Doveva essere la legge sul fine vita, pensata per regolare quelle delicate fasi che accompagnano le persone verso la morte. Invece, resterà negli annali come la legge del caso Englaro. Dedicata, cioè, ai 2000-2500 italiani in stato vegetativo, come era Eluana, e di chi potrebbe - per trauma o altra sventura - finire così. Per alcuni non poteva essere altrimenti: «Quell’esperienza ha evidenziato un vuoto legislativo, per la prima volta in Italia la magistratura ha autorizzato l’induzione della morte in un paziente in coma vegetativo persistente; quindi dura lex sed lex: meglio una legge imperfetta che nessuna legge», sostiene Melania Rizzoli, deputato Pdl e medico che la morte, personalmente, l’ha vinta sconfiggendo un tumore maligno del sangue recidivante («Perché proprio a me?», s’intitola il suo libro). C’è invece chi pensa che il decreto legge Calabrò in discussione al Senato sia «molto peggio del nulla»: «Si è partiti da una legge che aveva come obbiettivo quello di dare la libertà di scelta anche a chi non è più nelle condizioni di esprimersi, sulla base dell’articolo 32 della Costituzione secondo cui nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario senza esplicito consenso, e si è arrivati ad una legge che dà indicazioni terapeutiche sottraendo la libertà di scelta al cittadino. Il risultato sarà un aumento della conflittualità e dei ricorsi ai tribunali», preconizza Ignazio Marino, senatore Pd e chirurgo, il cattolico divenuto pasionario difensore del diritto di cura e scelta di ogni paziente.
Fissati i cardini del ddl - divieto di ogni forma di eutanasia attiva e dell’accanimento terapeutico - su alcuni punti s’è pure trovato l’accordo: le disposizioni anticipate di trattamento, o Dat, saranno raccolte e rinnovate ogni 5 anni dal medico di base, e non dal notaio, registrate alla Asl e conservate in un registro nazionale al ministero del Welfare. Ma sui temi chiave i fronti politici restano lontani, con divisioni non irrilevanti anche al loro interno. Fra i punti più controversi, c’è l’obbligatorietà della nutrizione e dell’idratazione artificiale. Non potranno essere incluse nelle Dat in quanto considerate «sostegno vitale» e non trattamento medico. Definizione sulla quale la Società di Nutrizione Artificiale non è d’accordo: «Non è possibile equiparare l’assunzione di cibo e acqua alla nutrizione artificiale, che alimentazione non è visto che è introdotta invasivamente attraverso vie non naturali in persone non in grado di mangiare e bere. La comunità scientifica internazionale è concorde nel ritenerla un trattamento medico, per il quale bisogna chiedere il consenso informato», spiega Maurizio Muscaritoli, professore al dipartimento di medicina clinica della Sapienza di Roma e presidente Sinpe. «Non possiamo affrontare e risolvere un problema etico, evidente, negando la medicalità di un trattamento sostitutivo - com’è la dialisi quando sostituisce la funzione renale - che non riguarda solo le persone in stato di coma vegetativo. In Italia, sono nutrite artificialmente a domicilio circa 15.000 persone, oltre ai casi in ospedale». Marino è più diretto: «Immagino cosa accadrà il giorno dopo l’approvazione della legge, quando un medico entrerà nella stanza di un paziente incapace di intendere e di volere e, senza chiedere il permesso alla famiglia, lo porterà in sala operatoria per mettergli un tubo nello stomaco, per obbligo di legge… I tribunali saranno invasi di casi clinici. Non sono i giudici che devono decidere su queste cose né loro lo desiderano ».
