Così un fenomeno naturale è diventato un virus della modernità
Mobbing è un termine che sa di nuovo. Richiama alla mente l’odore bruciato dei fogli fotocopiati, il frullio intermittente delle ventole che raffreddano i computer sempre accesi, il gonfiore delle caviglie da troppe ore incrociate sotto la scrivania, i neon rettangolari appesi al soffitto e il linoleum traslucido incollato al pavimento. Come molti inglesismi con la desinenza -ing (stalking, phishing, hacking, spamming...), il mobbing viene spesso classificato come una cattiva abitudine della modernità, un virus creato dal progresso, incubato nella cattività dell’ufficio e rimesso pericolosamente in circolo, infinite volte, dai sistemi chiusi di aerazione.
Invece, il mobbing è innanzitutto un fenomeno naturale. L’etologo Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina nel 1973, fu il primo a utilizzare il termine, parlando di anatre selvatiche, per descrivere l’aggressione di un gruppo ai danni di un altro esemplare. Un assalto collettivo, con lo scopo di spaventare e allontanare il singolo, percepito come minaccia. In effetti, si tratta proprio di questo.
Comincia senza clamore. Un giorno scopri di essere stato spostato di ufficio. Vieni separato dal collega con cui condividevi le pause caffè e commentavi le partite della domenica. Ti dispiace, ma potrebbe anche trattarsi di una svolta positiva: ora, alle scrivanie accanto alla tua, siedono infatti due impiegati che hanno grande confidenza con il nuovo capo. Sembrano amichevoli, ti propongono delle uscite serali, di andare a fare jogging insieme, ma poi, per ragioni ogni volta diverse, non si combina mai nulla. I ritmi rallentano, c’è meno da fare. Con il tempo, avverti un’incipiente fiacchezza, hai l’impressione che i compiti che ti vengono affidati siano via via più semplici, quasi inconsistenti. In silenzio, ti capita di domandarti sempre più spesso se il tuo lavoro sia veramente utile («demansionamento»). Poi, a pochi giorni dalla conclusione del progetto che avevi ideato, curato e portato avanti per mesi, ti viene comunicato che la responsabilità non è più tua, che il timone passa a una coppia di stagiste inesperte («straining»). Allora non sono io, dici, sono loro. Già, ma loro chi? I due compagni d’ufficio fanno spallucce: non trovano ci sia nulla di strano («Non sarai troppo stressato?»). Ormai è da tempo che non ti invitano a unirti alle loro pause caffè. Li sorprendi spesso a parlare sottovoce, gli occhi puntati nella tua direzione, quasi stessero cospirando («mobbing orizzontale»). Il capo è sempre troppo impegnato per riceverti, non risponde neppure al telefono («mobbing verticale», «bossing»). Ti ritrovi accerchiato e solo, con quel senso d’impotenza kafkiano che prende quando, dopo mesi di un disservizio irrisolto, la ragazza di un call-center risponde: «No, non posso passarle il mio superiore. Non ho neppure il suo numero». La certezza del complotto arriva quando il tuo account e-mail viene bloccato. Improvvisamente hai paura. Di cosa? Di qualcosa di spaventoso, come solo ciò che è invisibile può essere. Inizi a soffrire di nausea, hai le vertigini, forti mal di testa («disturbo post-traumatico da stress»). «Forse ti serve una vacanza», consigliano i colleghi. Tu diventi irascibile, ti dibatti come un pesciolino stretto in una mano, minacci azioni legali e questo non fa che giustificare e alimentare ogni ulteriore ostilità nei tuoi confronti.
Infine, una mattina come tante, trovi la stanza d’ufficio misteriosamente spopolata. Sulla tua scrivania sgombra è poggiata una lettera. Licenziato. La giusta causa? I ripetuti ritardi. Umiliazione, panico, svuotamento. C’è una sequenza della brillante fiction televisiva The Office, realizzata nel Regno Unito dalla Bbc e trasmessa in Italia da Mtv, che racconta esattamente questi istanti. Nell’ultimo episodio della seconda serie il viscido, compiaciuto ed esilarante protagonista David Brent viene licenziato (gli inglesi hanno una forma più gentile/ ostile per dirlo: to make redundant, rendere superfluo). Inizialmente, Brent abbozza di fronte al superiore, che gli ha appena comunicato la notizia. Ma, quando questo gli tende la mano per la stretta finale, lui gliela trattiene. «Don’t make me redundant — sussurra, supplichevole, spogliato di ogni dignità —, please ». Non mi licenzi. Per favore.
