Molti osservatori credono di vedere nella crisi economica e finanziaria di questi tempi la fine del liberismo. La crisi sarebbe la prova che mercati poco regolamentati sono intrinsecamente instabili e forieri di sciagure. La crisi sarebbe inoltre chiaro indizio della fine della posizione dominante dell’economia americana nel mondo.
Ad argomenti di questo tipo si sono appellati il presidente Sarkozy e il cancelliere Merkel, quando richiesero a gran voce istituzioni sovrannazionali di regolamentazione dei mercati finanziari globali. Lo stesso presidente Obama, per quanto poco disposto a cedere agli isterismi revanchisti del governo francese, sembra abbracciare l’idea che solo attraverso un ritorno a massicci interventi statali le magnifiche sorti e progressive dell’economia possano essere rinvingorite.
Questa prospettiva è a mio parere errata. Oggi noi vediamo la crisi e la disoccupazione che non accenna a fermarsi, in Europa come negli Stati Uniti. Ma dimentichiamo che da decenni la disoccupazione nella statalista Europa è circa 4 punti percentuali più alta che negli Stati Uniti, patria del liberismo. Oggi noi vediamo Londra e New York, centri della finanza irrazionale ed esuberante, in ginocchio. Ma dimentichiamo che l’Inghilterra ha ripreso a crescere grazie alle politiche liberiste di Margaret Thatcher e ha un reddito pro capite almeno del 15% superiore al nostro. Oggi noi vediamo l’Irlanda indebitata e in grave crisi, e così alcuni Paesi dell’Est come l’Estonia. Ma dimentichiamo che 30 anni fa l’Irlanda aveva un reddito pro capite pari a quello del nostro Sud mentre oggi è più del doppio. Oggi noi vediamo la crisi colpire i Paesi poveri nel mondo. Ma dimentichiamo che nel 1970 il 38% della popolazione mondiale viveva sotto la linea della povertà, mentre nel 2000 questa percentuale era del 19%.
Potrei continuare con altri «Oggi noi vediamo... Ma dimentichiamo...». Noto invece che questo esercizio retorico risulta particolarmente facile usando l’Italia come riferimento rispetto ai Paesi più liberisti. Questo naturalmente perché l’Italia ha uno dei sistemi pubblici più inefficienti del mondo sviluppato. L’istruzione e la sanità hanno qualche isola felice, ma la giustizia è imbarazzante, l’amministrazione politica locale in molte aree è invasa dalla criminalità organizzata, la classe politica centrale è tra le peggiori e più costose d’Europa, la spesa pubblica è fuori controllo, e il sistema fiscale permette tassi di evasione inimmaginabili nel resto del mondo civile. Se gli Stati Uniti possono ragionevolmente concepire un nuovo ruolo dell’intervento pubblico nello Stato, in Italia lo Stato ha avuto ininterrottamente un ruolo centrale nel sistema economico. Dal corporativismo fascista allo statalismo democristiano, dalla social-democrazia della sinistra riformista all’anti-mercatismo del ministro Tremonti. Se gli Stati Uniti hanno spazio per allargare il ruolo dello Stato, l’Italia ha spazio solo per ridurlo. Soprattutto al Sud, dove la presenza dello Stato è più massiccia e la sua inefficienza è di conseguenza molto maggiore. Il danno più profondo che la crisi possa fare all’economia italiana è proprio quello di rallentarne il già lentissimo passaggio verso una economia di mercato.
Ma anche negli Stati Uniti la battaglia per uno Stato interventista efficiente è impari. Anzi, già vi si osservano preoccupanti segnali di «italianizzazione». I generosi fondi federali allo Stato di New York, che dovevano servire a garantire che scuole e ospedali superassero la crisi, sono risultati in una quantità di spese clientelari come mai si era visto. Il Tesoro, che siede su migliaia di miliardi di dollari per ricapitalizzare il mercato finanziario, è ostaggio di una oligarchia di banchieri che richiede sussidi per socializzare le perdite passate e garanzie contro possibili perdite future. Così come l’autorità «indipendente» preposta alle regole di contabilità delle società, che accorda nuovi meccanismi che permettono alle banche bilanci «allegri» e «creativi». Tutto questo non per sostenere che la mancanza di regolamentazione della finanza non stia alla radice della crisi. Migliori meccanismi sovrannazionali di regolamentazione della finanza sono certamente desiderabili. Ma la soluzione drastica di ritorno allo Stato che molti governi sembrano oggi favorire sarà dannosa per gli Stati Uniti, e molto più per l'Italia che ha uno Stato tremendamente inefficiente e rischia di trovarsi con le banche controllate dai prefetti.
