MANCANO due settimane al voto per il Parlamento europeo e per molte amministrazioni locali, Province e Comuni. Il loro rinnovo fornirà un quadro aggiornato dei rapporti di forza dei partiti sul territorio e in tutto il Paese. Per di più, per quanto riguarda il voto europeo, i rapporti di forza sia in Europa, che in Italia saranno ottenuti con un meccanismo proporzionale, tre preferenze esprimibili nelle cinque circoscrizioni e una soglia di sbarramento del 4 per cento.
Questo è dunque il tema sul quale si deve fissare oggi la nostra attenzione: dopo tanti sondaggi una vera misurazione del consenso con una validità politica che inevitabilmente andrà al di là dei problemi specifici, locali ed europei.
Prima di affrontarla credo tuttavia opportuna una riflessione su un altro tema di non minore importanza e attualità: il caso Fiat-Opel. È in gioco un'operazione che riguarda il futuro dell'industria automobilistica europea e mondiale, con effetti di prima grandezza sulle imprese coinvolte, sui lavoratori che prestano ad esse la loro opera, sui consumatori, sulla divisione internazionale del lavoro.
Per certi aspetti questo tema economico e sociale ha un peso anche maggiore di quello politico-elettorale. Lo tratterò dunque per primo anche perché ho la sensazione che il pubblico, ma perfino le istituzioni coinvolte, non abbiano percepito fino in fondo la realtà della sfida in atto che si sta giocando a Torino, a Berlino, a Detroit, a Washington. Una diagnosi chiara mi sembra perciò necessaria e questo cercherò di fare.
La Fiat di Marchionne e della famiglia Agnelli ha preso già da qualche mese l'iniziativa di mettere insieme un gruppo di imprese automobilistiche che raggiunga una capacità produttiva di almeno sei milioni di autovetture. Prodotte e collocate nel mercato mondiale.
Si è detto con legittimo orgoglio nazionale che in questo caso la Fiat non è una preda ma il predatore. Le prede sarebbero la Chrysler, la Opel e la Vauxhall possedute dalla General Motor e forse anche le aziende che la GM possiede in Brasile e in Argentina.
L'orgoglio nazionale è legittimo, ma l'immagine di prede e predatori è del tutto impropria. In realtà la genialità di Marchionne è stata quella di attaccare per difendersi. Non mi sembra che questa verità sia stata compresa né dal governo italiano né dai sindacati italiani e tedeschi né dai governatori dei lander dove sorgono le fabbriche Opel. Non ci sono prede né predatori. C'è la necessità di creare un gruppo capace di competere sul mercato mondiale. Non è un obiettivo opzionale, ripeto: è una necessità. Se l'obiettivo non sarà raggiunto avremo delle aziende destinate a soccombere entro un breve arco di anni dopo essere state mantenute a stralcio a carico dei contribuenti dei rispettivi paesi.
Obama ha capito fin dall'inizio questa situazione ed ha infatti patrocinato l'ingresso di Fiat in Chrysler; anche i sindacati e i creditori di Chrysler hanno capito ed hanno accettato i necessari sacrifici. Ora tocca al governo e ai sindacati tedeschi e alla General Motor decidere.
Non è un caso che la Fiat abbia impostato l'operazione a costo zero. Non si tratta infatti di una scalata societaria (predatore-preda) ma d'una operazione di reciproca sopravvivenza dove non ci saranno né vincitori né vinti.
All'ultima ora Marchionne ha migliorato l'offerta Fiat diminuendo a diecimila i previsti esuberi per quanto riguarda la Opel. L'accordo prevede una ristrutturazione che mantenga le quote di mercato ma diminuisca i costi attraverso sinergie di qualità e aumento di produttività per unità di prodotto, con la conseguente diminuzione dei posti di lavoro.
L'alternativa è perire. Non stupisce che i ministri Scajola e Sacconi non se ne rendano conto; stupisce invece che non lo capiscano Epifani, Bonanni e i sindacati tedeschi, che di queste questioni ne dovrebbero sapere ben più dei ministri. Si spera che nelle prossime ore la ragione prevalga.
