Quando muore un essere umano, finisce un tempo: il «suo» tempo. Quando una donna, Roberta Tatafiore, che è stata protagonista di un tempo collettivo - il femminismo - decide liberamente che il suo tempo è finito, è facile che si sentenzi che anche quel tempo collettivo, quella cultura - il femminismo - è suicida. Eccoci qui, il giorno dopo l’addio a Roberta Tatafiore, con Alessandra Bocchetti, figura grande del neofemminismo italiano - dei suoi tanti scritti ricordiamone qui almeno uno, quello magistrale e incandescente sulla guerra datato 1984 - a passare al setaccio un quarantennio di storia. Di storia «matria»: storia, cioè, e cronaca, e quotidianità delle donne italiane. Per capire cosa del femminismo - per esempio di quelle parole che oggi a molti e molte sembrano archeologia, come «autocoscienza» - sia vivo e cosa sia morto.
Per cominciare, del femminismo italiano, stabiliamo una data di nascita: «1970, "Sputiamo su Hegel" di Carla Lonzi. Il femminismo, come avviene per i movimenti, è risultato dalla somma di tanti rivoli che si univano. Ma se devo trovare una data è quella dell’uscita di questo libro. E del passaggio fondamentale dal concetto di emancipazione a quello di differenza. Altro passaggio, dalla ricerca di libertà in senso generico alla liberazione. Per cambiare bisognava cambiare noi stesse. Da qui la domanda “che cosa è una donna?”. Sembrava una domanda assurda da rivolgerci, invece è stata fondamentale» risponde.
Classe 1942, da sempre a sinistra, da ragazzina militante nella Fgci romana, laureata in Lettere, lei, ricorda, femminista lo è diventata in un certo senso tardi, appunto quando la parola d’ordine è diventata «differenza». «Perché» dice Alessandra Bocchetti «il pensiero dell’uguaglianza mi sembrava misero. Mi sembrava umiliante andare dietro gli uomini, ripetere i loro passi. Pensavo che bisognasse cercare una strada originale e guadagnarla attraverso il nostro pensiero».
Se scriviamo «neofemminismo» - chiariamolo per le più giovani - è perché si considera che quello degli anni Settanta sia una riapparizione carsica - e una fase inedita - d’un movimento delle donne che ha percorso l’intero Novecento: di femminismo si parlava già a fine Ottocento. Ma, appunto, la svolta è il passaggio da una lotta emancipazionista, per l’uguaglianza e la parità, a quest’altra. Oggi, guardando indietro, è possibile individuare, dal 1970 in poi, delle fasi del neofemminismo: infanzia, adolescenza, maturità, senescenza? «No, perché la fase della differenza è appena cominciata. Nella struttura della società c’è uno scarsissimo segno della presenza femminile. Facciamo un esempio concreto: il ministro Brunetta polemizza con le impiegate statali che fanno la spesa durante l’orario di lavoro, e non ci si rende conto che è l’organizzazione sociale stessa a obbligare a questa trasgressione (sono molte le cose delle quali non si rende conto, n.d.r.). Se la presenza delle donne fosse registrata, i negozi sarebbero aperti il sabato e la domenica. Molte donne hanno studiato la questione dei tempi e degli orari, ma la traduzione è mancata».
Nei primi anni Novanta le donne del Pds elaborarono in effetti una «legge sui tempi» ambiziosa, una specie di «programma fondamentale» come si diceva ancora all’epoca col residuo linguaggio del Pci. Ecco, il rapporto con la politica maschile può farci leggere delle fasi del movimento femminista? Pensiamo alla fragorosa rottura con Lotta Continua nel 1975, pensiamo subito dopo alla legge sull’aborto. «Sull’aborto successe questo: che ci alleammo con l’Udi, l’Unione Donne Italiane, questa grandissima e articolata associazione, legata soprattutto al Pci, ma anche al Psi. L’Udi pose un aut-aut e, obtorto collo, il Pci abbracciò la lotta. Anni dopo, per tramite della figura della responsabile femminile Livia Turco, ci fu l’avvicinamento del Pci al femminismo, nacque la “Carta delle donne” ed ebbe un successo grandissimo. Le elezioni successive, nel 1986, furono quelle in cui la sinistra mandò più elette in Parlamento. Ma poi con amarezza, con amarezza personale mia, ci accorgemmo che l’interesse del partito per il movimento era puramente strumentale. Non ne seguì nulla. Ancora adesso continua a non seguirne nulla. La sinistra, alle donne, la parola l’ha tolta, non gliel’ha data. Il tema della libertà delle donne, classico della sinistra, è il più disatteso in assoluto, il più deluso».
