I leader europei, riuniti ieri a Bruxelles, hanno preso tre decisioni rilevanti. Un raddoppio del fondo per l’assistenza finanziaria ai Paesi dell’Est Europa e dei Balcani che non appartengono all’area dell’euro. Una richiesta a tutti i Paesi membri del Fondo Monetario Internazionale di aumentarne in modo sostanziale le risorse permanenti. Un sostegno rapido e temporaneo allo stesso Fondo, sino a 75 miliardi di euro, sotto forma di crediti volontari da parte dei Paesi europei. Queste decisioni sono state presentate nel comunicato stampa formale del Consiglio d’Europa (www.consilium.europa.eu). Conferenze stampa, bandiere e foto di gruppo hanno accompagnato come sempre la comunicazione dei leader europei. Nelle stesse ore, il presidente Obama ha scelto il «Tonight show» di Jay Leno per comunicare agli americani il proprio piano di stimolo alla domanda come rimedio alla recessione più grave del dopoguerra.
La trasmissione di Jay Leno è un «chat show» d’intrattenimento e, per questo motivo, la scelta del Presidente ha suscitato una vivace polemica, nella quale Obama è stato accusato di buttare la crisi in commedia. L’intervista e i commenti, che si trovano ovviamente su YouTube, marcano in modo evidente il contrasto con la solennità europea. Al di là del forte contrasto nelle forme appena richiamato, la divergenza è però di sostanza. La via americana e la via europea nel contrastare la crisi sono infatti abbastanza diverse. Con una forte dose di semplificazione, vale la pena di richiamare questa diversità, perché essa sarà alla base di un dibattito politico e tecnico serrato. Semplificando, la politica dell’amministrazione Obama teme che la crisi avvii un circolo vizioso tra economia reale e finanza e mira a spezzare questo circolo dal lato della domanda aggregata. Il minor credito causa recessione e disoccupazione, e per questa via un ulteriore peggioramento del credito. Il piano di stimolo alla domanda di Obama aggredisce la questione sostituendo la spesa pubblica alla spesa privata, creando direttamente posti di lavoro e sostenendo il credito con i vari programmi di acquisto di titoli tossici dalle banche in modo che esse continuino a erogare credito.
In questo approccio, il ritorno dei deficit pubblici segnala la forza della politica economica e non è necessariamente un male. Su queste linee l’intervista di Obama a Jay Leno. Diversamente, in Europa molti ritengono che l’epicentro della crisi sia e resti il debito. Negli ultimi quindici anni la deregolamentazione del sistema finanziario insieme con la politica monetaria espansiva e con l’avidità hanno creato una bolla del credito e dei consumi, soprattutto ma non esclusivamente negli Stati Uniti. L’economia è oggi nel mezzo di un doloroso processo di aggiustamento verso un modello più sostenibile. Essa si potrà riprendere soltanto quando il debito si sarà ridotto drasticamente (in qualsiasi modo) e gli squilibri saranno rientrati, evitando nel frattempo i rischi eccessivi connessi a un aggiustamento inevitabile. In questa situazione occorre sostenere i più deboli, evitare l’esplosione di focolai di crisi, ma occorre che l’aggiustamento faccia la sua strada senza immaginare che esistano soluzioni miracolose o «pallottole d’argento».
Ancora, il debito pubblico è un fattore di rischio e il sistema va meglio regolato. Le decisioni del Consiglio Europeo, come le politiche economiche di moltissimi Paesi dell’Unione, partono da queste premesse e si limitano a rafforzare le forme di assicurazione collettiva contro la crisi nei Paesi più a rischio. I due approcci che ho brevemente descritto si fondano su visioni diverse della crisi e assegnano un ruolo diverso alla politica economica. Solo nei prossimi mesi vedremo quale prevarrà e come funzioneranno le varie ricette, ma sin da ora si può azzardare qualche ragionamento. Dal 2007 siamo nel mezzo di una recessione globale che è nata e si è combinata con una crisi finanziaria da eccesso di debito. Nei Paesi più avanzati, e in particolare negli Stati Uniti, il rapporto tra debito complessivo, pubblico e privato, e Pil è continuato a crescere fino alla fine del 2008, perché la riduzione della leva finanziaria in alcuni comparti è stata compensata da un forte aumento del debito pubblico. Simmetricamente gli squilibri mondiali nei pagamenti sono ancora immensi. Credo che sia ragionevole sostenere che senza una riduzione della leva finanziaria dei governi, degli investitori e delle famiglie la crisi possa essere contenuta ma non risolta. Giusto sostenere la domanda, ma senza affrontare il problema alla radice è improbabile che si esca dalla crisi. Il debito globale può essere ridotto per molte vie, tutte complesse e dolorose. Rinviando per il momento questa discussione, vale però la pena di osservare che in Italia il livello di indebitamento privato è il più basso tra i Paesi avanzati, che il nostro settore pubblico è l’unico a registrare un avanzo primario per quanto limitato e che questi fattori rappresentano sicuramente fattori di forza e di fiducia. Negli anni ruggenti della finanza eravamo gli ultimi tra i grandi Paesi. Negli anni del grande aggiustamento siamo piazzati molto meglio.
