medicina contemporanea non può dimenticare la sua origine filantropica per eccellenza. Noi lavoriamo al servizio dell’uomo, per aiutarlo contro il dolore e le malattie. Ma, ancora oggi, nella maggior parte del mondo non si muore di infarto o di cancro o di incidenti stradali come nelle nazioni più ricche, ma a causa della fame, della sete e della guerra, con quest’ultima che è spesso conseguenza e sempre causa delle prime due. Ho invitato a Milano i premi Nobel e i massimi studiosi del problema per ricordare al mondo che il linguaggio della scienza è universale e pacifico; che può esprimere le soluzioni razionali dei problemi che sono alla base di molti conflitti; e deve ricordare che solo con la riduzione delle spese per gli armamenti si possono ricavare le risorse necessarie per evitare tutte quelle morti per fame, sete, malattia e violenza, che non sono affatto parte del ciclo della natura».
Alessandro Cecchi Paone
17 marzo 2009
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