Ci si può chiedere se si può ottenere qualcosa quando un movimento - di massa, forte - non esiste più. Secondo Alessandra Bocchetti quand’è che quello delle donne ha dato l’ultimo segnale di vita? «L’ultima volta che siamo state tante, tantissime, è stato a giugno del 1995, quando scendemmo in piazza col documento “La prima parola e l’ultima”. Perchè c’erano le elezioni politiche e ci eravamo accorte che la sinistra cominciava a contrattare la sua andata al governo, cedendo le conquiste delle donne. Vedi, l’aborto. Cominciava insomma quel tragico dialogo che le avrebbe fatto perdere la sua identità. Per tre mesi quel documento nostro tenne banco e condizionò l’agenda politica».
Tre anni fa, di nuovo in difesa dell’autodeterminazione in tema di procreazione e aborto, ci fu una nuova, brevissima fiammata: l’autoconvocazione sotto l’insegna «Usciamo dal silenzio». Ma, appunto, un seguito non s’è visto. Il movimento si è inabissato? Alessandra Bocchetti legge, nella nostra scelta del termine, un giudizio palese. Replica: «No, non si è inabissato. Il movimento è - di per sé - una scarica di energia che lascia sul campo delle idee. Che, poi, devono essere portate avanti nella società. E questo semmai è mancato in Italia. Strano, perché il nostro era un femminismo fortissimo. Però molto rivolto a se stesso, molto nel segno di una profonda ricerca di sé. La vulgata dice che il femminismo era la lotta delle donne contro gli uomini. Niente di più falso. Era una ricerca del pensiero di sé, la nascita di un soggetto. Certo, poi saltavano i matrimoni. Ma per effetto indiretto. Il fine non era quello. Il femminismo italiano degli uomini proprio non si è occupato. Ecco, oggi il femminismo forse non c’è più, ma ci sono le femministe». Quarant’anni dopo sul terreno sono di più le macerie o le speranze? «La conquista fondamentale che è avvenuta è questa: tutte le donne oggi, del Nord e del Sud, casalinghe o superlaureate, pensano di avere diritto alla ricerca della propria felicità. Quest’idea le nostre madri non ce l’avevano data: mia madre mi parlava di dovere, di bontà. La parola ”felicità” non l’usava mai. Che cosa vuole una donna, appunto? Ma è contro quest’idea che assistiamo a una tremenda controriforma. Io non me la sento di dire che le donne oggi sono felici. La società vive un momento durissimo, tremendo, di infelicità grande. Tra il diritto di ricerca della propria felicità e l’essere felici, c’è ancora un mare. Però è questa l’idea che alla lunga rovescia il mondo».
Per cominciare, del femminismo italiano, stabiliamo una data di nascita: «1970, "Sputiamo su Hegel" di Carla Lonzi. Il femminismo, come avviene per i movimenti, è risultato dalla somma di tanti rivoli che si univano. Ma se devo trovare una data è quella dell’uscita di questo libro. E del passaggio fondamentale dal concetto di emancipazione a quello di differenza. Altro passaggio, dalla ricerca di libertà in senso generico alla liberazione. Per cambiare bisognava cambiare noi stesse. Da qui la domanda “che cosa è una donna?”. Sembrava una domanda assurda da rivolgerci, invece è stata fondamentale» risponde.
Classe 1942, da sempre a sinistra, da ragazzina militante nella Fgci romana, laureata in Lettere, lei, ricorda, femminista lo è diventata in un certo senso tardi, appunto quando la parola d’ordine è diventata «differenza». «Perché» dice Alessandra Bocchetti «il pensiero dell’uguaglianza mi sembrava misero. Mi sembrava umiliante andare dietro gli uomini, ripetere i loro passi. Pensavo che bisognasse cercare una strada originale e guadagnarla attraverso il nostro pensiero».
Se scriviamo «neofemminismo» - chiariamolo per le più giovani - è perché si considera che quello degli anni Settanta sia una riapparizione carsica - e una fase inedita - d’un movimento delle donne che ha percorso l’intero Novecento: di femminismo si parlava già a fine Ottocento. Ma, appunto, la svolta è il passaggio da una lotta emancipazionista, per l’uguaglianza e la parità, a quest’altra. Oggi, guardando indietro, è possibile individuare, dal 1970 in poi, delle fasi del neofemminismo: infanzia, adolescenza, maturità, senescenza? «No, perché la fase della differenza è appena cominciata. Nella struttura della società c’è uno scarsissimo segno della presenza femminile. Facciamo un esempio concreto: il ministro Brunetta polemizza con le impiegate statali che fanno la spesa durante l’orario di lavoro, e non ci si rende conto che è l’organizzazione sociale stessa a obbligare a questa trasgressione (sono molte le cose delle quali non si rende conto, n.d.r.). Se la presenza delle donne fosse registrata, i negozi sarebbero aperti il sabato e la domenica. Molte donne hanno studiato la questione dei tempi e degli orari, ma la traduzione è mancata».
