domenica 31 maggio 2009
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Quando la bestia si chiama uomo
Violenze. Abbandoni. Incuria. Commerci illegali. In Italia si moltiplicano i casi di maltrattamento degli animali. Spesso nella indifferenza delle istituzioni
Un quadro che gli attivisti Lav (Lega anti vivisezione) denunciano dal 2006: «L'unica alienante prospettiva visuale, per gli animali, è l'opprimente muro perimetrale», hanno scritto alla Procura. Hanno segnalato anche «la totale e ininterrotta costrizione in cattività, in spazi estremamente squallidi e angusti». Eppure non è servito. I magistrati non hanno ritenuto di procedere, e per la Asl locale il caso non esiste. Così si è andati avanti.
Con un dettaglio incredibile: il trasferimento in furgone, per 800 infiniti chilometri, di molte bestie imprigionate a Crispiano dentro un canile in provincia di Reggio Emilia, dove il titolare Claudio Balugani conferma il meccanismo. Anche se un documento della Regione Puglia, firmato dall'assessore alle Politiche della salute, specifica che «gli animali non possono essere ospitati in rifugi fuori dalla Regione». Anche se è una storia triste, e dolorosa per i cani che la devono subire. «La parola tabù è maltrattamento», commenta Maria Rosaria Esposito, fondatrice del Nirda (Nucleo investigativo forestale per i reati in danno agli animali): «Gli italiani si dichiarano grandi amici delle bestie, ma troppo spesso le trascurano. Le umiliano. Le trattano come oggetti e non esitano a sfruttarle: negli allevamenti, nei canili e anche in zoo e circhi che violano le regole».
Dal 2006 a oggi, non a caso, le indagini della Forestale hanno portato alla denuncia di 137 persone e a 5 .849 sequestri tra cani (3.635), gatti (760) e altri animali. Interventi realizzati grazie alla legge del 2004, sottolinea Esposito, che punisce con severe multe e il carcere (dai 3 ai 18 mesi) «chiunque sevizi o provochi, per crudeltà o senza necessità, la morte di un animale». Un buon deterrente, sulla carta. E altrettanto suggestivo, a livello internazionale, è il Trattato di Lisbona del dicembre 2007, in cui si dice che «l'Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali». Poi però c'è la quotidianità, fatta di canili come quello di Crispiano. O quello di Campobasso, dove i consulenti della Procura hanno trovato in un sopralluogo «pessime condizioni igienico-sanitarie, giacigli sporchi, acqua insufficiente » e bestie «con lesioni cutanee». Per non parlare del randagismo e dei maltrattamenti legati alle sue cause occulte.
«Perché la gente, a ragione, resta turbata quando i branchi di cani attaccano l'uomo», spiega l'ausiliario di polizia giudiziaria Bruno Mei Tomasi, presidente dell'Anta (Associazione nazionale tutela animali): «Ma l'abbandono di queste bestie non è casuale: alle spalle c'è un business da un miliardo e mezzo di euro». Un affare, testimonia Mei Tomasi, gestito silenziosamente da canili privati del Centrosud: «Lager indecenti che catturano gli animali (ottenendo dai Comuni tra i 2 ai 5 euro al giorno per il mantenimento), li fanno riprodurre in condizioni pietose, e liberano i nuovi nati per poterli riacciuffare».
Tutto senza problemi, da anni. In un clima generale che non si scompone per gli abusi sugli animali. Anzi: li tollera e sottovaluta, dicono le associazioni ambientaliste, «soprattutto nelle aree agricole dove le bestie sono strumenti di lavoro e profitto, e più in generale in provincia». Il 7 maggio, per esempio, sono stati uccisi a bastonate vicino a Perugia (Umbertide) quattro gattini con la madre, scaraventati nel giardino della signora che li accudiva. Tre giorni prima a Villa del Bosco, Biella, un uomo di 47 anni ha decapitato a colpi d'ascia un barboncino perché «creava ansia» alla fidanzata. Ma non è finita. Il 27 marzo, in provincia di Pordenone, una coppia di ventiduenni ha cercato di accoppiare un meticcio a un dobermann. E quando la bestia si è rifiutata, i ragazzi l'hanno massacrata con una stanga di ferro, attaccando la carcassa a un montacarichi e filmando la scena con il cellulare.
«Il tragitto è lungo, perché gli italiani imparino a rispettare gli animali», ammette il sottosegretario alla Salute Francesca Martini (Lega). Più in generale, «è la società occidentale a essere anti-animalista », sostiene Valerio Pocar, docente di Sociologia del diritto all'università di Milano- Bicocca (nonché autore per Laterza del saggio "Gli animali non umani"): «Si infierisce sulle bestie in quanto esseri inferiori», dice, «ed è uno schema riproposto nelle relazioni umane». Il risultato è che un pastore lodigiano, transitando con il gregge per la sua città, ha trovato naturale scaricare un agnello vivo nel cassonetto, perché non riusciva a tenere il passo. E con la stessa disinvoltura, un signore della provincia barese ha imprigionato il suo daino in un recinto di 30 metri quadri, ai bordi della provinciale, lasciandolo senza riparo dalla pioggia e il sole fino allo stremo (condanna a 5 mila euro di multa).
«Anche se attenzione», avvertono i forestali, «un conto sono le barbarie dei singoli cittadini, per quanto gravi, gravissime, un altro gli abusi reiterati dei commercianti». A cosa alludano, gli investigatori si capisce parlando con Alessandro, 36 anni, diploma di liceo scientifico, professione importatore clandestino di animali di razza. La sua attività, racconta senza imbarazzi, consiste nel trasferire cuccioli di cani, uccelli e quant'altro dai paesi dell'Est («Romania, soprattutto, ma anche Slovenia e Polonia») stipandoli dentro il doppio fondo del suo furgoncino, e vendendoli a negozianti e privati. «Un sistema rodato e molto diffuso», sorride. Certo, ammette, «un buon 20 per cento delle bestie non sopporta il viaggio, le trovo morte all'arrivo». E un'altra buona percentuale, aggiungono gli animalisti, muore nel periodo successivo, infestata da parassiti intestinali, cimurro e patologie ereditarie.
«Perché così vuole il mercato», denuncia Massimiliano Rocco, responsabile per il Wwf della lotta al traffico degli animali: «Troppe famiglie cercano esemplari di razza ma vogliono spendere poco. E se alla fine il cucciolo non è di razza e i proprietari se ne accorgono tardi, finisce che se ne sbarazzano». Per questo, per stroncare i mercati illeciti, il magistrato di Cassazione Maurizio Santoloci (responsabile dell'ufficio legale Lav) e altri specialisti dedicano corsi di formazione a tutte le forze di polizia, aiutandole a intervenire con velocità e competenza. «Anche se è una guerra impari», fa notare Mei Tomasi. Uno sforzo che s'incunea tra i due estremi italiani: «Da un lato i 500 milioni spesi nel 2008 per la toelettatura, le pensioni e l'addestramento degli animali d?affezione. Dall'altro il cinismo sfrenato di certi allevatori».
Recentissima, per citare un caso clamoroso, è la condanna a sei mesi di un allevatore di Godega di Sant'Urbano (Treviso), al quale i Nas hanno trovato 7 mila conigli abbandonati senza cibo, in parte morti ma lasciati in gabbia con quelli vivi. Altrettanto orribile è il fenomeno delle cosiddette "mucche a terra", che al macello Calzi di Bertodico (Lodi) è costato il patteggiamento a quattro mesi del titolare. Sotto accusa, in particolare, è il trattamento riservato alle vacche "da riforma": bestie massacrate dai cicli intensivi di produzione, non più in grado di alzarsi o camminare. «Per spostarle», documenta un'inchiesta svolta per otto mesi in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna dell'organizzazione internazionale Animal's Angels, «le colpiscono con pungoli elettrici, le trascinano con corde e catene, le alzano con verricelli e le caricano a forza sui camion».
Il tutto in barba al regolamento europeo, secondo cui «gli animali che presentino lesioni, problemi fisiologici o patologie, non vanno considerati idonei al trasporto». Premesse sconfortanti, oltre che fuorilegge. Ancora di più se confrontate con le riflessioni di Francesca Rescigno, docente di Istituzioni di diritto all'università di Bologna: «Neppure l'antropocentrismo giuridico più estremo», ha riferito a Montecitorio lo scorso ottobre, «può rimanere impassibile rispetto alle elaborazioni scientifico-dottrinali, che dimostrano come gli animali siano esseri senzienti ». Ormai, ha proseguito, è certo che le bestie sono «in grado di provare piacere e dolore, di avere desideri e aspettative». E appunto per questo «meritano di evolvere dalla condizione di cose a quella di soggetti». Resta il fatto, che chi fa business con gli animali applica parametri più spicci.
