Che Georges Simenon, oltre a essere il più prolifico, sia anche uno dei maggiori narratori in lingua francese del Novecento, è argomento sul quale è ormai difficile non essere d’accordo.
Simenon conosce ogni segreto della scrittura. Sa, avendolo imparato da Tolstoj, che per descrivere fisicamente un personaggio non occorre «descriverlo tutto»: basta un taglio dei capelli, due baffi, un gonfiore alle caviglie oppure la ripetizione di un gesto, il colore degli occhi. Sa che la medesima regola vale per le atmosfere: basta il ronzio della stufa in una camera «ben riscaldata», il rumore della pioggia sui vetri, il suono di una sirena proveniente dal porto. Sa, come sapeva Flaubert, che gli oggetti, gli ambienti, le «cose» hanno un’anima e, in un romanzo, contano moltissimo: talvolta più dei personaggi. Sa che i dialoghi devono essere il più possibile simili a quelli che si pronunciano nella realtà: quindi, stringati, semplici (anche quando i pensieri sono confusi, difficili da spiegarsi). Sa che il non detto è sempre più importante di quello che viene detto. Infine, sa che in un qualsiasi buon romanzo non è la trama a precedere le parole, bensì il contrario.
Con queste regole, Simenon ha costruito romanzi infallibili; che il lettore divora. Li divora, certo, soprattutto quelli più decisamente polizieschi, per sapere in che modo andranno a finire; ma non solo per quel motivo. Li divora, perché la lettura gli comunica una specie di eccitazione febbrile: un coinvolgimento fisico nelle vicende che non può esaurirsi altro che nel momento in cui i personaggi sono condannati o assolti, muoiono o spariscono. È il coinvolgimento nel male; la sottile tentazione del male. Quel male che, in tutte le sue rappresentazioni (l’avidità del danaro, l’ignoranza, l’invidia, la depravazione, la schiavitù del sesso, il disamore) è sempre al centro di ogni romanzo di Simenon e quasi sempre — come se anche quella non potesse essere altro che l’unica soluzione, in assenza di un giudizio morale — si conclude o fa perno in un delitto.
Può sembrare paradossale, parlando di uno scrittore che ha organizzato centinaia di trame, in centinaia di luoghi diversi, usando una miriade di diversi personaggi, ciascuno con la sua incancellabile fisionomia, ma in fondo, la realtà fisica di ogni romanzo di Simenon è la stessa: vuoi che sia ambientato a Parigi o in una cittadina di provincia, in campagna o in riva al mare. Di solito, piove o fa molto freddo. Di solito, c’è una stanza: una stanza che può essere «ben riscaldata » da una stufa o umida, però quasi sempre è buia o in penombra. Di solito, c’è un personaggio, in questa stanza, che vuole dimenticare una offesa o coltiva la memoria di una offesa; oppure, ci sono due personaggi che condividono un segreto o una sconosciuta disperazione. Fuori, nella nebbia, si sentono i rumori attutiti del traffico cittadino; oppure quelli dell’orologio della chiesa nella piazza del villaggio; o i richiami dei gabbiani che, dal largo, riaccompagnano i pescherecci nel porto. Sotto a questa stanza, a questo luogo dal quale partirà tutto, c’è sempre un bar fumoso o un bistrot con la porta che sbatte nel vento. In questo bar, ci sono delle persone che entrano e altre che sono lì già da tanto; persone che vogliono sapere delle informazioni o chiedono delle notizie o persone che sanno delle cose e però tacciono. Intanto, qualcuno è sceso dal vagone maleodorante di un treno e, camminando rasente i muri per difendersi dalla pioggia, arriva in un albergo di seconda categoria e declina le sue generalità al portiere dell’albergo; qualcuno, dalla soglia di un negozio, lo spia; il personaggio che avevamo incontrato nella stanza buia si decide ad accendere la luce; si sente uno sparo; gli avventori del bistrot non si accorgono di nulla e continuano a bere birre o anisette, a schiacciare nei posacenere i mozziconi delle sigarette; qualcuno, nel bar, ha come un presentimento ed esce all’aperto… Come andrà a finire? Soprattutto: in quale di questi personaggi, in quale di questi luoghi, si nasconde il male?
Il personaggio di Maigret nacque nel settembre del 1929. «Mi rivedo — scrisse Simenon — un mattino di sole, in un caffè. Forse avevo bevuto uno, due, tre bicchierini di ginepro con una spruzzata di birra. Sta di fatto che un’ora più tardi, quasi vinto dal torpore, cominciai a vedere dinanzi a me la massa imponente e impassibile di un signore che — mi parve — sarebbe stato un commissario accettabile. Nel corso della giornata aggiunsi al personaggio qualche accessorio: una pipa, una bombetta, un pesante cappotto con il collo di velluto… e gli concessi, per il suo ufficio, una vecchia stufa di ghisa». Qualcuno si accorse, in quel bar, in quella mattina di settembre, di quel signore imponente, appoggiato al bancone, con la pipa in mano, in attesa di far calare la schiuma dal bicchiere della sua birra? Qualcuno lo accompagnò con lo sguardo quando uscì? Qualcuno immaginò che, di là a qualche giorno o magari di lì a qualche settimana, per esempio in una serata umida di novembre, sarebbe tornato ad appoggiarsi a quel bancone per chiedere notizie?
