mercoledì 18 marzo 2009

Se le fusioni non bastano


SERGIO ROMANO

La nascita del Pdl piacerà a tutti coloro che vorrebbero un’Italia bipolare: due grandi forze politiche in gara per il potere e destinate ad alternarsi alla guida del Paese. Credo che abbiano ragione. Dopo la scomparsa delle grandi ideologie messianiche del Novecento e la nascita di grandi spazi politico-economici, i partiti minori rappresentano soltanto passioni identitarie, interessi corporativi o stati d’animo contingenti. Possono essere utili per spronare i grandi partiti e rompere, di tanto in tanto, la grigia rigidità del bipartitismo perfetto, ma in molti Paesi, fra i quali l’Italia e Israele, hanno avuto l’effetto di complicare enormemente il governo della cosa pubblica e la soluzione dei maggiori problemi nazionali.

Se avremo finalmente due grandi partiti lo dovremo paradossalmente ad alcuni leader (Veltroni, Rutelli, Berlusconi, Fini) che, pur combattendosi da posizione opposte, hanno deciso di imitarsi e di avanzare su strade parallele verso uno stesso obiettivo. La durata e la felicità di questi matrimoni, tuttavia, non sono scontate. La nascita del Partito democratico ricorda per molti aspetti l’unificazione socialista nell’ottobre del 1966. Il Psi di Nenni e il Psdi di Saragat si fusero, ma conservarono le loro rispettive strutture, i loro apparati burocratici e persino i centralini telefonici delle due direzioni. Bastarono i risultati elettorali della primavera del 1968, quando il partito unificato conquistò il 15,5% alla Camera contro il 13,8% al Psi e il 6,1% al Psdi nelle elezioni precedenti, perché i due partiti rimproverassero all’unificazione le loro sventure e decidessero di divorziare.

Ciò che è accaduto al Partito democratico dopo le elezioni politiche dell’anno scorso dimostra che i matrimoni, soprattutto nella loro prima fase, sono fragili e possono sciogliersi bruscamente da un momento all’altro. I malumori visibili nel partito di Gianfranco Fini alla vigilia del Congresso che deve proclamare la fine di Alleanza Nazionale e la sua fusione con Forza Italia, suggeriscono le stesse riflessioni. Se confrontato al Pd, il Pdl ha certamente un vantaggio: la leadership di Silvio Berlusconi e la sua popolarità nel Paese. Ma una forza politica così strettamente legata al ruolo di una persona può maggiormente subire, soprattutto nella sua fase iniziale, i contraccolpi della cattiva fortuna. Siamo dunque condannati a un bipartitismo precario e provvisorio? Per rispondere a questa domanda conviene ricordare che il bipolarismo imperfetto costruito in Italia negli ultimi quindici anni è in buona parte il risultato delle due leggi elettorali con cui il Paese è andato alle urne dopo la riforma del 1993.

Vi sono stati due blocchi contrapposti perché i partiti hanno dovuto coalizzarsi per sopravvivere. Ma nei Paesi dove le famiglie politiche sono tradizionalmente numerose e la cultura rimane tenacemente proporzionalista, le leggi elettorali, come abbiamo constatato nel corso di questi anni, non bastano da sole a garantire l’unità delle coalizioni per la durata dell’intera legislatura. L’esempio francese può servirci a comprendere il problema italiano. In Francia il bipartitismo è il risultato di due fattori complementari: il doppio turno con un’alta soglia di sbarramento e l’elezione popolare del presidente della Repubblica. Ogni qualvolta la scena politica tende nuovamente a frammentarsi l’elezione presidenziale costringe i partiti a unirsi dietro un candidato con buone possibilità di vittoria.

Furono le istituzioni del generale de Gaulle che permisero a François Mitterrand di fare del partito socialista e di se stesso, negli anni Settanta, il partner maggiore della coalizione social-comunista. I comunisti sapevano che il loro candidato non poteva vincere e dovettero votare per lui. Non è tutto. Una volta superata la soglia del palazzo presidenziale, il capo della V Repubblica mantiene, grazie ai suoi poteri, l’unità del suo partito e costringe i suoi oppositori a fare altrettanto. La Francia continua ad avere una pluralità di forze politiche. Ma l’elezione del presidente semplifica il quadro elettorale, garantisce la stabilità dell’esecutivo e assicura una migliore governabilità. Questo non significa che le istituzioni francesi siano necessariamente adatte all’Italia.

Il bipartitismo e la governabilità possono essere ottenute con formule costituzionali che tengano maggiormente conto delle nostre consuetudini e delle nostre idiosincrasie. Ma è meglio ricordare che le fusioni non bastano. Occorre un quadro istituzionale che tenda alla creazione di due leader contrapposti. E occorre che questi leader abbiano i poteri necessari per mantenere uniti i loro rispettivi partiti. Fino a quando non avremo riformato quelle parti della Costituzione che concernono il premier, il governo e il Parlamento, le unificazioni rischiano di essere fragili e provvisorie.

18 marzo 2009

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