E la riprova, secondo gli investigatori, arriva da vicende come quella di Zoo Grunwald, società che «da trent'anni fornisce animali al cinema». Tra i registi nel suo curriculum, ci sono mostri sacri tipo Martin Scorsese e Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Bernardo Bertolucci. Eppure gli uomini del Nirda, perquisendo la sede romana, sono rimasti perplessi: «Tutta la struttura», spiega la relazione di servizio, era «in condizioni igienico-sanitarie e strutturali assolutamente inadatte a detenere animali». Le bestie, nel complesso, risultavano «sottoposte a notevole stress psicofisico ». I lupi si trovavano «in grave stato di denutrizione»; i serpenti giacevano in un locale senza «finestre, completamente imbrattato di feci dall'odore acre e nauseabondo »; i bovini venivano nutriti «con verdure marcescenti a contatto con il letame». E persino i pappagalli, erano «detenuti in condizioni pessime».
Il 15 luglio ci sarà la prima udienza del processo. Ma a prescindere dalla Zoo Grunwald, e dai sospetti che la riguardano, resta un disagio di fondo. È la sensazione che «il maltrattamento animale non sia soltanto una questione di regolamenti violati, ma anche un sintomo di imbarbarimento sociale», per usare le parole del giudice Santoloci. Non basta, insomma, la «vigilanza assoluta» assicurata dal sottosegretario Martini. E nemmeno il tavolo sul benessere animale, avviato meritoriamente «con le associazioni ambientaliste piccole e grandi, i veterinari, le Regioni e i dirigenti del ministero». Bisogna visitare una mattina qualunque (quella del 7 maggio scorso) lo zoo di Napoli, per rendersene conto. All'ingresso, infatti, campeggia la scritta «Abbiamo gettato le fondamenta per la rinascita dello zoo».
E anche sulle vecchie gabbie, chiuse per palese inadeguatezza, risaltano cartelli arancioni (in parte arrugginiti) dove si torna ad annunciare il «nuovo zoo», in cui «gli animali verranno esposti in spazi più ampi, che riprodurranno i loro ambienti naturali». Nel frattempo, però, lo spettacolo è quello riassunto da una nonna al nipotino: «Che tristezza...», dice scuotendo la testa. Ed è difficile darle torto. Davanti agli occhi, ha la fossa di cemento con spezzoni di legno dove un orso bruno, spelacchiato, ripete ciclicamente lo stesso percorso: un cerchio che non s'allarga e non si stringe. Identico e ossessivo.
La stessa sorte, d'altronde, toccata alle due tigri poco lontane, costrette in una gabbia ammuffita senza gli arricchimenti naturali previsti dalle norme Cites (Convention on international trade in endangered species of wild fauna and flora). Solo una pozzanghera d'acqua, spetta a questi felini, che la sfiorano camminando avanti e indietro, indietro e avanti. Alla fine, dopo avere visto e filmato anche l'elefante sotto al sole, in uno spazio privo di cespugli e alberi, fisso davanti al cancello del suo ricovero (chiuso, sostengono gli animalisti, per assicurare la visione al pubblico), lo sconforto è totale. E il disagio contagia, parlandone, anche il sottosegretario Martini: «In tempi stretti», promette, «invierò un'ispezione per verificare questa o altre situazioni ». Un intervento che molti, umani e animali, attendono fiduciosi.
(29 maggio 2009)
QUANDO I CLANDESTINI ERAVAMO NOI
“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali". "Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purchè le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".
Da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912.
Non ci andava meglio in Svizzera, negli anni ’70 con leader che scrivevano : “Le mogli e i bambini degli immigrati? Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». «Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano».
In quegli anni – ieri rispetto alla Storia - in Svizzera c’erano circa 30.000 bambini italiani clandestini, portati di nascosto dai genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle rigorose leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari, genitori terrorizzati dalle denunce dei vicini che raccomandavano perciò ai loro bambini: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere.
Prima degli anni ’50 gli italiani andavano a Bucarest per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere e alla scadenza del permesso di soggiorno restavano in Romania, clandestini. Nel 1942 il Ministro dell’Interno fu costretto ad inviare a tutti i Questori una circolare con la quale li si invitava a non far espatriare gli italiani in Romania.
In India, nel 1893, il console italiano scriveva a Roma per dire che in quella città tutti quelli che sfruttavano la prostituzione venivano chiamati “italiani”.
Tra la prima e la seconda guerra mondiale molti italiani andavano in America con passaporti falsi o biglietti inviati da pseudo parenti italo americani. In realtà una volta sbarcati li attendevano turni di lavoro massacranti perché ripagassero, senza stipendio, il costo di quel viaggio della speranza.
Non sono aneddoti. E’ storia, tratta dalla Mostra “Tracce dell’emigrazione parmense e italiana fra il XVI e XX secolo” (Parma, 15 aprile 2009).
Gian Antonio Stella, nel suo bellissimo libro “Quando gli albanesi eravamo noi”, ci ricorda che “….Quando si parla d'immigrazione italiana si pensa solo agli 'zii d'America', arricchiti e vincenti, ma nessuno vuole sapere che la percentuale di analfabeti tra gli italiani immigrati nel 1910 negli USA era del 71% o che gli italiani costituivano la maggioranza degli stranieri arrestati per omicidio” o ancora che il primo attentato nella storia con un’auto imbottita di esplosivo è stato fatto a New York, non da terroristi ma da criminali italiani contro una banda avversaria.
Forse ci ricordano che la nostra Terra gira, gira velocemente nello spazio e nel tempo creando nuovi ricchi ed ammassando nuovi poveri. I ruoli si invertono ma i clandestini restano anche se hanno un colore diverso. Fuggono da Paesi in cui l’unica prospettiva è morire per fame o morire per guerre volute da altri. Ed allora questa gente può solo correre, correre, correre impazzita verso il nord, verso il mediterraneo, verso quelli che credono essere orizzonti migliori.
Al Tappone & Topolanek
Totò, Silvio e le malefemmine
MARCO TRAVAGLIO
Nel solco della tradizione dei grandi comici, da Totò e Peppino a Benigni e Troisi, la ministra delle Troppe Opportunità, Mara Carfagna, ha scritto una lettera. Evento di tale portata da meritare una pagina del Corriere.
Se la lettera di Totò alla malafemmina iniziava con l’immortale «Veniamo noi con questa mia a dirvi…», l’incipit della Carfagna è un perentorio «Sono qui a dire la mia, se mi è consentito, forte e fiera del lavoro svolto».
Che tempra. «Lo faccio - rivela la pulzella di Salerno - perché ho testa, né più né meno di tanti pseudo-intellettuali che si ergono pomposamente a maestri di vita e scienza, etica e morale».
Ben detto, gliele ha cantate chiare.
Colonne di piombo si abbattono impietose sul povero lettore, pregne di concetti alati, quali «qui casca l’asino» e «si stava meglio quando si stava peggio»… Si attende invano un «signore si nasce, e io modestamente la nacqui», ma è sottinteso. Ed ecco la zampata della fuoriclasse: «Il Parlamento vede tra i suoi banchi uomini dalle assai dubbie capacità politiche». Vero. «Condannati per banda armata, omicidio, esplosivi, rissa (allude a Maroni?, ndr)… onorevoli che hanno ammesso di prostituirsi (ci sarebbe anche un condannato per mafia, ma nella foga le è sfuggito, ndr). E nessuno si è scandalizzato, mai». Parole sante. Invece chi «indigna, scandalizza e inquieta»? Il povero Silvio, «uomo leale, perbene e rispettoso, persona di garbo e gentilezza, mai prepotente e arrogante, consapevole di una innata capacità seduttiva».
Manca solo il tocco finale: «Malcostume, mezzo gaudio».
Punto, punto e virgola, due punti.
Doppiezze televisive
Ma come, la tivù italiana che tutti dicono invasa dai reality, succube del gossip, la tivù berlusconiana che dagli Anni 80 ha modernizzato il costume rendendolo moralmente più easy, meno bacchettone, più tollerante sulle libertà sessuali, questa televisione tace quasi compatta sul Noemigate?
Quel Noemigate che dovrebbe essere pane per i suoi denti, pozzanghera in cui sguazzare. La cosa si può vedere in due modi: o come un ordinario fenomeno di autocensura (quasi nessuno osa affrontare un tema che gli inimicherebbe immediatamente il presidente del Consiglio) o come un segno di maturità (meno male che il gossip sa dove e quando fermarsi). Forse si può affrontare la questione da un terzo punto di vista: che cosa questo imbarazzato silenzio ci dice sulla televisione stessa, sul suo quoziente di lucidità.