Ad argomenti di questo tipo si sono appellati il presidente Sarkozy e il cancelliere Merkel, quando richiesero a gran voce istituzioni sovrannazionali di regolamentazione dei mercati finanziari globali. Lo stesso presidente Obama, per quanto poco disposto a cedere agli isterismi revanchisti del governo francese, sembra abbracciare l’idea che solo attraverso un ritorno a massicci interventi statali le magnifiche sorti e progressive dell’economia possano essere rinvingorite.
Questa prospettiva è a mio parere errata. Oggi noi vediamo la crisi e la disoccupazione che non accenna a fermarsi, in Europa come negli Stati Uniti. Ma dimentichiamo che da decenni la disoccupazione nella statalista Europa è circa 4 punti percentuali più alta che negli Stati Uniti, patria del liberismo. Oggi noi vediamo Londra e New York, centri della finanza irrazionale ed esuberante, in ginocchio. Ma dimentichiamo che l’Inghilterra ha ripreso a crescere grazie alle politiche liberiste di Margaret Thatcher e ha un reddito pro capite almeno del 15% superiore al nostro. Oggi noi vediamo l’Irlanda indebitata e in grave crisi, e così alcuni Paesi dell’Est come l’Estonia. Ma dimentichiamo che 30 anni fa l’Irlanda aveva un reddito pro capite pari a quello del nostro Sud mentre oggi è più del doppio. Oggi noi vediamo la crisi colpire i Paesi poveri nel mondo. Ma dimentichiamo che nel 1970 il 38% della popolazione mondiale viveva sotto la linea della povertà, mentre nel 2000 questa percentuale era del 19%.
Potrei continuare con altri «Oggi noi vediamo... Ma dimentichiamo...». Noto invece che questo esercizio retorico risulta particolarmente facile usando l’Italia come riferimento rispetto ai Paesi più liberisti. Questo naturalmente perché l’Italia ha uno dei sistemi pubblici più inefficienti del mondo sviluppato. L’istruzione e la sanità hanno qualche isola felice, ma la giustizia è imbarazzante, l’amministrazione politica locale in molte aree è invasa dalla criminalità organizzata, la classe politica centrale è tra le peggiori e più costose d’Europa, la spesa pubblica è fuori controllo, e il sistema fiscale permette tassi di evasione inimmaginabili nel resto del mondo civile. Se gli Stati Uniti possono ragionevolmente concepire un nuovo ruolo dell’intervento pubblico nello Stato, in Italia lo Stato ha avuto ininterrottamente un ruolo centrale nel sistema economico. Dal corporativismo fascista allo statalismo democristiano, dalla social-democrazia della sinistra riformista all’anti-mercatismo del ministro Tremonti. Se gli Stati Uniti hanno spazio per allargare il ruolo dello Stato, l’Italia ha spazio solo per ridurlo. Soprattutto al Sud, dove la presenza dello Stato è più massiccia e la sua inefficienza è di conseguenza molto maggiore. Il danno più profondo che la crisi possa fare all’economia italiana è proprio quello di rallentarne il già lentissimo passaggio verso una economia di mercato.
Ma anche negli Stati Uniti la battaglia per uno Stato interventista efficiente è impari. Anzi, già vi si osservano preoccupanti segnali di «italianizzazione». I generosi fondi federali allo Stato di New York, che dovevano servire a garantire che scuole e ospedali superassero la crisi, sono risultati in una quantità di spese clientelari come mai si era visto. Il Tesoro, che siede su migliaia di miliardi di dollari per ricapitalizzare il mercato finanziario, è ostaggio di una oligarchia di banchieri che richiede sussidi per socializzare le perdite passate e garanzie contro possibili perdite future. Così come l’autorità «indipendente» preposta alle regole di contabilità delle società, che accorda nuovi meccanismi che permettono alle banche bilanci «allegri» e «creativi». Tutto questo non per sostenere che la mancanza di regolamentazione della finanza non stia alla radice della crisi. Migliori meccanismi sovrannazionali di regolamentazione della finanza sono certamente desiderabili. Ma la soluzione drastica di ritorno allo Stato che molti governi sembrano oggi favorire sarà dannosa per gli Stati Uniti, e molto più per l'Italia che ha uno Stato tremendamente inefficiente e rischia di trovarsi con le banche controllate dai prefetti.
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