lunedì 20 aprile 2009

«Corviale e Scampia, ripartiamo da lì»


Secondo lui «la storia con i suoi sim­boli architettonici del potere, primi tra tutti i grattacieli, ha finito per ap­piattire la società»; l’arte è tenden­zialmente «inutile perché rappresenta una risposta inconsistente ad una realtà imbaraz­zante »; la cultura di oggi semplicemente «barcolla»; le nostre città «sono ormai go­vernate soltanto dal caos». L’ha detto (e ripe­tuto) più volte. Ma, come in una seduta psi­coanalitica, Rem Koolhaas («lo psicoanali­sta delle città» lo hanno appunto definito) ad ogni appuntamento sembra voler scopri­re un ulteriore tassello del proprio puzzle.

Così, presentando in anteprima il nuovo frutto della collaborazione con Prada, il Pra­da Transformer di Seul («spazio funzionale che potrà cambiare forma e utilizzo di volta in volta»), Koolhaas offre il fianco a nuove discussioni. Ad esempio sui musei nella lo­ro forma più classica: «Gli spazi rigidi e codificati non hanno più alcuna ragione di esistere, nemmeno quel­li destinati all’arte e alla cul­tura, il futuro anche per lo­ro sta nella flessibilità». Ma ce n’è anche per i «grandi mecenati», quelli stessi che hanno contribuito a lanciare il fenomeno delle archistar (di cui Koolhaas fa evidentemente parte): «Ci hanno chiesto di fare edifici spettacola­ri, di cui si parlasse, che fossero architetture urlate. Forse per noi sarebbe meglio tornare ad architetture più composte, più ragionate e meno spettacolarizzate». Secondo lui, poi, questa crisi (come già per Rafael Moneo) ser­virà: «Dobbiamo recuperare l’impegno so­ciale delle architetture degli anni Sessanta, quando si costruiva non perché se ne parlas­se, ma per dare case».

Eppure molte di quel­le architetture, in Italia soprattutto, non ven­gono oggi additate come buoni esempi da seguire: «Il Corviale di Roma, lo Zen di Pa­lermo, le Vele di Scampia (ma lui per defi­nirle usa solo un termine, gomorra) oggi ci sembrano forse brutte, ma il nostro gusto è diverso da allora e, soprattutto, quelli erano progetti con una funzione sociale-politica importante, alle quali bisognerebbe guarda­re oggi con una attenzione ritrovata». Davvero non sembra un caso che Rem Ko­olhaas abbia vinto il «Pritzker Prize», il No­bel per l’architettura, proprio nell’anno 2000: chi meglio dell’architetto olandese (nato a Rotterdam il 17 novembre 1944) pote­va interpretare le contraddizioni del nuovo Millennio. E Koolhaas (che in una preceden­te vita è stato anche giornalista e sceneggia­tore cinematografico) ha saputo davvero rac­contarle in modo eccellente e anticipatore. Con i suoi progetti: lo Zkm di Karlsruhe, lo Yokohama Urban Ring, l’Educatorium di Utrecht, l’Opera di Cardiff, la Casa della mu­sica di Porto, la sede della China Central Te­levision di Pechino. E con i suoi libri, da quel Delirious New York (Mondadori Electa) ormai considerato «un classico dell’architet­tura contemporanea» e che lo ha reso im­provvisamente famoso) al più recente Junk­space (Quodlibet) che propone un «ripensa­mento radicale dello spazio urbano». L’ultima evoluzione dello «junk-space» (lo «spazio-spazzatura», caotico eppur viva­cissimo, «che rappresenta l’attuale realtà del­le città»), dice lo stesso Koolhaas, è proprio quel tetraedro mutante capace di trasformar­si di volta in volta in museo, cinema, passe­rella per sfilate e eventi (rigorosamente mul­ticulturali) pensato per Prada: «Qualcosa di totalmente differente da ogni possibile idea di museo precedente».

Koolhaas (tutto vesti­to di grigio ma con un gioco raffinato di nuance, capelli cortissimi quasi da monaco, occhi vivacissimi) lancia nuove provocazio­ni, sia pure con il suo tradizionale fare estati­co, dalla futura sede della Fondazione Prada: un complesso industriale dei primi del Nove­cento a sud di Milano, 17.500 metri quadrati (di cui 7.500 della fabbrica già risistemata e 10 mila per una nuova costruzione) destinati a diventare un centro per le arti con diverse identità più un grattacielo (naturalmente fir­mato da Koolhaas) per la collezione perma­nente. «Città senza glamour» chiama Milano «se non fosse per la moda e il design», ma anche «l’unica che potrebbe diventare la cit­tà del moderno». Un oggetto, il Prada Transformer, da 300 metri quadrati di superficie massima, 20 di altezza, 20 di diametro, «svariati milioni di euro» di spesa. Che cambia forma a seconda della necessità: esagono, croce, rettangolo oppure cerchio perché questo edificio inte­ramente ricoperto di una membrana elasti­ca liscia (ruotato con l’aiuto di una gru) «po­trà essere riconfigurato a seconda del pro­gramma previsto, per dare ai visitatori espe­rienze completamente diverse». Ogni lato è progettato in funzione di un’installazione specifica, creando così quattro volumi con altrettante identità: «Quando un lato diven­ta il pavimento, gli altri tre si trasformano in pareti e soffitto, richiamando al tempo stes­so l’evento passato o anticipando quello fu­turo». Perché, spiega Koolhaas: «La cosa in­teressante è il riconoscimento del Transfor­mer come organismo dinamico, rispetto ad un oggetto semplicemente statico, che si adatta arbitrariamente al programma e che può essere plasmato in tempo reale, a secon­da degli specifici programmi che si intende proporre al suo interno».

Proprio come de­ve succedere, dice, agli edifici che vorranno «sopravvivere in questo nostro junk-space». Questo è Prada Transformer (citazione in bilico tra il film di fantascienza di Michael Bay e il longplaying di Lou Reed) che verrà inaugurato il 25 aprile a Seul con «Waist Down - Skirts by Miuccia Prada», anche que­sto un progetto in divenire che «presenta una collezione di gonne in movimento che spazia dalla prima sfilata ad oggi» («dove sa­ranno esposte gonne create da studenti di moda coreani emergenti per promuovere l’interazione tra due mondi della moda e per amplificare il significato della moda stes­sa da prospettive culturali diverse»). Poi a se­guire il festival cinematografico «Flesh Mind and Soul» dedicato a Alejandro Gonzá­les Iñárritu (il regista di Babel e 21 Grammi) che dovrà «lasciare gli spettatori sazi e al contempo ancora affamati». Il tutto in una collocazione certamente non normale: situato accanto al cinquecente­sco Gyeonghui Palace, Prada Transformer «si propone come uno spazio multidimen­sionale che è espressione del XXI secolo, del­la storia, della tradizione e delle radici corea­ne ». Ribadisce Koolhaas: «Un modello da se­guire, la strada giusta per cambiare le nostre città». Ma anche per recuperare «il sublime dell’arte», visto che per Koolhaas «la moda è sublime, anzi è più sublime della stessa ar­te ». E al tempo l’arte nasconde una dimen­sione sociale «dimenticata» al pari di quella di un Corviale («quello di Pasolini» specifi­ca Koolhaas). D’altra parte, nemmeno i mecenati sono tutti uguali: «Ce ne sono di speciali e di no, di quelli che vogliono urlare e di quelli che vogliono far pensare».

Stefano Bucci
07 aprile 2009

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