Di fronte al groviglio oggettivo di contraddizioni, alle affermazioni avventate che hanno dovuto essere corrette in corso d’opera, a testimonianze che è difficile smontare e che si stanno pericolosamente moltiplicando, i latrati di sdegno che i politici di destra esibiscono nei dibattiti (i vari «vergogna!» contro «una barbarie che non ha limiti») sembrano francamente insufficienti. Una strategia più astuta era quella indicata qualche giorno fa da Giuliano Ferrara sul Foglio - suggerire al premier di virare verso una versione soft: ebbene sì, avere ragazze belle e giovani intorno mi fa sentire vivo, mi piace vederle ballare e sentirle cantare, perfino (perché no?) scherzarci e tenerle sulle ginocchia; che c’è di illegale, o anche solo di male, nel mio comportamento? Questa è la direzione su cui camminano innumerevoli programmi televisivi, un edonismo epicureo che può essere sostenuto con argomenti non volgari. Ma da quando Berlusconi si è avvalorato come il conduttore indiscusso dell’Italia moderata, lui stesso non può più giovarsi apertamente di quegli argomenti - è costretto ad andare ingessato da Vespa, non a un programma di Papi (Enrico) o a Chiambretti Night.
Da allora la (presunta) libertà televisiva dei costumi è implosa ed è cominciato un regime di doppiezza; si è pretesa dagli spettatori una diversa sensibilità etica a seconda delle trasmissioni: meglio che l’occhio e l’orecchio destro non sappiano quel che ascoltano e vedono l’occhio e l’orecchio sinistro. Basta non intignarsi con la coerenza, non tirare mai le somme. Anche per gli autori, basta sentirsi eticamente superiori ai programmi che si fanno, tirarsene fuori. Come in sogno, a occhi chiusi: essere sintomo di liberazione e magari di libertinismo, senza assumersi il duro compito di trarne esplicite conseguenze culturali.
Nemmeno il «Noemigate» metterà in crisi questo comodo, anfibio doppio registro: tanto, anche per i talk più aggressivi funzionerà un altro collaudatissimo meccanismo televisivo: che un tormentone troppo spesso ripetuto genera sazietà. La verità in tivù è indimostrabile, il rumore di fondo la impedisce: e allora basta con questa Noemi, o Naomi - anzi, Noemi chi?
Vacuità della politica
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio s’indigna per il trattamento che gli riservano i magistrati che lo processano, o i giornalisti che indagano sulla spregiudicatezza con cui mescola condotte private e pubbliche. S’indigna a tal punto che le due figure - il magistrato, il giornalista - sono equiparate a quella del delinquente: è avvenuto giovedì all’assemblea della Confesercenti. Le tre categorie sono assimilate a loro volta all’opposizione politica. Le accuse che vengono loro rivolte sono essenzialmente due. Primo, l’offesa al popolo sovrano, al consenso che esso ha dato alle urne e che imperturbato rinnova nei sondaggi. Secondo, la natura pretestuosa di tali attacchi antidemocratici: il primato dato alla forma sulla sostanza, ai problemi finti degli italiani su quelli veri, allo show sulla realtà, al gossip sulla politica del leader.
L’accusa va presa sul serio, perché il premier ha costruito il proprio carisma sulla maestria dello show e non ha concorrenti in materia. In particolare sa abbandonarlo, se serve, e presentare l’avversario come vero manipolatore della società dello spettacolo. Come ha scritto Carlo Galli, «il suo vero potere è sul linguaggio e sull’immaginario»: qui è l’egemonia che dagli Anni 80 esercita sul senso comune degli italiani, e che l’opposizione non ha imparato a scalfire (la Repubblica 25 maggio).
Ma qualcosa si va scheggiando, in questo perfetto potere d’influenza, come accade agli apprendisti stregoni che non dominano più interamente i golem fabbricati.
Il gossip, lo show, il privato che fagocita il pubblico, i problemi veri semplificati fino a divenire non-problemi, dunque falsi problemi: questi i golem, e tutti provengono dalle officine del berlusconismo. Sono la stoffa della sua ascesa, gli ingredienti della sua egemonia culturale in Italia. Quel che succede oggi è una nemesi: il problema finto divora quello vero, show e gossip colpiscono chi li ha messi sul trono. All’estero la condanna è dura. Non da oggi, certo: l’Economist lo giudicò «inadatto a governare» il 28 aprile 2001, sono passati anni e Berlusconi resta forte. Ma lo sguardo esterno stavolta s’accanisce, perché finzioni e non-verità si accumulano.
Il fatto è che nel frattempo il mondo è cambiato, attorno a lui. Berlusconi è figlio di un’epoca di vacuità della politica: il mercato la scavalcava impunemente, ignorando ogni regola; l’imprenditore-speculatore sembrava più lungimirante e realista del politico di professione. Il liberalismo dogmatico regnò per decenni, e Berlusconi fu una sua escrescenza. Ma questo mondo giace oggi davanti a noi, squassato dalla crisi divampata nel 2008. La regola e la norma tornano a essere importanti, il realismo dei boss della finanza è screditato, la domanda di politica cresce. È quel che Fini presagisce: senza dirlo si esercita in toni presidenziali, conscio del prestigio miracolosamente sopravvissuto del Colle. La crisi del 2007-2008 è sfociata in America nella sconfitta di Bush, ma quel che Pierluigi Bersani ha detto in una recente conferenza è verosimile: «Il capitalismo non finisce, ma finisce una fase ad impronta liberista della globalizzazione. E non finisce perché c’è Obama, ma c’è Obama perché finisce».
Questo spiega come mai Berlusconi - a seguito della sentenza Mills che lo indica come corruttore di testimoni e della vicenda Noemi in cui appare come boss che esibisce private sregolatezze fino a sfidare il tabù della minorenne - irrita più che mai chi ci guarda da fuori. Un’irritazione che si accentua di fronte ai troppi nascondimenti della verità: nel caso Mills la verità di sentenze che non sono tutte di assoluzione ma anche di prescrizione o assenza di prove; nel caso Noemi la verità di incontri poco chiari. Non dimentichiamolo: quando si incolpano le bolle, finanziarie o politiche, è di menzogne e sortilegi che si parla.
Quel che finisce, attorno a noi, è la negligenza dell’imperio della legge, della rule of law. Non tramonta solo il dogma del mercato onnisciente ma la figura del sovrano-boss, eletto per stare sopra le leggi, i magistrati, le costituzioni, le istituzioni. La fusione tra il suo interesse-piacere privato e il suo agire pubblico diventa un male non più minore ma maggiore, perché nelle democrazie c’è sete di regole e istituzioni, dopo lo sfascio, e non di favole ottimiste ma di realtà e verità. C’è bisogno di gesti fattivi e antiburocratici come la presenza in Abruzzo o a Napoli sui rifiuti, ma c’è anche bisogno di cose che durino più di una legislatura e non siano bolle. È utile osservare l’America, oggi: l’immenso sforzo pedagogico che sta compiendo Obama, per convincere i cittadini che il breve termine è letale, che la Costituzione e le norme devono durare più dei politici.
Deve poter durare il sistema di checks and balances innanzitutto: l’equilibrio tra poteri egualmente forti e indipendenti. Il presidente americano sta riconquistando l’egemonia della parola, con linguaggio semplice e vera passione pedagogica. Il suo discorso su Guantanamo e terrorismo, il 21 maggio, lo conferma: «Nel nostro sistema di pesi e contrappesi, ci deve essere sempre qualcuno che controlli il controllore. Tratterò sempre il Congresso e la giustizia come rami del governo di eguale rango». Berlusconi va oggi controcorrente: all’estero non ha altra sponda se non quella di Putin, figura tipica di politico-boss.
Tuttavia la società italiana gli crede ancora, e questo consenso varrà la pena studiarlo, con la stessa umile immedesimazione mostrata da Obama. Varrà la pena studiare perché gli italiani somigliano tanto ai russi, come se anch’essi avessero alle spalle regimi disastrosi. Perché tanta sfiducia verso le regole, lo Stato, la res publica. Non esiste una congenita debolezza morale degli italiani, e dunque occorre capire come mai la politica è così profondamente sprezzata, il conflitto così radicalmente temuto. La tesi esposta più di vent’anni fa dallo studioso Carlo Marletti è tuttora valida: è vero che da noi esiste un «eccesso di pluralismo e complessità che le istituzioni legali non semplificano» adeguatamente. E che al loro posto si sono installate auto-organizzazioni informali, claniche o familiste, che non sono arcaiche ma si sono adattate alla modernità meglio di altre. Marletti spiega come lo sviluppo industriale si sia mescolato alla criminalità organizzata e come si siano creati, in assenza di uno Stato che semplifichi la complessità, meccanismi di semplificazione sostitutivi, solidaristico-clientelari, «di tipo nero o sommerso» (Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984).