Sul sito dell’Aivil (Associazione Italiana Vittime e Infortuni sul Lavoro, www.associazioneaivil.com ) c’è scritto che, a differenza di altri problemi la cui portata si può intuire con uno sforzo di immaginazione, per quanto riguarda le situazioni di emarginazione professionale o stress lavorativo, «solo l’esperienza diretta, non sempre facilmente comunicabile razionalmente, non sempre oggettivabile» è in grado di fornire un’adeguata comprensione.
Ma, quantomeno per intuire la portata del disagio, si può leggere il romanzo di Annette Pehnt, intitolato proprio Mobbing, appena pubblicato in Italia nell’affidabile collana Bloom di Neri Pozza (traduzione di Riccardo Cravero, pp. 154, e 15). L’autrice tedesca ricostruisce un caso emblematico di mobbing, dalle prime avvisaglie fino all’inevitabile epilogo, con perizia documentaristica ma senza alcuna pedanteria, in uno stile incalzante e sincopato. Joachim viene ostracizzato dai colleghi, esautorato del proprio ruolo e infine eliminato. La sua discesa agli inferi è raccontata dalla moglie, con la voce allarmata, compassionevole, affettuosa, irritata e talvolta esausta di chi non vive la situazione in diretta, ma ne paga tutte le conseguenze. La protagonista assiste alla distruzione di suo marito, che gli assilli lavorativi rendono addirittura incapace di baciarla, di aiutarla ad accudire le due figlie piccole, di stringerle la mano dopo il lungo travaglio che precede la nascita della seconda.
Per Annette Pehnt, il mobbing non esaurisce il suo effetto sulla vittima designata. È una catena disastrosa: dal marito alla moglie, dalla madre al figlio, dalla coppia agli amici, e così via. Il nervoso accumulato in ufficio si sfoga in una risposta aggressiva data a casa, la preoccupazione per i soldi che cominciano a scarseggiare diventa una sberla di troppo alla bambina, l’impossibilità economica di permettersi le vacanze «come tutti gli altri» un disincentivo per telefonare anche all’amica più cara. Prima ancora di suo marito, la protagonista è forse una vittima del mobbing, di un mobbing diverso però: casalingo, strisciante, accolto come un sacrificio dovuto alla famiglia. Ha abbandonato il lavoro di traduttrice per restare con le bambine, fino a confinarsi nel rassicurante e desolato isolamento domestico, dove — proprio come nell’azienda del marito — non ha nessuno con cui confidarsi, e dove le figlie sono una presenza incancellabile e spesso alienante, «valvole di sicurezza », che costringono a comprimere la rabbia nel petto, senza lasciarla mai esplodere.
Il mobbing è un fenomeno naturale. Appartiene alle anatre selvatiche e agli esseri umani, a ogni branco ed ecosistema. È una crudele dinamica di sopravvivenza. Di certo, l’ostracismo dal proprio ambiente lavorativo è una condizione difficile da immaginare, se non la si sperimenta in prima persona. Ma per avvicinarvisi è possibile fare un salto indietro, a quando eravamo bambini, a quando eravamo più spietatamente «naturali», e rivivere una scena quotidiana. Un bambino si avvicina a un gruppo di compagni di scuola, riuniti in cerchio intorno a un percorso per le biglie, le mani poggiate a terra, le teste chine. Chiama il capetto, toccandolo timidamente sulla spalla: «Posso giocare anch’io?». «No, tu no». Qualcuno fa eco alla risposta, qualcun altro tace, imbarazzato: il leader non va contraddetto. Fuori da quel cerchio ci siamo stati tutti, almeno una volta. E quella risposta negativa e ingiustificata l’abbiamo data in altrettante occasioni. Se abbiamo semplicemente taciuto, non fa poi molta differenza, mobbizzati e mobbizzatori che siamo.