Ma resta il problema della General Motors, gigante di argilla sulla soglia del fallimento. Obama riuscirà ad avviarla sulla strada di un'effettiva salvezza? E il cancelliere signora Merkel saprà pilotare la sua gente sull'unica strada seriamente percorribile?
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Veniamo alla politica, non senza molta ansia per quanto accadrà a Berlino e a Detroit nelle prossime ore.
Gli ultimi sondaggi compiuti da una decina di agenzie specializzate e diffusi dalla stampa nei giorni scorsi, prima che scattasse il divieto imposto dalla legge, danno risultati sostanzialmente omogenei: il Pdl oscilla in una forchetta tra il 39 e il 42 per cento; il Pd tra il 26 e il 29; la Lega tra il 9 e il 10, Di Pietro tra l'8 e il 9; le due sinistre sfiorano ma non arrivano alla soglia del 4; l'Udc tra il 6 e il 7.
Si tratta di sondaggi e quindi fallibili, ma sono il solo telaio sul quale ora possiamo ragionare. E cominciamo con il partito di Berlusconi.
La forchetta 39-42 è indubbiamente un'ipotesi molto forte ma non è certo uno sfondamento. Sfiorò il 38 per cento alle politiche del 2008 dopo le quali ci fu l'indubbio successo sui rifiuti di Napoli e il terremoto d'Abruzzo: una sciagura nazionale ma oggettivamente un'occasione benissimo gestita per il governo.
Era dunque legittimo prevedere un'impennata di consensi che invece, stando ai sondaggi, non c'è stata. C'è stato un freno e bisogna domandarsi quali ne siano le cause.
Una delle cause è certamente connessa con la crisi economica che è ancora ben lontana dalla soluzione. I suoi effetti negativi sull'economia italiana non sono ancora arrivati al culmine che secondo le previsioni si verificherà nel secondo semestre dell'anno in termini di rallentamento del Pil e di aumento della disoccupazione.
Il governo ha finora impegnato, per combattere la crisi, meno di mezzo punto di Pil, 6-7 miliardi di euro. Il resto, per usare un termine caro a Tremonti, è stato "movimentazione", risorse prese da un capitolo di spesa e trasferite ad un altro oppure promesse ma non spese. "Si farà a tempo debito" ripete il ministro dell'Economia suscitando le ire gentili della Marcegaglia e la rabbia nei sindacati e nell'opposizione.
Questo comportamento frena il consenso, ma lo frena anche lo strapotere di quello che Veronica Lario ha chiamato l'imperatore. Questo strapotere, reale ed ostentato, comincia a stancare una crescente quota di italiani. Non solo quelli che sono sempre stati all'opposizione ma anche molti che un anno fa gli hanno dato il voto.
C'è una crepa nel muraglione del consenso e lentamente si sta allargando. Probabilmente non rifluirà sulle forze di opposizione ma andrà ad ingrossare l'area dell'astensione.
Che cosa accade nel frattempo dalle parti dell'ex centrosinistra?
Stando ai sondaggi sopracitati il Partito democratico oscilla tra il 26 e il 29 per cento. Realisticamente con quale dato dobbiamo paragonarlo? Nel voto di un anno fa il Pd di Veltroni ottenne il 33,3. Ci si era illusi in una vittoria e perciò sembrò una cocente sconfitta ma in realtà non lo era, non era mai accaduto in Italia che un partito riformista ottenesse il consenso di un terzo degli elettori. Mai. Quel risultato inoltre si ebbe dopo la pessima esperienza della coalizione prodiana, lacerata da una rissa continua. L'estrema sinistra crollò ma i suoi voti non andarono ai riformisti bensì all'astensione.
Allora assumere come riferimento il 31 per cento dell'Ulivo alle europee del 2004? Oppure il 22 per cento dei sondaggi dello scorso febbraio, dopo la sconfitta in Sardegna e le dimissioni di Veltroni? Nel primo caso ci sarebbe un calo di quattro punti, nel secondo un aumento di altrettanti e forse più.