Berlusconi prometteva questa fuga nella semplificazione deviante, meno ingarbugliata che ai tempi della Dc. Secondo il filosofo Václav Belohradsky, essa è basata sul prevalere dei fini personali o corporativi sui mezzi che sono le norme prescritte a chi vuol realizzare tali fini. Tra i due elementi è saltata ogni coerenza ed è il motivo per cui l’Italia vive nell’anomia sociale, come fosse fuori-legge.
In Italia accade questo: le mete del singolo sono tutto, le norme nulla. La legalità vale per gli altri (i clandestini), non per noi, scrive Carlo Galli. Per noi le leggi sono d’impedimento: quelle italiane e anche quelle dell’Unione Europea, come ha ripetuto Berlusconi alla Confesercenti. L’opposizione potrebbe ripartire da qui: dalle norme pericolosamente sprezzate, dall’Europa che il governo finge di poter aggirare senza rischi, dalla sovranità nazionale che esso finge di possedere, a cominciare dal clima. La commistione privato-pubblico ha condotto a tutto questo, non è solo la storia di un padre, di una moglie mortificata, dei loro figli. I più preveggenti dicono: dopo la crisi il mondo non sarà più eguale. Berlusconi promette di conservarlo: anche questo è bolla, ed è spinta rivoluzionaria che si sta esaurendo.
La nazione degli elusi
A una settimana dal voto europeo l'incertezza elettorale rimane alta. Non solo: aumenta. Secondo alcuni sondaggi, la quota degli indecisi nelle ultime settimane si è, infatti, allargata sensibilmente. Era inferiore a un quarto degli elettori, un mese fa. Oggi è quasi un terzo.
È singolare, perché l'avvicinarsi della scadenza, normalmente, produce l'effetto opposto. Il passaggio dall'indecisione alla decisione. Occorre, certo, considerare la particolarità di questa consultazione. La partecipazione alle europee, infatti, è sempre più limitata rispetto alle altre elezioni. In Italia, nel 2004, ha votato il 73% degli aventi diritto. Una percentuale, peraltro, molto superiore agli altri paesi della Ue (la cui media complessiva fu del 45%). Il fatto è che le elezioni europee hanno un significato diverso delle altre, per gli elettori. In Italia, il paese più eurofilo, in questa campagna non si è mai parlato di Europa. Manco per sbaglio. Ciò che interessa ai partiti e ai media sono gli effetti del voto "interni" all'Italia. Sui rapporti tra maggioranza e opposizione. Sugli equilibri inter-partitici della maggioranza e dell'opposizione. Tuttavia, se si escludono i temi della sicurezza e dell'immigrazione, il dibattito ha trascurato anche le questioni nazionali. Si è, invece, concentrato intorno ai fatti personali e familiari del presidente del Consiglio. E ciò ha alimentato la tentazione di molti elettori di non partecipare al voto. "Usando" il voto, ma anche il "non voto", come un segnale. Come avvenne nel 2004, quando a pagare fu soprattutto Forza Italia. Abbandonata da un'ampia quota di elettori delusi. Fi ottenne, allora, 6 milioni e 800mila voti, il 21% sul totale dei voti validi. Cioè: 4 punti percentuali e 1 milione meno delle precedenti elezioni europee del 1999, ma 4 milioni e l'8% in meno rispetto alle politiche del 2001. Il recupero inatteso del centrodestra, e soprattutto di Fi, in occasione delle elezioni politiche del 2006, in effetti avvenne soprattutto mobilitando gli astenuti del 2004. Riportando alle urne i "delusi".
Per questo conviene fare attenzione al popolo degli incerti. Alla sua evoluzione, che in questa fase appare in controtendenza rispetto al consueto. Questo fenomeno ha diverse facce e diverse spiegazioni. Colpisce entrambi gli schieramenti elettorali. Da un lato, a sinistra, ci sono gli "esuli". Così abbiamo definito, tempo addietro, gli elettori del Pd del 2008 che, in seguito, avevano mostrato una crisi di rigetto. Allontanandosi dal Pd, considerato una opposizione debole e inefficace. Ma anche e soprattutto dalla politica. E dagli italiani. Estranei nel paese del Gf e degli Amici. Del Tg unico. Dell'intolleranza e dell'assuefazione a ogni vizio pubblico e privato. Esuli in patria. Lontani dal berlusconismo. Irriducibili a ogni dialogo con la maggioranza del paese. Dunque, con il paese. Da ciò il collasso dei consensi del Pd, stimato, a febbraio, circa 10 punti meno del 2008. Elettori confluiti solo in minima parte in altri partiti. La maggioranza di loro, invece, si era semplicemente dimessa dalla politica e dall'Italia. Un esodo riassorbito. Ma solo in qualche misura. Per cui il Pd ha ripreso a crescere, anche se il risultato di un anno fa resta lontano. Una parte dei suoi elettori è ancora esule. Un'altra parte, invece, si è accostata a Di Pietro. Un'altra ancora ai partiti della sinistra. Da cui proviene e che aveva abbandonato nel 2008, in nome del "voto utile". Un richiamo, in questa occasione, molto meno significativo. Tuttavia, l'aumento degli indecisi in questa fase avviene, anzitutto, insieme al calo del Pdl. Di proporzioni ridotte. Una slavina, non un'alluvione. Ma costante nelle ultime settimane. Anche il peso degli elettori fedeli, nel Pdl, si è ridotto sensibilmente. Una tendenza parallela e coerente alla fiducia nel presidente del Consiglio. Il cui consenso personale è declinato in modo sensibile nelle ultime settimane. Nonostante gli indicatori del clima d'opinione, dal punto di vista economico, e il giudizio nei confronti del governo non siano peggiorati. Si assiste, cioè, a una sorta di sconcerto, fra gli elettori del Pdl, partito personalizzato e personale. Le faccende personali e familiari del premier hanno infastidito anche un pubblico come quello italiano. Ormai quasi incapace di stupirsi, se non di indignarsi. Anche l'elettorato medio, a cui si rivolge il Pdl, ne è disturbato. Non tanto per il clamore sollevato dai giornali "nemici" (che ovviamente non legge). Ma semmai per le prudenti critiche del clero. Così, c'è una quota di elettori che da qualche settimana si pone in stand-by. In attesa. E stenta a dichiarare il proprio voto per il Pdl nei sondaggi. Per disagio, come ha osservato nei giorni scorsi Nando Pagnoncelli. Anche se ciò non significa che, fra una settimana, non lo voterà. Oggi però non lo dichiara. Sono elettori clandestini: invisibili e reticenti. Evitano di esprimersi e di apparire. Più che per "delusione", come in passato, per "elusione". Per disorientamento e imbarazzo. Atteggiamenti che, fra una settimana, potrebbero venir messi da parte. O forse no. In fondo si tratta di elezioni europee: se non dai un segnale in questa occasione, quando mai? Tuttavia, l'indecisione che cresce fra gli elettori in prossimità del voto descrive bene il sentimento di questo paese spaesato. Affollato di "esuli" e di "elusi". Che cercano soluzione nella dissoluzione. O meglio, nella dissolvenza intermittente. Vorrebbero scomparire per riapparire in tempi migliori.
(31 maggio 2009)
La protesta dell'opposizione. "Basta estranei sugli aerei di Stato"
ROMA - Chi ha autorizzato gli ospiti, a cominciare dal cantautore Mariano Apicella, a salire sugli aerei dell'aeronautica militare per andare alle feste di Berlusconi in Sardegna? C'è stato un uso improprio dei beni dello Stato? Due interrogazioni saranno presentate per avere le risposte: una da Antonio Di Pietro e l'altra dal Pd. C'è infatti anche questo risvolto nell'affaire degli scatti sequestrati a Antonello Zappadu. È il fotografo stesso a parlarne, per scagionarsi in parte dall'accusa di violazione della privacy. Quindi, dice, non tutte le foto riguardano Villa Certosa, molte sono invece state scattate all'aeroporto della Costa Smeralda, luogo pubblico: "Sono foto di persone, ospiti del presidente del Consiglio, che scendono da aerei dell'aeronautica militare, tra di essi c'è il cantante Apicella. Si tratta di arrivi negli ultimi due anni quasi settimanali, con sbarco il venerdì sera o il sabato mattina e partenza il lunedì".