La trasmissione di Jay Leno è un «chat show» d’intrattenimento e, per questo motivo, la scelta del Presidente ha suscitato una vivace polemica, nella quale Obama è stato accusato di buttare la crisi in commedia. L’intervista e i commenti, che si trovano ovviamente su YouTube, marcano in modo evidente il contrasto con la solennità europea. Al di là del forte contrasto nelle forme appena richiamato, la divergenza è però di sostanza. La via americana e la via europea nel contrastare la crisi sono infatti abbastanza diverse. Con una forte dose di semplificazione, vale la pena di richiamare questa diversità, perché essa sarà alla base di un dibattito politico e tecnico serrato. Semplificando, la politica dell’amministrazione Obama teme che la crisi avvii un circolo vizioso tra economia reale e finanza e mira a spezzare questo circolo dal lato della domanda aggregata. Il minor credito causa recessione e disoccupazione, e per questa via un ulteriore peggioramento del credito. Il piano di stimolo alla domanda di Obama aggredisce la questione sostituendo la spesa pubblica alla spesa privata, creando direttamente posti di lavoro e sostenendo il credito con i vari programmi di acquisto di titoli tossici dalle banche in modo che esse continuino a erogare credito.
In questo approccio, il ritorno dei deficit pubblici segnala la forza della politica economica e non è necessariamente un male. Su queste linee l’intervista di Obama a Jay Leno. Diversamente, in Europa molti ritengono che l’epicentro della crisi sia e resti il debito. Negli ultimi quindici anni la deregolamentazione del sistema finanziario insieme con la politica monetaria espansiva e con l’avidità hanno creato una bolla del credito e dei consumi, soprattutto ma non esclusivamente negli Stati Uniti. L’economia è oggi nel mezzo di un doloroso processo di aggiustamento verso un modello più sostenibile. Essa si potrà riprendere soltanto quando il debito si sarà ridotto drasticamente (in qualsiasi modo) e gli squilibri saranno rientrati, evitando nel frattempo i rischi eccessivi connessi a un aggiustamento inevitabile. In questa situazione occorre sostenere i più deboli, evitare l’esplosione di focolai di crisi, ma occorre che l’aggiustamento faccia la sua strada senza immaginare che esistano soluzioni miracolose o «pallottole d’argento».
Ancora, il debito pubblico è un fattore di rischio e il sistema va meglio regolato. Le decisioni del Consiglio Europeo, come le politiche economiche di moltissimi Paesi dell’Unione, partono da queste premesse e si limitano a rafforzare le forme di assicurazione collettiva contro la crisi nei Paesi più a rischio. I due approcci che ho brevemente descritto si fondano su visioni diverse della crisi e assegnano un ruolo diverso alla politica economica. Solo nei prossimi mesi vedremo quale prevarrà e come funzioneranno le varie ricette, ma sin da ora si può azzardare qualche ragionamento. Dal 2007 siamo nel mezzo di una recessione globale che è nata e si è combinata con una crisi finanziaria da eccesso di debito. Nei Paesi più avanzati, e in particolare negli Stati Uniti, il rapporto tra debito complessivo, pubblico e privato, e Pil è continuato a crescere fino alla fine del 2008, perché la riduzione della leva finanziaria in alcuni comparti è stata compensata da un forte aumento del debito pubblico. Simmetricamente gli squilibri mondiali nei pagamenti sono ancora immensi. Credo che sia ragionevole sostenere che senza una riduzione della leva finanziaria dei governi, degli investitori e delle famiglie la crisi possa essere contenuta ma non risolta. Giusto sostenere la domanda, ma senza affrontare il problema alla radice è improbabile che si esca dalla crisi. Il debito globale può essere ridotto per molte vie, tutte complesse e dolorose. Rinviando per il momento questa discussione, vale però la pena di osservare che in Italia il livello di indebitamento privato è il più basso tra i Paesi avanzati, che il nostro settore pubblico è l’unico a registrare un avanzo primario per quanto limitato e che questi fattori rappresentano sicuramente fattori di forza e di fiducia. Negli anni ruggenti della finanza eravamo gli ultimi tra i grandi Paesi. Negli anni del grande aggiustamento siamo piazzati molto meglio.
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