Paolo Giordano
27 aprile 2009
Mobbing è un termine che sa di nuovo. Richiama alla mente l’odore bruciato dei fogli fotocopiati, il frullio intermittente delle ventole che raffreddano i computer sempre accesi, il gonfiore delle caviglie da troppe ore incrociate sotto la scrivania, i neon rettangolari appesi al soffitto e il linoleum traslucido incollato al pavimento. Come molti inglesismi con la desinenza -ing (stalking, phishing, hacking, spamming...), il mobbing viene spesso classificato come una cattiva abitudine della modernità, un virus creato dal progresso, incubato nella cattività dell’ufficio e rimesso pericolosamente in circolo, infinite volte, dai sistemi chiusi di aerazione.
Invece, il mobbing è innanzitutto un fenomeno naturale. L’etologo Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina nel 1973, fu il primo a utilizzare il termine, parlando di anatre selvatiche, per descrivere l’aggressione di un gruppo ai danni di un altro esemplare. Un assalto collettivo, con lo scopo di spaventare e allontanare il singolo, percepito come minaccia. In effetti, si tratta proprio di questo.
Comincia senza clamore. Un giorno scopri di essere stato spostato di ufficio. Vieni separato dal collega con cui condividevi le pause caffè e commentavi le partite della domenica. Ti dispiace, ma potrebbe anche trattarsi di una svolta positiva: ora, alle scrivanie accanto alla tua, siedono infatti due impiegati che hanno grande confidenza con il nuovo capo. Sembrano amichevoli, ti propongono delle uscite serali, di andare a fare jogging insieme, ma poi, per ragioni ogni volta diverse, non si combina mai nulla. I ritmi rallentano, c’è meno da fare. Con il tempo, avverti un’incipiente fiacchezza, hai l’impressione che i compiti che ti vengono affidati siano via via più semplici, quasi inconsistenti. In silenzio, ti capita di domandarti sempre più spesso se il tuo lavoro sia veramente utile («demansionamento»). Poi, a pochi giorni dalla conclusione del progetto che avevi ideato, curato e portato avanti per mesi, ti viene comunicato che la responsabilità non è più tua, che il timone passa a una coppia di stagiste inesperte («straining»). Allora non sono io, dici, sono loro. Già, ma loro chi? I due compagni d’ufficio fanno spallucce: non trovano ci sia nulla di strano («Non sarai troppo stressato?»). Ormai è da tempo che non ti invitano a unirti alle loro pause caffè. Li sorprendi spesso a parlare sottovoce, gli occhi puntati nella tua direzione, quasi stessero cospirando («mobbing orizzontale»). Il capo è sempre troppo impegnato per riceverti, non risponde neppure al telefono («mobbing verticale», «bossing»). Ti ritrovi accerchiato e solo, con quel senso d’impotenza kafkiano che prende quando, dopo mesi di un disservizio irrisolto, la ragazza di un call-center risponde: «No, non posso passarle il mio superiore. Non ho neppure il suo numero». La certezza del complotto arriva quando il tuo account e-mail viene bloccato. Improvvisamente hai paura. Di cosa? Di qualcosa di spaventoso, come solo ciò che è invisibile può essere. Inizi a soffrire di nausea, hai le vertigini, forti mal di testa («disturbo post-traumatico da stress»). «Forse ti serve una vacanza», consigliano i colleghi. Tu diventi irascibile, ti dibatti come un pesciolino stretto in una mano, minacci azioni legali e questo non fa che giustificare e alimentare ogni ulteriore ostilità nei tuoi confronti.
Infine, una mattina come tante, trovi la stanza d’ufficio misteriosamente spopolata. Sulla tua scrivania sgombra è poggiata una lettera. Licenziato. La giusta causa? I ripetuti ritardi. Umiliazione, panico, svuotamento. C’è una sequenza della brillante fiction televisiva The Office, realizzata nel Regno Unito dalla Bbc e trasmessa in Italia da Mtv, che racconta esattamente questi istanti. Nell’ultimo episodio della seconda serie il viscido, compiaciuto ed esilarante protagonista David Brent viene licenziato (gli inglesi hanno una forma più gentile/ ostile per dirlo: to make redundant, rendere superfluo). Inizialmente, Brent abbozza di fronte al superiore, che gli ha appena comunicato la notizia. Ma, quando questo gli tende la mano per la stretta finale, lui gliela trattiene. «Don’t make me redundant — sussurra, supplichevole, spogliato di ogni dignità —, please ». Non mi licenzi. Per favore.