Nel 2007 quando Francesco Rutelli e Clemente Mastella, all'epoca ministri del governo Prodi, andarono al Gran Premio di Monza con un aereo di Stato portando alcuni ospiti, successe un putiferio. Riccardo Capecchi, uno degli ospiti, collaboratore di Palazzo Chigi, si dimise. "Figuriamoci le conseguenze che queste notizie se confermate dovrebbero avere ora. Sugli aerei privati del signor Berlusconi ci sale chi vuole lui, ma sui voli delle istituzioni, no", attacca Luigi Lusi, Pd, amico di Capecchi. Di Pietro è ancora più duro: "Se è confermato che da un aereo militare per passare quarantott'ore di baldoria scendevano nani e ballerine, ci sono una pluralità di illeciti oltre all'immoralità. Intanto, l'uso di un mezzo dello Stato per attività non istituzionali e, in particolare, di un aereo militare. Se tutto ciò fosse vero, il reato è quello di peculato. Chiederemo spiegazioni in Parlamento".
E per peculato ad esempio, finì sotto inchiesta il generale Roberto Speciale, ex comandante della Guardia di Finanza, oggi deputato del Pdl: in quel caso l'aereo di Stato era stato usato per trasportare "spigole", pesce fresco da Pratica di Mare a Verona. Negli ultimi due anni a godere del privilegio sarebbero stati le ospiti e gli ospiti di Villa Certosa. I senatori pd Nerozzi e Sanna nell'interrogazione chiedono conto delle "leggi che regolano l'utilizzo dei voli di Stato" e quali sono "le norme che ne dispongono l'utilizzo per spostamenti privati". "Prodi chiese al sottosegretario Micheli di essere severissimo nell'uso dei voli di Stato - ricorda Sandra Zampa, pd, portavoce dell'ex premier - e per Rutelli e Mastella si montò un caso quasi inesistente". "Non c'era scandalo per quanto mi riguardò, non ce n'è ora", commenta Mastella, che fece poi cadere Prodi e che è oggi passato nel Pdl.
(31 maggio 2009)
IL DELITTO DI VIA POMA
L’omicidio di Simonetta Cesaroni, nata a Roma il 5 novembre 1969 da Claudio Cesaroni, impiegato dell’azienda tramviaria Acotral, morto a sua volta il 20 agosto 2005, e da Anna Di Giambattista, è diventato, negli ultimi vent’anni, materia per trasmissioni televisive, libri, storie più o meno aderenti alla realtà.
Questi i fatti come ricostruiti negli atti della procura della Repubblica di Roma.
Antefatto
La mattina del 7 agosto 1990 in via Maggi 406, nella sede della Reli Sas, Salvatore Volponi discute delle ferie con Simonetta Cesaroni. Resta come ultimo impegno il pomeriggio da passare all’A.I.A.G. per sbrigare alcune pratiche. Simonetta è d’accordo che verso le 18.20 farà uno squillo a Volponi per dirgli come procede il lavoro. Lui sarà nella tabaccheria che gestisce con la moglie alla stazione Termini. All'incirca alle ore 15.00 Simonetta esce dalla sua abitazione in via Serafini numero 6 insieme a sua sorella Paola a bordo di una Fiat 126 per recarsi alla metropolitana, fermata Subaugusta. La metropolitana di Roma impiega circa quaranta minuti nel tragitto che compie Simonetta, da Subaugusta a Lepanto. Simonetta entra dunque in ufficio circa alle 16. L’ufficio quel giorno è chiuso al pubblico. Lei usa un mazzo di chiavi che le è stato dato da Volponi per aprire il portone. Alle 17.35 l’ultima prova che Simonetta Cesaroni è ancora viva: risponde ad una telefonata di lavoro di Luigia Berrettini. Alle 18.20 ci dovrebbe essere la telefonata a Volponi per aggiornarlo sullo stato dei lavori, ma Simonetta non lo chiamerà. I familiari l’attendono a casa per le 20.00. Alle 21.30 la sorella Paola si preoccupa e cominciano le ricerche. Viene contattato Salvatore Volponi per sapere il numero di telefono degli uffici A.I.A.G. per sincerarsi che Simonetta stia bene. Volponi non conosce tale numero e a questo punto Paola Cesaroni, accompagnata dal fidanzato Antonello Barone, preleva Volponi e suo figlio dalla loro abitazione e i quattro si dirigono insieme nello stabile di via Poma numero 2. Qui, alle 23.30 circa, si faranno aprire il portone degli uffici A.I.A.G. dalla moglie del portiere e troveranno Simonetta morta.
I primi accertamenti
Arriva la polizia. Dopo le prime domande gli investigatori accertano che il 7 agosto 1990 in via Poma 2, dalle 16.00 alle 20.00 i portieri degli stabili si riuniscono nel cortile a parlare e mangiare cocomero. Riferiscono di non aver visto nessuno entrare dall’ingresso principale in quella fascia oraria. Dopo le 17.35, secondo gli inquirenti, c’è con ogni probabilità un uomo negli uffici A.I.A.G. ed è pericoloso, perché Simonetta gli sfugge, dalla stanza a destra dove lavora, fino a quella opposta a sinistra, dove verrà ritrovata. Qui viene immobilizzata a terra, qualcuno è in ginocchio sopra di lei e le preme i fianchi con le ginocchia con tanta forza che le lascerà degli ematomi. La colpisce con un oggetto, oppure le sbatte la testa violentemente a terra, ad ogni modo per via di questo trauma cranico Simonetta muore. A questo punto l’assassino prende un tagliacarte e inizia a pugnalarla a ripetizione. Saranno 29 alla fine i colpi inferti, di circa 11 centimetri ciascuno di profondità. Sei sono i colpi inferti al viso, all’altezza del sopracciglio destro, nell’occhio e poi nell’occhio sinistro. Otto lungo tutto il corpo, sul seno e sul ventre. Quattordici dal basso ventre al pube, ai lati dei genitali, sopra e sotto. Dopo l’omicidio, il killer pulisce il sangue con degli stracci, almeno così sembra. Ma quelli trovati nel bagno non rivelano tracce di sangue. Gli abiti di Simonetta, fuseaux sportivi blu e maglietta, vengono portati via assieme a molti effetti personali che non saranno mai ritrovati, tra cui un anello d’oro, un bracciale d’oro e un girocollo d’oro, mentre l’orologio le viene lasciato al polso. Lei viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti, il top arrotolato sul collo. Non ha le mutande, porta addosso ancora i calzini bianchi corti, mentre le scarpe da ginnastica sono riposte ordinatamente vicino la porta. Le chiavi dell’ufficio che aveva in borsa vengono portate via, e saranno usate per chiudere il portone.
Sulla porta d’ingresso della stanza del delitto viene ritrovato del sangue sulla maniglia. Appartiene ad un uomo: questo è tutto ciò che la scienza al servizio della giustizia consente di dire nel 1990. Nella altre stanze non vi sono tracce di colluttazione, tutto è ordinato e non c’è alcun segno che possa far pensare che il corpo sia stato trascinato. Viene però rilevata una minima traccia di sangue anche nella stanza di Simonetta, sulla tastiera del telefono. Sempre nella stanza di Simonetta, viene rinvenuto anche un appunto, su un pezzo di carta. C’è scritto “CE” poi è disegnato un pupazzetto a forma di margherita e in basso a destra, c’è scritto “DEAD OK” (a lungo si speculerà su questo disegno e sul suo significato finchè il programma televisivo "Chi l'ha visto?" rivelerà, nell'ottobre 2008, che a fare quel disegno e a scrivere la frase CE DEAD OK fu uno degli agenti di polizia intervenuti quella notte).
