

Così, presentando in anteprima il nuovo frutto della collaborazione con Prada, il Prada Transformer di Seul («spazio funzionale che potrà cambiare forma e utilizzo di volta in volta»), Koolhaas offre il fianco a nuove discussioni. Ad esempio sui musei nella loro forma più classica: «Gli spazi rigidi e codificati non hanno più alcuna ragione di esistere, nemmeno quelli destinati all’arte e alla cultura, il futuro anche per loro sta nella flessibilità». Ma ce n’è anche per i «grandi mecenati», quelli stessi che hanno contribuito a lanciare il fenomeno delle archistar (di cui Koolhaas fa evidentemente parte): «Ci hanno chiesto di fare edifici spettacolari, di cui si parlasse, che fossero architetture urlate. Forse per noi sarebbe meglio tornare ad architetture più composte, più ragionate e meno spettacolarizzate». Secondo lui, poi, questa crisi (come già per Rafael Moneo) servirà: «Dobbiamo recuperare l’impegno sociale delle architetture degli anni Sessanta, quando si costruiva non perché se ne parlasse, ma per dare case».
Eppure molte di quelle architetture, in Italia soprattutto, non vengono oggi additate come buoni esempi da seguire: «Il Corviale di Roma, lo Zen di Palermo, le Vele di Scampia (ma lui per definirle usa solo un termine, gomorra) oggi ci sembrano forse brutte, ma il nostro gusto è diverso da allora e, soprattutto, quelli erano progetti con una funzione sociale-politica importante, alle quali bisognerebbe guardare oggi con una attenzione ritrovata». Davvero non sembra un caso che Rem Koolhaas abbia vinto il «Pritzker Prize», il Nobel per l’architettura, proprio nell’anno 2000: chi meglio dell’architetto olandese (nato a Rotterdam il 17 novembre 1944) poteva interpretare le contraddizioni del nuovo Millennio. E Koolhaas (che in una precedente vita è stato anche giornalista e sceneggiatore cinematografico) ha saputo davvero raccontarle in modo eccellente e anticipatore. Con i suoi progetti: lo Zkm di Karlsruhe, lo Yokohama Urban Ring, l’Educatorium di Utrecht, l’Opera di Cardiff, la Casa della musica di Porto, la sede della China Central Television di Pechino. E con i suoi libri, da quel Delirious New York (Mondadori Electa) ormai considerato «un classico dell’architettura contemporanea» e che lo ha reso improvvisamente famoso) al più recente Junkspace (Quodlibet) che propone un «ripensamento radicale dello spazio urbano». L’ultima evoluzione dello «junk-space» (lo «spazio-spazzatura», caotico eppur vivacissimo, «che rappresenta l’attuale realtà delle città»), dice lo stesso Koolhaas, è proprio quel tetraedro mutante capace di trasformarsi di volta in volta in museo, cinema, passerella per sfilate e eventi (rigorosamente multiculturali) pensato per Prada: «Qualcosa di totalmente differente da ogni possibile idea di museo precedente».
Koolhaas (tutto vestito di grigio ma con un gioco raffinato di nuance, capelli cortissimi quasi da monaco, occhi vivacissimi) lancia nuove provocazioni, sia pure con il suo tradizionale fare estatico, dalla futura sede della Fondazione Prada: un complesso industriale dei primi del Novecento a sud di Milano, 17.500 metri quadrati (di cui 7.500 della fabbrica già risistemata e 10 mila per una nuova costruzione) destinati a diventare un centro per le arti con diverse identità più un grattacielo (naturalmente firmato da Koolhaas) per la collezione permanente. «Città senza glamour» chiama Milano «se non fosse per la moda e il design», ma anche «l’unica che potrebbe diventare la città del moderno». Un oggetto, il Prada Transformer, da 300 metri quadrati di superficie massima, 20 di altezza, 20 di diametro, «svariati milioni di euro» di spesa. Che cambia forma a seconda della necessità: esagono, croce, rettangolo oppure cerchio perché questo edificio interamente ricoperto di una membrana elastica liscia (ruotato con l’aiuto di una gru) «potrà essere riconfigurato a seconda del programma previsto, per dare ai visitatori esperienze completamente diverse». Ogni lato è progettato in funzione di un’installazione specifica, creando così quattro volumi con altrettante identità: «Quando un lato diventa il pavimento, gli altri tre si trasformano in pareti e soffitto, richiamando al tempo stesso l’evento passato o anticipando quello futuro». Perché, spiega Koolhaas: «La cosa interessante è il riconoscimento del Transformer come organismo dinamico, rispetto ad un oggetto semplicemente statico, che si adatta arbitrariamente al programma e che può essere plasmato in tempo reale, a seconda degli specifici programmi che si intende proporre al suo interno».
Proprio come deve succedere, dice, agli edifici che vorranno «sopravvivere in questo nostro junk-space». Questo è Prada Transformer (citazione in bilico tra il film di fantascienza di Michael Bay e il longplaying di Lou Reed) che verrà inaugurato il 25 aprile a Seul con «Waist Down - Skirts by Miuccia Prada», anche questo un progetto in divenire che «presenta una collezione di gonne in movimento che spazia dalla prima sfilata ad oggi» («dove saranno esposte gonne create da studenti di moda coreani emergenti per promuovere l’interazione tra due mondi della moda e per amplificare il significato della moda stessa da prospettive culturali diverse»). Poi a seguire il festival cinematografico «Flesh Mind and Soul» dedicato a Alejandro Gonzáles Iñárritu (il regista di Babel e 21 Grammi) che dovrà «lasciare gli spettatori sazi e al contempo ancora affamati». Il tutto in una collocazione certamente non normale: situato accanto al cinquecentesco Gyeonghui Palace, Prada Transformer «si propone come uno spazio multidimensionale che è espressione del XXI secolo, della storia, della tradizione e delle radici coreane ». Ribadisce Koolhaas: «Un modello da seguire, la strada giusta per cambiare le nostre città». Ma anche per recuperare «il sublime dell’arte», visto che per Koolhaas «la moda è sublime, anzi è più sublime della stessa arte ». E al tempo l’arte nasconde una dimensione sociale «dimenticata» al pari di quella di un Corviale («quello di Pasolini» specifica Koolhaas). D’altra parte, nemmeno i mecenati sono tutti uguali: «Ce ne sono di speciali e di no, di quelli che vogliono urlare e di quelli che vogliono far pensare».
Stefano Bucci
07 aprile 2009
Nessun commento:
Posta un commento