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Intanto il premier straparla e nessuno dei suoi è in grado di contenerne gli eccessi. Lo preoccupa un'erosione percepibile tra la gente di buon senso che l'ha votato e si sta domandando se ne sia valsa la pena. Lo preoccupano le rampogne cattoliche sui temi dell'emigrazione e della civile convivenza. Lo preoccupa la Lega. Lo preoccupa persino Tremonti. E lo preoccupa infine la spina quotidiana di Franceschini.
Il solo con cui va a nozze è Di Pietro che non passa giorno senza attaccare il Pd e fornire un "assist" a Berlusconi. Di Pietro oggi come Diliberto e Pecoraro Scanio ieri.
Le elezioni europee, oltre a rinnovare il Parlamento di Strasburgo, serviranno a misurare il distacco tra Pdl e Pd. I voti ottenuti da Di Pietro non avranno alcun peso su quella bilancia, perciò non influiranno sul rapporto di forza tra governo e opposizione. L'esempio più recente dell'"assist" dipietrino sta nell'eventuale presentazione d'una mozione di sfiducia alle Camere destinata a ricompattare il fronte berlusconiano. Non sono errori ma improvvide furbizie e documentano che il nemico di Di Pietro non è Berlusconi ma il Pd.
Il problema dei democratici è quello di mobilitare gli elettori che hanno lasciato il Partito democratico e si sono rifugiati nell'area dell'astensione. Se c'è un momento in cui non ha senso astenersi è questo. Non ha senso criticare Berlusconi e astenersi. Non ha senso proclamarsi di sinistra e astenersi. Non ha senso avvertire sulla propria pelle l'imbarbarimento sociale e astenersi. Non ha senso temere una svolta autoritaria che è sotto gli occhi di tutti e astenersi.
Dopo le europee ci saranno ancora quattro anni di legislatura e ci saranno altre occasioni importanti per contare le forze, scegliere le alleanze, selezionare il personale politico. Dieci giorni dopo il voto del 6 e 7 giugno ci saranno i ballottaggi e il referendum, ma il primo appuntamento è tra due settimane.
Gli elettori diranno se in quella giornata la democrazia italiana sarà sconfitta oppure se le europee saranno una sorta di linea del Piave da cui ripartire. Gli elettori, ricordiamocelo, hanno sempre ragione qualunque sia il verdetto.
L'altra sera, in una trasmissione televisiva, mi sono imbattuto prima di cambiar canale in Borghezio e nella Santanché. Dico la verità: dopo averli ascoltati m'è venuta la voglia di espatriare.
(24 maggio 2009)
1 commento:
Non condivido l'opinione di Scalfari, che la mozione di sfiducia serve solo a ricompattare il fronte berlusconiano.
Di quale fronte si parla, di quello parlamentare? E' già compatto di suo. Di quello delle intenzioni di voto? Per rispondere bisognerebbe conoscere il testo della mozione medesima.
Scalfari forse lo conosce, io no e sospendo il mio giudizio fino a quando non sarà noto.
Scalfari ipotizza che non si tratta di un errore dipietresco, ma di altro e lo chiarisce così: "Non sono errori ma improvvide furbizie e documentano che il nemico di Di Pietro non è Berlusconi ma il Pd."
Affermazione molto grave e indimostrata, mentre è dimostrato che da subito Di Pietro non si è prestato ai giochini berlusconiani, anzi lo ha contrastato da subito e con durezza, senza sconti, ogni volta che sentiva puzza d'imbroglio.
Inoltre, Franceschini ha dichiarato ripetutamente di essere un segretario a termine.
Domanda: se non è stato affidabile un segretario (Veltroni) a tempo pieno come può esserlo uno a tempo?
Fa bene Di Pietro a diffidare e a chiedere la firma su una mozione di sfiducia e a non approvare l'accordo con l'U.D.C., che ha candidato e fatto eleggere Totò Cuffaro.
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