L’autopsia
Simonetta Cesaroni è stata colpita da un’arma bianca da punta e taglio, con lama bitagliente, ma non dotata di azione recidente. I lati della lama sono bombati, curvi, non appuntiti, la penetrazione è avvenuta per la pressione inflitta e per la punta aguzza. Il corpo è disteso sul pavimento, capo spostato verso la destra, braccio sinistro esteso verso l’alto, braccio destro piegato leggermente, con le dita della mano flesse, ad artiglio. Rivoli di sangue scorrono verso le spalle, verosimilmente per deflusso, che testimonierebbe l’avvenuto accoltellamento quando era già stesa in terra. Alle spalle un ampio versamento di sangue ai cui bordi sono trovate impronte rosacee nastriformi. L’emivolto destro è omogeneamente bluastro, una infiltrazione ecchimotica con componente tumefattiva. Il padiglione auricolare della stessa zona del volto appare anch’esso tumefatto da ecchimosi bluastra. Il volto presenta sei ferite della stessa arma bianca, ferite curve e oblique in corrispondenza delle strutture ossee orbitali. Una ferita al collo è trasfossa, entrata e uscita. Sono otto le ferite in zona toracica e quattordici quelle in zona pubico genitale. Non risulta alcun segno di violenza sessuale. Escoriazione profonda presente sul capezzolo sinistro. Le mani sono pulite, le unghie sono lunghe, curate e intatte, niente segni di graffi dati. Non sono trovati alcol né stupefacenti nel corpo. Non viene indagata una ferita particolare, sotto ai genitali, di tipo bifida, ovvero con un’estremità, quella inferiore, doppia, a forma di Y rovescia. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo sinistro, posto che la sua escoriazione sia dovuta ad un morso.
Le indagini: Pietrino Vanacore
La mattina dell’8 agosto 1990 la polizia sveglia tutti i condomini dello stabile di via Poma 2. Vengono interrogati i portieri, il caso punta verso una soluzione semplice. I quattro portieri assieme ai loro familiari sostengono di essere rimasti attorno alla vasca del cortile per tutto il pomeriggio del 7 agosto, dalle 16.00 alle 20.00. Stando a ciò che dicono nessuno è potuto entrare nella scala B senza essere notato. I poliziotti setacciano l’intero palazzo alla ricerca degli indumenti che mancano a Simonetta, ma non trovano niente. Gli investigatori ricostruiscono i fatti. Dalle testimonianze si deduce che Simonetta è sola il 7 agosto 1990. La sorella l’ha lasciata alla metropolitana, lei è andata in ufficio come programmato, nessuno è stato visto entrare nella scala B e l’ultimo contatto risale alle 17.35 per la telefonata di lavoro. Da ciò che gli psicologi della polizia hanno constatato sulla scena del delitto, l’assassino presumibilmente avrebbe tentato di violentarla, ma all’atto non è riuscito ad avere un'erezione e in questo status di frustrazione ha sfogato con colpi violenti la sua ira. Resosi conto dell’accaduto, ha tentato di pulire tutto, riordinare l’ufficio e far sparire il corpo. Qualcosa o qualcuno lo hanno interrotto. Dalle voci raccolte dalla polizia, Pietrino Vanacore non era con gli altri portieri giù nel cortile nell’orario che va dalle 17.30 alle 18.30, cioè l’orario in cui Simonetta è stata uccisa. C’è uno scontrino sospetto, Vanacore ha comprato dal ferramenta, alle 17.25 un frullino. È testimoniato che alle 22.30 Vanacore si è diretto a casa dell’anziano architetto Cesare Valle, che si trova più su dell’ufficio incriminato, per fornirgli assistenza. Cesare Valle però dichiara che il portiere è arrivato a casa sua alle 23.00. Questa mezz’ora di intervallo tra le due testimonianze porta gli investigatori a sospettare del portiere cinquantacinquenne. In un paio di suoi calzoni vengono trovate macchie di sangue. Nella scala B il pomeriggio del 7 agosto 1990 ci sono solo due persone, Cesare Valle e Simonetta Cesaroni. Nessun estraneo è stato visto entrare. Vanacore, il portiere dello stabile B, si assenta dalle 17.30 alle 18.30, orario dell'omicidio. Questa per gli inquirenti è la soluzione del caso. Pietrino Vanacore passa 26 giorni in carcere. Poi le tracce di sangue sui pantaloni risultano essere delle stesso Vanacore, che soffre di emorroidi. Inoltre viene sostenuta la tesi che chiunque abbia pulito il sangue di Simonetta deve essersi sporcato gli abiti. E poiché Vanacore ha indossato gli stessi abiti per tre giorni di fila - dal 6 agosto all'8 agosto 1990 – e non c’è traccia del sangue della ragazza, allora non può essere stato lui.
Le altre indagini: Federico Valle
Nel marzo del 1992 un austriaco di nome Roland Voller afferma di sapere chi ha ucciso Simonetta Cesaroni. Racconta che nel maggio 1990, durante una telefonata in una cabina telefonica, a causa di un’interferenza è stato messo accidentalmente in contatto con una donna anch'essa al telefono. Chiarito l’incidente, tra i due nasce un'amicizia. Lei è Giuliana Ferrara, da sposata si faceva chiamare Giuliana Valle perché è la ex moglie di Raniero Valle, il figlio dell'architetto 88enne Cesare Valle che risiede nel condominio di via Poma. Giuliana confessa a Voller di essere preoccupata poiché suo figlio Federico soffre per il divorzio e non mangia. Il 7 agosto 1990 alle 16.30 Voller e Giuliana Ferrara si parlano al telefono e lei mostra forti preoccupazioni per il figlio, che è andato a fare visita al nonno Cesare Valle in via Poma, ma non torna. La sera dello stesso giorno i due si parlano nuovamente, lei è sconvolta perché Federico è tornato sporco di sangue dappertutto e ha un taglio alla mano. Giuliana Ferrara, dopo pochi giorni, decide di interrompere le conversazioni con Voller. La testimonianza di Voller è l’unica novità e gli inquirenti indagano sul giovane Federico Valle. L’ipotesi lo vuole accecato dalla love story che suo padre avrebbe con la giovane ventenne Simonetta Cesaroni. Federico Valle si rivolge al suo legale e, proclamandosi estraneo ai fatti, dispone che venga esaminato il suo sangue. Pubblicamente Giuliana Ferrara Valle smentisce Roland Voller. Asserisce di conoscerlo, ma di non essersi mai confidata con lui e di non avergli mai parlato al telefono in data 7 agosto 1990. Intanto i test ematici scagionano Federico Valle, non è suo il sangue sulla maniglia. Tre persone gli forniscono un alibi, suo padre afferma di non conoscere Simonetta Cesaroni ed esclude una love story. Il magistrato Catalani, titolare dell’inchiesta, decide di proseguire ordinando una perizia sul corpo di Federico Valle, affinché siano individuate cicatrici o tagli che possano testimoniare la difesa di Simonetta. Viene trovata una vecchia ferita, ma persone vicine a Valle testimoniano che ce l’aveva da molti anni prima. Alcuni esperti affermano che il sangue sulla maniglia potrebbe essere una commistione del sangue di Valle e di quello di Simonetta. Entra nuovamente in scena Vanacore, stavolta nei panni del complice. L’ipotesi è che sia stato chiamato da Cesare Valle dopo l’assassinio, per pulire tutto e far sparire il corpo, in modo da proteggere il nipote e non creare uno scandalo. Il pm Catalani formalizza le accusa contro Federico Valle che però viene prosciolto facendo riferimento alla vecchia formula dell’insufficienza di prove nel giugno del 1993.
La pista del Videotel e i presunti segreti dell'Aiag
Poche settimane dopo il proscioglimento definitivo di Pietrino Vanacore e Federico Valle, avvenuto il 30 gennaio 1995, arriva in Procura, a Roma, una lettera anonima, che suggerisce di indagare sulla pista del Videotel: una chat line alla quale si poteva accedere con il computer all'inizio degli anni '90, attraverso un servizio simile all'odierno Internet. La pista, battuta per alcuni anni dagli inquirenti, suggeriva l'ipotesi che Simonetta aveva fatto uso del computer dell'ufficio di via Poma per entrare in contatto, attraverso la rete, con altri utenti. Così, casualmente, poteva aver conosciuto il suo assassino, al quale lei aveva dato un appuntamento per quel pomeriggio del 7 agosto '90. C'è chi dice anche di aver riconosciuto Simonetta in una interlocutrice del Videotel che si firmava con il nickname Veronica. Altra testimonianza afferma di un utente del Videotel che si firmava Dead (come la frase trovata scritta sul foglio accanto al computer di via Poma) e che, entrando in rete dopo il 7 agosto, affermò di aver ucciso la Cesaroni, rivelandolo a tutti gli utenti. Ma la pista si è rivelata infondata: il computer dell’ufficio di Simonetta non aveva le caratteristiche tecniche per accedere a servizi come il Videotel e la ragazza, a casa sua, non disponeva di un computer.
La nuova indagine
Nel giugno 2004 i carabinieri del Ris di Parma individuano nel lavatoio condominiale della scala b di via Poma delle tracce che sono analizzate: non è sangue e non sono collegate al delitto Cesaroni.