Giorgio Montefoschi
Simenon conosce ogni segreto della scrittura. Sa, avendolo imparato da Tolstoj, che per descrivere fisicamente un personaggio non occorre «descriverlo tutto»: basta un taglio dei capelli, due baffi, un gonfiore alle caviglie oppure la ripetizione di un gesto, il colore degli occhi. Sa che la medesima regola vale per le atmosfere: basta il ronzio della stufa in una camera «ben riscaldata», il rumore della pioggia sui vetri, il suono di una sirena proveniente dal porto. Sa, come sapeva Flaubert, che gli oggetti, gli ambienti, le «cose» hanno un’anima e, in un romanzo, contano moltissimo: talvolta più dei personaggi. Sa che i dialoghi devono essere il più possibile simili a quelli che si pronunciano nella realtà: quindi, stringati, semplici (anche quando i pensieri sono confusi, difficili da spiegarsi). Sa che il non detto è sempre più importante di quello che viene detto. Infine, sa che in un qualsiasi buon romanzo non è la trama a precedere le parole, bensì il contrario.
Con queste regole, Simenon ha costruito romanzi infallibili; che il lettore divora. Li divora, certo, soprattutto quelli più decisamente polizieschi, per sapere in che modo andranno a finire; ma non solo per quel motivo. Li divora, perché la lettura gli comunica una specie di eccitazione febbrile: un coinvolgimento fisico nelle vicende che non può esaurirsi altro che nel momento in cui i personaggi sono condannati o assolti, muoiono o spariscono. È il coinvolgimento nel male; la sottile tentazione del male. Quel male che, in tutte le sue rappresentazioni (l’avidità del danaro, l’ignoranza, l’invidia, la depravazione, la schiavitù del sesso, il disamore) è sempre al centro di ogni romanzo di Simenon e quasi sempre — come se anche quella non potesse essere altro che l’unica soluzione, in assenza di un giudizio morale — si conclude o fa perno in un delitto.
Può sembrare paradossale, parlando di uno scrittore che ha organizzato centinaia di trame, in centinaia di luoghi diversi, usando una miriade di diversi personaggi, ciascuno con la sua incancellabile fisionomia, ma in fondo, la realtà fisica di ogni romanzo di Simenon è la stessa: vuoi che sia ambientato a Parigi o in una cittadina di provincia, in campagna o in riva al mare. Di solito, piove o fa molto freddo. Di solito, c’è una stanza: una stanza che può essere «ben riscaldata » da una stufa o umida, però quasi sempre è buia o in penombra. Di solito, c’è un personaggio, in questa stanza, che vuole dimenticare una offesa o coltiva la memoria di una offesa; oppure, ci sono due personaggi che condividono un segreto o una sconosciuta disperazione. Fuori, nella nebbia, si sentono i rumori attutiti del traffico cittadino; oppure quelli dell’orologio della chiesa nella piazza del villaggio; o i richiami dei gabbiani che, dal largo, riaccompagnano i pescherecci nel porto. Sotto a questa stanza, a questo luogo dal quale partirà tutto, c’è sempre un bar fumoso o un bistrot con la porta che sbatte nel vento. In questo bar, ci sono delle persone che entrano e altre che sono lì già da tanto; persone che vogliono sapere delle informazioni o chiedono delle notizie o persone che sanno delle cose e però tacciono. Intanto, qualcuno è sceso dal vagone maleodorante di un treno e, camminando rasente i muri per difendersi dalla pioggia, arriva in un albergo di seconda categoria e declina le sue generalità al portiere dell’albergo; qualcuno, dalla soglia di un negozio, lo spia; il personaggio che avevamo incontrato nella stanza buia si decide ad accendere la luce; si sente uno sparo; gli avventori del bistrot non si accorgono di nulla e continuano a bere birre o anisette, a schiacciare nei posacenere i mozziconi delle sigarette; qualcuno, nel bar, ha come un presentimento ed esce all’aperto… Come andrà a finire? Soprattutto: in quale di questi personaggi, in quale di questi luoghi, si nasconde il male?
Il personaggio di Maigret nacque nel settembre del 1929. «Mi rivedo — scrisse Simenon — un mattino di sole, in un caffè. Forse avevo bevuto uno, due, tre bicchierini di ginepro con una spruzzata di birra. Sta di fatto che un’ora più tardi, quasi vinto dal torpore, cominciai a vedere dinanzi a me la massa imponente e impassibile di un signore che — mi parve — sarebbe stato un commissario accettabile. Nel corso della giornata aggiunsi al personaggio qualche accessorio: una pipa, una bombetta, un pesante cappotto con il collo di velluto… e gli concessi, per il suo ufficio, una vecchia stufa di ghisa». Qualcuno si accorse, in quel bar, in quella mattina di settembre, di quel signore imponente, appoggiato al bancone, con la pipa in mano, in attesa di far calare la schiuma dal bicchiere della sua birra? Qualcuno lo accompagnò con lo sguardo quando uscì? Qualcuno immaginò che, di là a qualche giorno o magari di lì a qualche settimana, per esempio in una serata umida di novembre, sarebbe tornato ad appoggiarsi a quel bancone per chiedere notizie?
Giorgio Montefoschi
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