sabato 2 maggio 2009

Se le anatre fanno mobbing


Così un fenomeno naturale è diventato un virus della modernità
Mobbing è un termine che sa di nuovo. Richiama alla mente l’odore bruciato dei fogli fotoco­piati, il frullio intermittente delle ventole che raffreddano i computer sempre accesi, il gonfiore delle caviglie da troppe ore incrociate sotto la scrivania, i neon rettangola­ri appesi al soffitto e il linoleum traslucido in­collato al pavimento. Come molti inglesismi con la desinenza -ing (stalking, phishing, hacking, spamming...), il mobbing viene spes­so classificato come una cattiva abitudine del­la modernità, un virus creato dal progresso, incubato nella cattività dell’ufficio e rimesso pericolosamente in circolo, infinite volte, dai sistemi chiusi di aerazione.

Invece, il mobbing è innanzitutto un feno­meno naturale. L’etologo Konrad Lorenz, pre­mio Nobel per la medicina nel 1973, fu il pri­mo a utilizzare il termine, parlando di anatre selvatiche, per descrivere l’aggressione di un gruppo ai danni di un altro esemplare. Un as­salto collettivo, con lo scopo di spaventare e allontanare il singolo, percepito come minac­cia. In effetti, si tratta proprio di questo.

Comincia senza clamore. Un giorno scopri di essere stato spostato di ufficio. Vieni separa­to dal collega con cui condividevi le pause caf­fè e commentavi le partite della domenica. Ti dispiace, ma potrebbe anche trattarsi di una svolta positiva: ora, alle scrivanie accanto alla tua, siedono infatti due impiegati che hanno grande confidenza con il nuovo capo. Sembra­no amichevoli, ti propongono delle uscite se­rali, di andare a fare jogging insieme, ma poi, per ragioni ogni volta diverse, non si combina mai nulla. I ritmi rallentano, c’è meno da fare. Con il tempo, avverti un’incipiente fiacchezza, hai l’impressione che i compiti che ti vengono affidati siano via via più semplici, quasi incon­sistenti. In silenzio, ti capita di domandarti sempre più spesso se il tuo lavoro sia veramen­te utile («demansionamento»). Poi, a pochi giorni dalla conclusione del progetto che ave­vi ideato, curato e portato avanti per mesi, ti viene comunicato che la responsabilità non è più tua, che il timone passa a una coppia di stagiste inesperte («straining»). Allora non so­no io, dici, sono loro. Già, ma loro chi? I due compagni d’ufficio fanno spallucce: non trova­no ci sia nulla di strano («Non sarai troppo stressato?»). Ormai è da tempo che non ti invi­tano a unirti alle loro pause caffè. Li sorprendi spesso a parlare sottovoce, gli occhi puntati nella tua direzione, quasi stessero cospirando («mobbing orizzontale»). Il capo è sempre troppo impegnato per riceverti, non risponde neppure al telefono («mobbing verticale», «bossing»). Ti ritrovi accerchiato e solo, con quel senso d’impotenza kafkiano che prende quando, dopo mesi di un disservizio irrisolto, la ragazza di un call-center risponde: «No, non posso passarle il mio superiore. Non ho neppure il suo numero». La certezza del com­plotto arriva quando il tuo account e-mail vie­ne bloccato. Improvvisamente hai paura. Di cosa? Di qualcosa di spaventoso, come solo ciò che è invisibile può essere. Inizi a soffrire di nausea, hai le vertigini, forti mal di testa («disturbo post-traumatico da stress»). «For­se ti serve una vacanza», consigliano i colle­ghi. Tu diventi irascibile, ti dibatti come un pe­sciolino stretto in una mano, minacci azioni legali e questo non fa che giustificare e alimen­tare ogni ulteriore ostilità nei tuoi confronti.

Infine, una mattina come tante, trovi la stan­za d’ufficio misteriosamente spopolata. Sulla tua scrivania sgombra è poggiata una lettera. Licenziato. La giusta causa? I ripetuti ritardi. Umiliazione, panico, svuotamento. C’è una se­quenza della brillante fiction televisiva The Of­fice, realizzata nel Regno Unito dalla Bbc e tra­smessa in Italia da Mtv, che racconta esatta­mente questi istanti. Nell’ultimo episodio del­la seconda serie il viscido, compiaciuto ed esi­larante protagonista David Brent viene licen­ziato (gli inglesi hanno una forma più genti­le/ ostile per dirlo: to make redundant, rende­re superfluo). Inizialmente, Brent abbozza di fronte al superiore, che gli ha appena comuni­cato la notizia. Ma, quando questo gli tende la mano per la stretta finale, lui gliela trattiene. «Don’t make me redundant — sussurra, sup­plichevole, spogliato di ogni dignità —, plea­se ». Non mi licenzi. Per favore.