Nell’ottobre 2004 vengono sottoposti ad analisi il fermacapelli, l’orologio, l’ombrello, i calzini, il corpetto, il reggiseno e la borsa di Simonetta Cesaroni; in aggiunta un tagliacarte dell'ufficio (la probabile arma del delitto), il quadro e il tavolo della stanza in cui avvenne il delitto; più ancora un vetro dell’ascensore della scala b, trovato sporco di sangue nel 1990. Soltanto il corpetto e il reggiseno della Cesaroni daranno un risultato utile: un DNA di sesso maschile, sotto forma di tracce di saliva.
Nel febbraio 2005 viene prelevato il Dna a 31 persone incluse in una lista di sospettati per il delitto. Tra loro anche Raniero Busco. I Dna vengono messi a confronto con la traccia biologica repertata dal corpetto e dal reggiseno di Simonetta Cesaroni.
A gennaio 2007 su 31 sospettati, 30 soggetti vengono scartati alla prova del Dna. Le tracce di saliva trovate sul corpetto e il reggiseno di Simonetta Cesaroni (che lei indossava quando fu uccisa) corrispondono solo a Raniero Busco (la scientifica ha prelevato per sicurezza due volte il suo Dna e per due volte lo ha analizzato e confrontato. Il Dna di Busco è emerso per 6 volte su entrambi gli indumenti).
A settembre 2007 Raniero Busco viene iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di omicidio volontario.
Ad aprile 2008 Paola Cesaroni (la sorella di Simonetta) dichiara ai pm che Simonetta aveva indossato indumenti intimi puliti il giorno in cui fu uccisa.
Nel luglio 2008 nella traccia di sangue trovata sulla porta dalla scientifica vengono isolati 8 alleli che coincidono con il Dna di Raniero Busco misto a quello di Simonetta Cesaroni (per 8 volte, dunque, emerge un profilo biologico che in modo compatibile coincide con il corredo genetico di Busco misto a quello di Simonetta). Ma la coincidenza è pari al 60-70 per cento: troppo poco perché la traccia biologica possa essere attribuita inequivocabilmente ad un solo soggetto.
A dicembre 2008 viene prelevata l’impronta dell’arcata dentaria di Raniero Busco, al fine di confrontarla (attraverso le foto autoptiche del 1990) con un segno a “V” riscontrato sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni durante l’autopsia (scaturito da due profonde escoriazioni). segno prodotto da un morso che l’assassino dette sul capezzolo della Cesaroni. Secondo gli esperti, il segno a “V” indicherebbe una forma particolare degli incisivi inferiori dell’assassino. L’analisi sull’arcata dentaria di busco si integra con l’individuazione del suo Dna sul corpetto e il reggiseno di Simonetta Cesaroni, in particolar modo in corrispondenza del punto del corpo della vittima aggredito dal morso (tra un lembo di reggiseno e il capezzolo del seno sinistro).
Ad aprile 2009 la nuova indagine sul delitto di via poma si conclude. I pm depositano gli atti dell'inchiesta.
Gli altri indizi
Su Raniero Busco emergono anche delle lacune sull'alibi per il primo pomeriggio del 7 agosto '90: lui affermò, già nel '90, di aver trascorso le ore del delitto assieme ad un suo amico, al quale stava riparando il motorino in una piccola officina sotto casa sua. Chiamato a dare la sua versione dei fatti, l'amico di Busco lo smentisce: il pomeriggio del 7 agosto '90 non era nell'officina vicino casa Busco per la riparazione del motorino. Si trovava in una casa di cura per anziani a Frosinone, perché era deceduta una sua zia. Il teste mostra anche il certificato di morte della sua parente che dimostra la verità del fatto. Quel giorno incontrò Busco solo tra le 19.30 e le 19.45, al suo rientro a Roma da Frosinone. Viene presa nuovamente in considerazione anche una testimonianza, già rilasciata negli anni '90 da Giuseppa De Luca, la moglie del portiere Pietrino Vanacore, che raccontò alla polizia di aver visto uscire dalla scala B di via Poma, la sera del 7 agosto '90 alle ore 18, un giovane con un fagotto sul lato sinistro. Procedeva verso l'uscita del palazzo a testa bassa, era alto sul metro e 80 e indossava un pantalone grigio scuro, una camicia verde scuro e un cappello con la visiera. La De Luca disse che questa persona (da lei vista da 10 metri di distanza) le sembrò essere il ragionier Fabio Forza, un inquilino del palazzo. Che si trattasse del ragionier Forza è impossibile: il 7 agosto '90 Forza era in vacanza in Turchia. Ma la sentenza che ha assolto Vanacore ha stabilito che il racconto della De Luca ha un suo fondo di verità, e che i due coniugi Vanacore non avevano motivo di mentire per eventuali depistaggi. Dunque è probabile che la persona vista dalla moglie del portiere quella sera semplicemente somigliasse al ragionere Forza. All'epoca Raniero Busco somigliava a Forza.
La seconda archiviazione su Pietrino Vanacore
Il 26 maggio 2009 una nuova indagine a carico di Pietrino Vancora viene archiviata. I pm avevano infatti supposto che qualcuno poteva essersi introdotto nell'appartamento del delitto (ad omicidio già avvenuto), inquinando inconsapevolmente la scena del crimine. I magistrati avevano aperto quindi un nuovo fascicolo su Vanacore, e il 20 ottobre 2008 avevano disposto una perquisizione domiciliare nella sua casa pugliese di Monacizzo, in provincia di Taranto. Ma non è stato trovato nulla e l’indagine è stata chiusa.
Via Poma sei anni prima
Nel 1984 nello stabile era stata trovata morta Renata Moscatelli, un’anziana donna benestante, soffocata con un cuscino sul viso. Non fu mai trovato alcun segno di scasso e l’inchiesta che seguì al suo omicidio, non riuscì mai ad accertare chi l’avesse uccisa.
Roberto Ormanni
sabato 30 maggio 2009
Gelmini attacca i presidi ribelli. "Chi non sa dirigere se ne vada". La replica di Maria Coscia (Pd): "E' fuori di senno, se ne vada lei"
"Chi non sa dirigere cambi mestiere". Il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, ha commentato così la vicenda dei presidi del Lazio che hanno denunciato, in una lettera inviata alle famiglie, la carenza di fondi degli istituti scolastici. Sono state oltre 41.739 le lettere spedite da circa 300 presidi del Lazio aderenti all'Asal (Associazione scuole autonome del Lazio) per dare le cifre della scuola al collasso a causa dei tagli inferti dal governo: non ci sono i soldi per i supplenti (fondi ridotti del 40 %) né per le visite fiscali obbligatorie; da settembre non saranno più garantiti i servizi previsti per legge, come la copertura dell'ora alternativa alla religione. Ma la sortita del ministro non è piaciuta all'opposizione: "Che sia la Gelmini a cambiare lavoro".
Il ministro però è stato chiaro: "A un dirigente scolastico - ha affermato la Gelmini - è richiesto di dirigere una scuola e io credo che debba assumersi oneri e onori. Deve finire l'abitudine a fare politica, a fare comunicazione, a scaricare sul ministero le responsabilità. Chi non sa dirigere, cambi mestiere. Chi lo sa fare vada avanti e risolva i problemi. Molte volte apprendiamo dai giornali i problemi che non ci vengono neppure segnalati. Io sono per la collaborazione ma anche per la corresponsabilità".
Parole che hanno subito sollevato pesanti repliche. Primo fra tutti il capogruppo del Pd in Commissione Istruzione, Antonio Rusconi: "Oggi tocca ai presidi. Dal 1 settembre saranno i genitori a constatare le conseguenze dei tagli del duo Gelmini-Tremonti".
Più duro il commento della collega di partito Maria Coscia secondo la quale il ministro Gelmini "è completamente fuori di senno e propone fantasiosi codici di condotta civica per cui ai presidi, differentemente dagli altri cittadini, sarebbero preclusi i diritti costituzionali di "impicciarsi della cosa pubblica"". E continua: "Su una cosa però la Gelmini ha ragione, chi non sa dirigere dovrebbe andare a casa. E allora, visto il disastro in cui il ministro ha gettato la scuola pubblica italiana, non sarebbe il caso che proprio lei cominciasse ad andarsene?".
D'accordo con la Coscia i presidi aderenti alla Flc-Cgil: "Per la prima volta nella storia della Repubblica le scuole hanno dovuto fare i bilanci senza fondi per l'ordinario funzionamento; sono costrette a inviare visite fiscali anche quando non servono (su decisione del ministro Brunetta, ndr) e poi le devono pagare coi propri bilanci; vengono tagliate le risorse per i recuperi dei debiti scolastici; le istituzioni avanzano dal ministero più di 1 miliardo di euro per supplenze conferite e pagate con fondi diversi da quelli specificamente dedicati. Per non parlare del depauperamento di personale che la sua riforma sta provocando nel sistema scolastico. E il Ministro cosa fa? Non trova niente di meglio che attaccare i dirigenti scolastici perché denunciano questo stato di cose".