Nei primi anni Novanta le donne del Pds elaborarono in effetti una «legge sui tempi» ambiziosa, una specie di «programma fondamentale» come si diceva ancora all’epoca col residuo linguaggio del Pci. Ecco, il rapporto con la politica maschile può farci leggere delle fasi del movimento femminista? Pensiamo alla fragorosa rottura con Lotta Continua nel 1975, pensiamo subito dopo alla legge sull’aborto. «Sull’aborto successe questo: che ci alleammo con l’Udi, l’Unione Donne Italiane, questa grandissima e articolata associazione, legata soprattutto al Pci, ma anche al Psi. L’Udi pose un aut-aut e, obtorto collo, il Pci abbracciò la lotta. Anni dopo, per tramite della figura della responsabile femminile Livia Turco, ci fu l’avvicinamento del Pci al femminismo, nacque la “Carta delle donne” ed ebbe un successo grandissimo. Le elezioni successive, nel 1986, furono quelle in cui la sinistra mandò più elette in Parlamento. Ma poi con amarezza, con amarezza personale mia, ci accorgemmo che l’interesse del partito per il movimento era puramente strumentale. Non ne seguì nulla. Ancora adesso continua a non seguirne nulla. La sinistra, alle donne, la parola l’ha tolta, non gliel’ha data. Il tema della libertà delle donne, classico della sinistra, è il più disatteso in assoluto, il più deluso».
Ci si può chiedere se si può ottenere qualcosa quando un movimento - di massa, forte - non esiste più. Secondo Alessandra Bocchetti quand’è che quello delle donne ha dato l’ultimo segnale di vita? «L’ultima volta che siamo state tante, tantissime, è stato a giugno del 1995, quando scendemmo in piazza col documento “La prima parola e l’ultima”. Perchè c’erano le elezioni politiche e ci eravamo accorte che la sinistra cominciava a contrattare la sua andata al governo, cedendo le conquiste delle donne. Vedi, l’aborto. Cominciava insomma quel tragico dialogo che le avrebbe fatto perdere la sua identità. Per tre mesi quel documento nostro tenne banco e condizionò l’agenda politica».
Tre anni fa, di nuovo in difesa dell’autodeterminazione in tema di procreazione e aborto, ci fu una nuova, brevissima fiammata: l’autoconvocazione sotto l’insegna «Usciamo dal silenzio». Ma, appunto, un seguito non s’è visto. Il movimento si è inabissato? Alessandra Bocchetti legge, nella nostra scelta del termine, un giudizio palese. Replica: «No, non si è inabissato. Il movimento è - di per sé - una scarica di energia che lascia sul campo delle idee. Che, poi, devono essere portate avanti nella società. E questo semmai è mancato in Italia. Strano, perché il nostro era un femminismo fortissimo. Però molto rivolto a se stesso, molto nel segno di una profonda ricerca di sé. La vulgata dice che il femminismo era la lotta delle donne contro gli uomini. Niente di più falso. Era una ricerca del pensiero di sé, la nascita di un soggetto. Certo, poi saltavano i matrimoni. Ma per effetto indiretto. Il fine non era quello. Il femminismo italiano degli uomini proprio non si è occupato. Ecco, oggi il femminismo forse non c’è più, ma ci sono le femministe». Quarant’anni dopo sul terreno sono di più le macerie o le speranze? «La conquista fondamentale che è avvenuta è questa: tutte le donne oggi, del Nord e del Sud, casalinghe o superlaureate, pensano di avere diritto alla ricerca della propria felicità. Quest’idea le nostre madri non ce l’avevano data: mia madre mi parlava di dovere, di bontà. La parola ”felicità” non l’usava mai. Che cosa vuole una donna, appunto? Ma è contro quest’idea che assistiamo a una tremenda controriforma. Io non me la sento di dire che le donne oggi sono felici. La società vive un momento durissimo, tremendo, di infelicità grande. Tra il diritto di ricerca della propria felicità e l’essere felici, c’è ancora un mare. Però è questa l’idea che alla lunga rovescia il mondo».
16 aprile 2009
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