Prevedibile, a suo parere, il ricorso alla Corte Costituzionale. E non è escluso quello, tramite referendum abrogativo, al cittadino, «che ha più buon senso di tanti parlamentari». «Alimentare il paziente clinicamente in coma, senza morte cerebrale, è doveroso», ribatte Melania Rizzoli. «Io, medico, posso sospendere l’alimentazione in un paziente terminale, che sta morendo di malattia, non in un paziente esente da patologia. Altrimenti bisogna cambiare le regole della medicina, non fare una legge». Eppure il codice deontologico dei medici, all’articolo 53, sostiene che il paziente può rifiutare «volontariamente di nutrirsi... e il medico non deve assumere misure costrittive ». «Quando il paziente è cosciente. Può rifiutare anche un’iniezione o l’amputazione di una gamba in cancrena. Noi però stiamo parlando di persone incoscienti. Se mi arriva un ragazzo ventenne in rianimazione per un trauma cranico, o perfino perché ha tentato il suicidio, io medico ho il dovere di salvarlo...». Certo è che cinquant’anni fa un caso Eluana non ci sarebbe stato, perché Eluana non sarebbe sopravvissuta. Il primo respiratore automatico è del 1952, la prima nutrizione artificiale di fine anni Sessanta e gli avanzamenti tecnico-scientifici hanno spinto sempre più in là la medicina, su quel fragile confine tra vita e morte.
«Oggi, nei centri di rianimazione, salviamo l’84% dei pazienti, una minima percentuale rimane disabile, il resto muore», sottolinea Vincenzo Carpino, presidente dell’Associazione degli anestesisti rianimatori ospedalieri. È quella piccola percentuale che sta sollevando dubbi etici fortissimi. «Chiediamo da vent’anni che si legiferi su questo tema, ma deve essere una legge chiara che lasci libertà a noi medici e ai pazienti. Gli anestesisti rianimatori escludono tassativamente l’eutanasia attiva ma ben diversa è la problematica relativa al rifiuto della terapia. I cittadini devono avere la possibilità di esprimerlo e, se esistono regole precise, il medico, quando non è obiettore, deve procedere. In base alla sua professionalità, alla sua onestà intellettuale e nel rispetto delle volontà di quel paziente».
La centralità del medico è indiscutibile per Giacomo Milillo, presidente della Fimmg che rappresenta i medici di famiglia italiani (1 ogni 1100 pazienti circa). «Credo che solo il medico, insieme al paziente prima e ai parenti poi, possa valutare dov’è la misura oltre la quale una terapia diventa accanimento. A mio avviso anche la nutrizione artificiale, a seconda dei casi, a volte può essere accanimento e a volte sottrarla può essere eutanasia. Non so come la legge possa stabilire il limite». E a chi teme che i medici diventino “burocrati della salute”, Milillo replica: «Conosciamo il paziente, la famiglia, il suo linguaggio: per noi è sicuramente più facile spiegargli quali sono le reali condizioni in cui po trebbe trovarsi e metterlo in condizione di esprimere la sua volontà». Il problema delle disposizioni anticipate non si pone per gran parte dei malati terminali, che di norma mantengono fino alla fine la capacità di gestire il “consenso informato” sulle terapie. Diverso il discorso per le malattie neurodegenerative, in cui si potrebbe ad esempio disporre di non essere attaccati al ventilatore e di esser lasciati morire per insufficienza respiratoria. O ancor più nei casi di sopravvenuto stato vegetativo, gli unici previsti esplicitamente dalla legge.
«Il vero quesito al quale il legislatore dovrebbe rispondere è se un cittadino può rispondere sì o no a una terapia quando non può dirlo con la propria voce. Può lasciare per iscritto quell’espressione di volontà o no? In altri paesi (vedi cartina a pag. 47) le Dat sono un principio garantito e d’obbligo la figura del fiduciario». Figura presente, ma facoltativa, anche nel ddl Calabrò, l’unica autorizzata a intervenire per conto del paziente. Vincenzo Saraceni, presidente dell’Associazione dei medici cattolici, individua un problema a monte: «Una visione economicistica del servizio sanitario che ha comportato un’accelerazione del lavoro e una minore attenzione al malato. Il quale, proprio nel momento in cui vive la crisi più profonda, si sente abbandonato e privato della dignità. Anche il consenso informato è purtroppo diventato lo strumento burocratico per sollevare il medico dalle responsabilità delle conseguenze medicolegali e non più lo strumento che dà al paziente la capacità di assumere, insieme al medico, una scelta importante. Se esistesse una vera alleanza terapeutica, forse tutto questo tema sarebbe superato e nessun malato chiederebbe che venisse posta fine alla sua vita». Forse.
Sara Gandolfi
18 marzo 2009
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