(28 maggio 2009)
Festino a Villa Certosa, i pm sequestrano le foto
Il procuratore della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara ha fatto intanto saper che non è stato aperto alcun fascicolo sulle frasi pronunciate da Veronica Lario, moglie del premier Silvio Berlusconi, riguardo ad una presunta frequentazione di «minorenni» da parte dello stesso capo del governo.
Evidentemente preoccupato dal contenuto (le ragazze sarebbero state in bikini e topless), lo stesso premier aveva sollecitato il sequestro in un esposto al Garante della Privacy. Nel documento il Cavaliere racconta che gli scatti sono stati offerti dal fotografo Antonello Zappadu al settimanale “Panorama”, che le ha ritenute «non rilevanti».
Berlusconi denuncia «il comportamento antigiuridico dello Zappadu che non solo ha commesso pacificamente il reato di cui all'art. 615 bis c.p. ma altresì ha tentato di procurarsi un ingiusto profitto prospettando l'indebita pubblicazione di materiale fotografico che avrebbe potuto provocare un evidente danno d'immagine ove maliziosamente prospettato, senza le facili spiegazioni che soltanto i diretti interessati avrebbero potuto fornire». «Si osserva infatti - naturalemente, per completezza d'informazione come sottolinea il premier -, ancorché superflua rispetto alla commissione del reato, che un consistente gruppo di fotografie, pur essendovi i volti oscurati, verosimilmente ritrae nel maggio del 2008 l'allora primo ministro della Repubblica Ceca Topolanek, la sua famiglia, altro ministro del Governo ceco, il loro seguito».
«L'altro gruppo di fotografie -scrive ancora il premier- verosimilmente ritrae alcuni ospiti in Villa Certosa durante le vacanze natalizie 2008-09. Come è facile osservare dalle fotografie, si tratta di soggetti ripresi in momenti di assoluta intimità del tutto leciti e senza alcun particolare rilievo o connotazione, addirittura mentre si trovavano all'interno delle abitazioni poste a loro disposizione e ritratte mediante potenti ed intrusivi mezzi di riproduzione delle immagini». Insomma, tutto chiaro e limpido, come è nello stile di Berlusconi. In fondo, se non è possibile vedere cosa stavano facendo le invitate alla festa, tra cui c'era anche Noemi, come aveva già commentato in proposito Massimo D'Alema, «perché grosso modo si capisce...».
30 maggio 2009
Il Pm sequestra le foto di Villa Certosa
La procura di Roma ha disposto il sequestro di centinaia di foto scattate lo scorso Capodanno a Villa Certosa, in Sardegna, durante la festa del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, alla quale avrebbero partecipato decine di ragazze tra cui Noemi Letizia. Il sequestro, che sarebbe eseguito in queste ore, è stato ordinato dal procuratore Giovanni Ferrara e dal pm Simona Maisto che hanno iscritto sul registro indagato per violazione della privacy e tentata truffa il fotografo Antonello Zappadu, autore delle foto e di un altro servizio relativo anche alla festa di Capodanno del 2008.
Secondo quanto si è appreso a denunciare Zappadu è stato l’avvocato del premier Nicolò Ghedini. All’attenzione dei magistrati c’è in particolare una mail nella quale Zappadu, proponendo l’acquisto delle foto a "Panorama" per oltre un milione di euro, avrebbe spiegato al settimanale che c’era un’altra proposta di acquistare il fotoservizio da parte del settimanale "Gente", circostanza falsa secondo i primi accertamenti e da qui l’accusa di tentata truffa. Le foto sarebbero state scattate da una terrazza e non autorizzate secondo la procura di Roma. Un esposto è stato presentato da Berlusconi anche al Garante della Privacy.
Gasparri: "Repubblica ha pagato Flaminio"
Infatti, abbiamo appreso dal 'Giornale' che offre, con prezzi variabili, interviste, testimonianze e brevi incontri. C'è da chiedersi quanto gli abbia dato 'Repubblica'. Mi rivolgerò all'ordine dei giornalisti del quale faccio parte per chiedere accertamenti su 'Repubblica' e i suoi giornalisti".
"Ora - sottolinea Gasparri - vogliamo sapere chi e quanto ha pagato 'Repubblica' per determinate interviste. E' questo il modo con cui si esercita l'attività giornalistica? Un tanto al chilo? E le vestali della libera professione, di tante organizzazioni e della federazione della stampa non hanno nulla da dire su questo scandalo vergognoso che colpisce giornalisti di un giornale, 'Repubblica', il cui editore ben conosciamo e le cui imprese furono sottoposte più volte al vaglio della magistratura?".
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Ed ecco la risposta di Repubblica
"Repubblica" sfida l'On. Gasparri a dimostrare che sia stato pagato anche solo un centesimo per l'intervista a Gino Flaminio che tanto imbarazzo crea all'ex ministro del Pdl. Gino Flaminio ha confermato di non aver mai ricevuto denaro dal nostro giornale in due occasioni: al "Corriere della Sera" (28 maggio) e a "Il Giornale" (30 maggio). In caso Gasparri non riesca nell'impresa, "Repubblica" l'autorizza fin d'ora a vergognarsi.
(30 maggio 2009)
Sicilia, Pdl sospende 3 dissidenti. Via al ddl per sfiduciare Lombardo
La nuova giunta. Mercoledì scorso in un vertice a Roma a cui hanno partecipato i coordinatori nazionali e quelli regionali del Pdl, si era stabilito che chi avrebbe fatto parte della nuova giunta regionale guidata dal leader dell'Mpa Raffaele Lombardo sarebbe stato uscito dal partito ai sensi dell'articolo 48 dello statuto del Pdl.
Il comunicato. La sospensione è stata giustificata con un comunicato:"Vista la nota dei Coordinatori regionali della Sicilia, on. Giuseppe Castiglione e sen. Domenico Nania, in cui si segnala l'adesione dei tre deputati siciliani alla nuova Giunta regionale siciliana, contrariamente all'invito proveniente dalla sede nazionale e da quella regionale del partito di non aderire e di rinviare ogni decisione a dopo le elezioni europee; Considerata la particolare delicatezza del momento, la gravità del loro comportamento e l'urgenza di dare una risposta anche per il disorientamento provocato nel partito a pochi giorni dalle elezioni; Considerato che anche dopo l'adesione i tre deputati non hanno dato risposta all'invito del partito di sciogliere ogni eventuale riserva e di rinunciare di far parte dell'annunciata giunta dell'on. Lombardo; Preso atto che i tre deputati non seguono le direttive provenienti sia dal Comitato di Coordinamento Nazionale, sia dai coordinatori regionali".
Un ddl di riforma dello statuto. E' stato presentato dal gruppo del Popolo della Libertà al Senato un disegno di legge di riforma costituzionale che modifica l'articolo 10 dello statuto della Regione Sicilia, a firma del presidente del gruppo, Maurizio Gasparri, del vicepresidente vicario, Gaetano Quagliariello, e del presidente della commissione Affari costituzionali, Carlo Vizzini. Il disegno di legge costituzionale - si legge in una nota - vuole rafforzare la logica che ha ispirato la riforma dello statuto siciliano del 2001, eliminandone quegli aspetti che hanno dimostrato di essere incoerenti rispetto al modello. Il ddl prevede che, in caso di violazione del patto programmatico con gli elettori o di trasformazione della maggioranza che sostiene il governo, quest'ultimo possa essere sfiduciato e sostituito con un nuovo presidente eletto dall'Assemblea, nell'ambito della coalizione che ha ottenuto la maggioranza alle elezioni.
"Inaudita gravità". Non si sono fatte attendere le prime reazioni al ddl presentato al Senato. "E' un ddl di gravità inaudita - ha detto il senatore dell'Mpa Giovanni Pistorio -, una cosa indegna in termini di logica e buon senso". Francesco Storace, leader della Destra ha affermato che "presto verrà depenalizzato l'omicidio del presidente della Regione". Arturo Iannaccone, responsabile del dipartimento Welfare e Sanità dell'Mpa, ha criticato il ddl: "La presentazione del ddl anti-Lombardo segnala una scarsa sensibilità istituzionale da parte del Pdl ed è un inquietante avvertimento per cui chiediamo l'intervento del capo dello Stato".
(30 maggio 2009)