lunedì 27 aprile 2009

Nubi sulla Casa Bianca


di Antonio Carlucci

Dopo quasi cento giorni di governo, la luna di miele tra Obama e gli Usa sembra già finita. Le riforme non decollano. E i nemici più agguerriti sono nel suo partito da New York

Quando è a Washington, Barack Obama comincia la giornata sempre allo stesso modo. Nell'Ufficio Ovale intorno alle 9 del mattino, per l'aggiornamento sulla questione sicurezza con il generale dei marines James Jones, subito dopo lo stato dell'economia per la viva voce di Larry Summers. A seguire, l'incontro con i principali collaboratori, dal capo di gabinetto Rahm Emanuel al consigliere anziano David Axelrod, dal portavoce Robert Gibbs all'interfaccia con governatori e sindaci americani Valerie Jarrett. Poi, prende avvio una lunga giornata fatta di incontri e, soprattutto, di discorsi nei quali Obama annuncia le scelte che farà di lì a poche ore o giorni, oppure spiega il senso e la portata di quelle appena fatte. Così, sempre, dal 20 gennaio scorso quando giurò da presidente.

Lunedì 20 aprile, invece, per la prima volta ha riunito i suoi ministri alla Casa Bianca. Obiettivo: discutere con ciascuno di loro, e tutti insieme, come tagliare 100 milioni di dollari di progetti federali che sono ritenuti inutili. La cifra che Obama intende risparmiare in una fase di crisi e recessione è importante in assoluto. Ma 100 milioni di dollari sono una briciola rispetto all'impegno finanziario del governo per salvare banche e assicurazioni (700 miliardi di dollari), a quello per rimettere in moto l'economia (787 miliardi), al budget per il prossimo anno fiscale che porta l'impegno totale del Tesoro a 2,5 miliardi di dollari, con un deficit di lungo termine di un trilione di dollari. Ecco che allora quei 100 milioni da risparmiare appaiono nella loro dimensione politica come noccioline. Lo ha ammesso lo stesso Obama che, però, ha spiegato: "Nessuno di questi tagli fa da solo la differenza. Ma noi abbiamo l'obbligo di essere un governo il più efficiente possibile in modo che ogni dollaro che viene dalle tasse dei cittadini sia speso con buon senso".

L'obiettivo vero di Obama in questo momento è il Congresso, deputati e senatori che devono vagliare i progetti della Casa Bianca e che non gli hanno sempre reso facile il lavoro. Che i repubblicani facciano di tutto per dimostrare che le scelte della Casa Bianca non siano quelle giuste rientra nella logica di due partiti contrapposti, anche se Obama li ha più volte invitati a guardare all'interesse generale dell'America e non a quello del proprio partito. Il problema sono le resistenze all'interno del Partito democratico. È normale che solo tre senatori repubblicani, ad esempio, abbiano deciso di votare a favore della legge di stimolo all'economia voluta dalla Casa Bianca, mentre tutti i deputati hanno votato no. È molto meno comprensibile che molti congressman democratici abbiamo cambiato interi capitoli di quella legge (e anche di un'altra che era in parlamento dall'era Bush del valore di 180 miliardi di dollari) per inserire progetti che soddisfacevano gli appetiti di lobbies e clan politici locali.

Ma il segnale che più ha preoccupato la Casa Bianca è stata la scelta della maggioranza democratica di affondare un progetto di riduzioni dei sussidi all'agricoltura per un miliardo di dollari l'anno. E, subito dopo, la modifica sostanziale della proposta di coinvolgere le assicurazioni private per sostenere i costi sanitari dei veterani di guerra. I principali consiglieri di Obama hanno negato apertamente che dopo questi due episodi il presidente abbia deciso di ammorbidirsi su altre questioni per evitare di far salire la temperatura dello scontro. Come valutare altrimenti l'intenzione manifestata molto sottovoce dalla Casa Bianca, di non voler riproporre il bando alla vendita pubblica di armi e fucili d'assalto che era scaduto nel 2004?