Sul sito dell’Aivil (Associazione Italiana Vit­time e Infortuni sul Lavoro, www.associazio­neaivil.com ) c’è scritto che, a differenza di al­tri problemi la cui portata si può intuire con uno sforzo di immaginazione, per quanto ri­guarda le situazioni di emarginazione profes­sionale o stress lavorativo, «solo l’esperienza diretta, non sempre facilmente comunicabile razionalmente, non sempre oggettivabile» è in grado di fornire un’adeguata comprensio­ne.

Ma, quantomeno per intuire la portata del disagio, si può leggere il romanzo di Annette Pehnt, intitolato proprio Mobbing, appena pubblicato in Italia nell’affidabile collana Bloom di Neri Pozza (traduzione di Riccardo Cravero, pp. 154, e 15). L’autrice tedesca rico­struisce un caso emblematico di mobbing, dalle prime avvisaglie fino all’inevitabile epilo­go, con perizia documentaristica ma senza al­cuna pedanteria, in uno stile incalzante e sin­copato. Joachim viene ostracizzato dai colle­ghi, esautorato del proprio ruolo e infine eli­minato. La sua discesa agli inferi è raccontata dalla moglie, con la voce allarmata, compas­sionevole, affettuosa, irritata e talvolta esau­sta di chi non vive la situazione in diretta, ma ne paga tutte le conseguenze. La protagonista assiste alla distruzione di suo marito, che gli assilli lavorativi rendono addirittura incapace di baciarla, di aiutarla ad accudire le due fi­glie piccole, di stringerle la mano dopo il lun­go travaglio che precede la nascita della se­conda.

Per Annette Pehnt, il mobbing non esauri­sce il suo effetto sulla vittima designata. È una catena disastrosa: dal marito alla moglie, dalla madre al figlio, dalla coppia agli amici, e così via. Il nervoso accumulato in ufficio si sfo­ga in una risposta aggressiva data a casa, la preoccupazione per i soldi che cominciano a scarseggiare diventa una sberla di troppo alla bambina, l’impossibilità economica di per­mettersi le vacanze «come tutti gli altri» un disincentivo per telefonare anche all’amica più cara. Prima ancora di suo marito, la prota­gonista è forse una vittima del mobbing, di un mobbing diverso però: casalingo, striscian­te, accolto come un sacrificio dovuto alla fami­glia. Ha abbandonato il lavoro di traduttrice per restare con le bambine, fino a confinarsi nel rassicurante e desolato isolamento dome­stico, dove — proprio come nell’azienda del marito — non ha nessuno con cui confidarsi, e dove le figlie sono una presenza incancella­bile e spesso alienante, «valvole di sicurez­za », che costringono a comprimere la rabbia nel petto, senza lasciarla mai esplodere.

Il mobbing è un fenomeno naturale. Appar­tiene alle anatre selvatiche e agli esseri umani, a ogni branco ed eco­sistema. È una crudele dinamica di sopravvivenza. Di certo, l’ostraci­smo dal proprio ambiente lavorati­vo è una condizione difficile da im­maginare, se non la si sperimenta in prima persona. Ma per avvici­narvisi è possibile fare un salto in­dietro, a quando eravamo bambi­ni, a quando eravamo più spietata­mente «naturali», e rivivere una scena quoti­diana. Un bambino si avvicina a un gruppo di compagni di scuola, riuniti in cerchio intorno a un percorso per le biglie, le mani poggiate a terra, le teste chine. Chiama il capetto, toccan­dolo timidamente sulla spalla: «Posso giocare anch’io?». «No, tu no». Qualcuno fa eco alla ri­sposta, qualcun altro tace, imbarazzato: il lea­der non va contraddetto. Fuori da quel cerchio ci siamo stati tutti, almeno una volta. E quella risposta negativa e ingiustificata l’abbiamo da­ta in altrettante occasioni. Se abbiamo sempli­cemente taciuto, non fa poi molta differenza, mobbizzati e mobbizzatori che siamo.

Paolo Giordano
27 aprile 2009

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