Sul sito dell’Aivil (Associazione Italiana Vittime e Infortuni sul Lavoro, www.associazioneaivil.com ) c’è scritto che, a differenza di altri problemi la cui portata si può intuire con uno sforzo di immaginazione, per quanto riguarda le situazioni di emarginazione professionale o stress lavorativo, «solo l’esperienza diretta, non sempre facilmente comunicabile razionalmente, non sempre oggettivabile» è in grado di fornire un’adeguata comprensione.
Ma, quantomeno per intuire la portata del disagio, si può leggere il romanzo di Annette Pehnt, intitolato proprio Mobbing, appena pubblicato in Italia nell’affidabile collana Bloom di Neri Pozza (traduzione di Riccardo Cravero, pp. 154, e 15). L’autrice tedesca ricostruisce un caso emblematico di mobbing, dalle prime avvisaglie fino all’inevitabile epilogo, con perizia documentaristica ma senza alcuna pedanteria, in uno stile incalzante e sincopato. Joachim viene ostracizzato dai colleghi, esautorato del proprio ruolo e infine eliminato. La sua discesa agli inferi è raccontata dalla moglie, con la voce allarmata, compassionevole, affettuosa, irritata e talvolta esausta di chi non vive la situazione in diretta, ma ne paga tutte le conseguenze. La protagonista assiste alla distruzione di suo marito, che gli assilli lavorativi rendono addirittura incapace di baciarla, di aiutarla ad accudire le due figlie piccole, di stringerle la mano dopo il lungo travaglio che precede la nascita della seconda.
Per Annette Pehnt, il mobbing non esaurisce il suo effetto sulla vittima designata. È una catena disastrosa: dal marito alla moglie, dalla madre al figlio, dalla coppia agli amici, e così via. Il nervoso accumulato in ufficio si sfoga in una risposta aggressiva data a casa, la preoccupazione per i soldi che cominciano a scarseggiare diventa una sberla di troppo alla bambina, l’impossibilità economica di permettersi le vacanze «come tutti gli altri» un disincentivo per telefonare anche all’amica più cara. Prima ancora di suo marito, la protagonista è forse una vittima del mobbing, di un mobbing diverso però: casalingo, strisciante, accolto come un sacrificio dovuto alla famiglia. Ha abbandonato il lavoro di traduttrice per restare con le bambine, fino a confinarsi nel rassicurante e desolato isolamento domestico, dove — proprio come nell’azienda del marito — non ha nessuno con cui confidarsi, e dove le figlie sono una presenza incancellabile e spesso alienante, «valvole di sicurezza », che costringono a comprimere la rabbia nel petto, senza lasciarla mai esplodere.
Il mobbing è un fenomeno naturale. Appartiene alle anatre selvatiche e agli esseri umani, a ogni branco ed ecosistema. È una crudele dinamica di sopravvivenza. Di certo, l’ostracismo dal proprio ambiente lavorativo è una condizione difficile da immaginare, se non la si sperimenta in prima persona. Ma per avvicinarvisi è possibile fare un salto indietro, a quando eravamo bambini, a quando eravamo più spietatamente «naturali», e rivivere una scena quotidiana. Un bambino si avvicina a un gruppo di compagni di scuola, riuniti in cerchio intorno a un percorso per le biglie, le mani poggiate a terra, le teste chine. Chiama il capetto, toccandolo timidamente sulla spalla: «Posso giocare anch’io?». «No, tu no». Qualcuno fa eco alla risposta, qualcun altro tace, imbarazzato: il leader non va contraddetto. Fuori da quel cerchio ci siamo stati tutti, almeno una volta. E quella risposta negativa e ingiustificata l’abbiamo data in altrettante occasioni. Se abbiamo semplicemente taciuto, non fa poi molta differenza, mobbizzati e mobbizzatori che siamo.
Paolo Giordano
27 aprile 2009
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