Il pragmatismo sembra ispirare le scelte presidenziali mentre si avvicina il traguardo dei primi cento giorni. Il chief of staff ha così spiegato al 'New York Times' la situazione: "Non abbiamo un fronte unico sul quale incidere con le riforme, ma più fronti contemporanei che sono l'educazione, la sanità, l'industria della difesa, i lobbisti". E alla Casa Bianca sottolineano i successi: non soltanto la legge di stimolo all'economia, ma anche altri 350 miliardi di dollari per le istituzioni finanziarie in pericolo, la legge sulla parità dei salari tra uomo e donna, altri 4 milioni di bambini sotto assicurazione sanitaria, compresi i figli degli immigrati legali.

Ma adesso si avvicina una grande stagione di battaglie parlamentari dove lobbies e gruppi di pressione potranno rallentare seriamente i progetti di Barack Obama. Come reagirà il Congresso quando si tratterà di discutere la diminuzione degli sgravi fiscali a cominciare dalla beneficenza che, a detta del presidente, serviranno ad allargare l'assicurazione sanitaria a milioni di americani che non possono permetterselo? E quale sarà la reazione dei deputati e senatori democratici che si riconoscono nel gruppo dei Blue Dog, che in materia fiscale vanno assai d'accordo con i repubblicani? E che cosa accadrà quando Obama deciderà di mandare al Congresso il più volte annunciato aumento delle tasse per i più ricchi? Per adesso il campo di battaglia lascia intravedere le mosse principali con una divisione ferrea dei compiti. Il presidente parla alla nazione ogni volta che può, ribadendo le linee generali della sua politica. E con i suoi più vicini collaboratori, Emanuel, Axelrod, la Jarret e il capo del budget Peter Orszag che fanno la spola con i deputati e senatori più influenti - sia democratici che repubblicani - per sgombrare il campo da ostacoli imprevisti.

Sulla scena internazionale il traguardo dei primi cento giorni alla Casa Bianca si presenta apparentemente meno problematico. Da un punto di vista generale Obama è riuscito a cogliere un risultato positivo, ma la cui reale portata potrà essere valutata entro qualche mese. Per adesso, a parole, il presidente degli Stati Uniti ha fatto crollare il muro dell'unilateralismo eretto in otto anni di presidenza da George Bush: tutto fondato sulla ideologia neocon che teorizzava il diritto degli Stati Uniti a decidere non solo per se stessi, ma anche per conto degli altri che cosa fosse giusto e che cosa sbagliato, che cosa moralmente accettabile e che cosa no. Una politica che l'ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite John Bolton ha esplicitato perfettamente con il titolo del suo ultimo libro: 'La resa non è una opzione'.

Dal 20 gennaio in poi Obama ha teso più volte la mano dell'America verso gli avversari degli anni passati e il segretario di Stato Hillary Clinton ha interpretato fedelmente la linea presidenziale. Ovvero: anche in politica estera il pragmatismo deve essere al centro delle relazioni bilaterali e multilaterali.

Obama ha presentato al mondo musulmano durante il suo viaggio in Turchia, un'America che non ha nessuna voglia di guerre di religione. Ha ripetuto che il desiderio di Washington in Medio Oriente è la pace tra arabi e israeliani con la coesistenza fianco a fianco di Israele e di uno Stato palestinese. Ha avviato le procedure per il ritiro delle truppe dall'Iraq e ha messo in moto un maggiore impegno sul primo fronte di guerra, l'Afghanistan. Obama ha perfino schiuso la porta per un confronto con l'Iran. E nel penultimo weekend di aprile ha aperto la porta del dialogo con Cuba e ha rimesso in moto lo scambio diplomatico con il presidente venezuelano Hugo Chávez.

Tutta in discesa la strada all'estero per la Casa Bianca? Presto per dirlo. Perché la Corea del Nord, uno degli avversari storici degli Usa, dopo aver manifestato segni di abbandono delle sue velleità missilistiche e nucleari, ha ripreso il giochetto che gli riesce perfettamente da quasi 15 anni. Fingersi d'accordo con la comunità internazionale, poi improvvisamente manifestare voglie militariste e lanciare uno o due missili, quindi sedersi al tavolo delle trattative e ottenere soldi e aiuti per fermare tutto. Salvo poi ricominciare. E il mondo è pieno di governanti come quelli della Corea del Nord.

(24 aprile 2009)

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