giovedì 25 giugno 2009

L’imponente commissario nato all’uscita da un bistrot


Che Georges Simenon, oltre a es­sere il più prolifico, sia anche uno dei maggiori narratori in lingua francese del Novecento, è argomento sul quale è ormai difficile non essere d’accordo.

Simenon conosce ogni segreto della scrittura. Sa, avendolo imparato da Tolstoj, che per descrivere fisicamente un personaggio non occorre «descriver­lo tutto»: basta un taglio dei capelli, due baffi, un gonfiore alle caviglie oppure la ripetizione di un gesto, il colore degli oc­chi. Sa che la medesima regola vale per le atmosfere: basta il ronzio della stufa in una camera «ben riscaldata», il rumo­re della pioggia sui vetri, il suono di una sirena proveniente dal porto. Sa, come sapeva Flaubert, che gli oggetti, gli am­bienti, le «cose» hanno un’anima e, in un romanzo, contano moltissimo: talvol­ta più dei personaggi. Sa che i dialoghi devono essere il più possibile simili a quelli che si pronunciano nella realtà: quindi, stringati, semplici (anche quan­do i pensieri sono confusi, difficili da spiegarsi). Sa che il non detto è sempre più importante di quello che viene det­to. Infine, sa che in un qualsiasi buon ro­manzo non è la trama a precedere le pa­role, bensì il contrario.

Con queste regole, Simenon ha costru­ito romanzi infallibili; che il lettore divo­ra. Li divora, certo, soprattutto quelli più decisamente polizieschi, per sapere in che modo andranno a finire; ma non so­lo per quel motivo. Li divora, perché la lettura gli comunica una specie di eccita­zione febbrile: un coinvolgimento fisico nelle vicende che non può esaurirsi altro che nel momento in cui i personaggi so­no condannati o assolti, muoiono o spa­riscono. È il coinvolgimento nel male; la sottile tentazione del male. Quel male che, in tutte le sue rappresentazioni (l’avidità del danaro, l’ignoranza, l’invi­dia, la depravazione, la schiavitù del ses­so, il disamore) è sempre al centro di ogni romanzo di Simenon e quasi sem­pre — come se anche quella non potesse essere altro che l’unica soluzione, in as­senza di un giudizio morale — si conclu­de o fa perno in un delitto.

Può sembrare paradossale, parlando di uno scrittore che ha organizzato centi­naia di trame, in centinaia di luoghi di­versi, usando una miriade di diversi per­sonaggi, ciascuno con la sua incancella­bile fisionomia, ma in fondo, la realtà fi­sica di ogni romanzo di Simenon è la stessa: vuoi che sia ambientato a Parigi o in una cittadina di provincia, in campa­gna o in riva al mare. Di solito, piove o fa molto freddo. Di solito, c’è una stanza: una stanza che può essere «ben riscalda­ta » da una stufa o umida, però quasi sempre è buia o in penombra. Di solito, c’è un personaggio, in questa stanza, che vuole dimenticare una offesa o coltiva la memoria di una offesa; oppure, ci sono due personaggi che condividono un se­greto o una sconosciuta disperazione. Fuori, nella nebbia, si sentono i rumori attutiti del traffico cittadino; oppure quelli dell’orologio della chiesa nella piazza del villaggio; o i richiami dei gab­biani che, dal largo, riaccompagnano i pescherecci nel porto. Sotto a questa stanza, a questo luogo dal quale partirà tutto, c’è sempre un bar fumoso o un bi­strot con la porta che sbatte nel vento. In questo bar, ci sono delle persone che en­trano e altre che sono lì già da tanto; per­sone che vogliono sapere delle informa­zioni o chiedono delle notizie o persone che sanno delle cose e però tacciono. In­tanto, qualcuno è sceso dal vagone male­odorante di un treno e, camminando ra­sente i muri per difendersi dalla pioggia, arriva in un albergo di seconda categoria e declina le sue generalità al portiere del­l’albergo; qualcuno, dalla soglia di un ne­gozio, lo spia; il personaggio che aveva­mo incontrato nella stanza buia si deci­de ad accendere la luce; si sente uno spa­ro; gli avventori del bistrot non si accor­gono di nulla e continuano a bere birre o anisette, a schiacciare nei posacenere i mozziconi delle sigarette; qualcuno, nel bar, ha come un presentimento ed esce all’aperto… Come andrà a finire? Soprat­tutto: in quale di questi personaggi, in quale di questi luoghi, si nasconde il ma­le?

Il personaggio di Maigret nacque nel settembre del 1929. «Mi rivedo — scris­se Simenon — un mattino di sole, in un caffè. Forse avevo bevuto uno, due, tre bicchierini di ginepro con una spruzzata di birra. Sta di fatto che un’ora più tardi, quasi vinto dal torpore, cominciai a vede­re dinanzi a me la massa imponente e im­passibile di un signore che — mi parve — sarebbe stato un commissario accetta­bile. Nel corso della giornata aggiunsi al personaggio qualche accessorio: una pi­pa, una bombetta, un pesante cappotto con il collo di velluto… e gli concessi, per il suo ufficio, una vecchia stufa di ghisa». Qualcuno si accorse, in quel bar, in quella mattina di settembre, di quel si­gnore imponente, appoggiato al banco­ne, con la pipa in mano, in attesa di far calare la schiuma dal bicchiere della sua birra? Qualcuno lo accompagnò con lo sguardo quando uscì? Qualcuno immagi­nò che, di là a qualche giorno o magari di lì a qualche settimana, per esempio in una serata umida di novembre, sarebbe tornato ad appoggiarsi a quel bancone per chiedere notizie?

Giorgio Montefoschi

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