domenica 28 giugno 2009

L’Italia ha bisogno di una scadenza



Nei mesi scorsi ho espresso apprez­zamento al go­verno, in partico­lare al ministro Giulio Tre­monti, per la gestione, ac­corta e sicura, della difficile crisi finanziaria. Ho invece criticato lo stimolo apporta­to dallo Stato per contrasta­re la recessione, a mio giu­dizio insufficiente pur tenu­to conto delle cautele impo­ste dall'alto debito pubbli­co, e la pausa nel processo delle riforme strutturali.

I provvedimenti adottati venerdì dal Consiglio dei ministri, come ha osserva­to ieri Dario Di Vico, vanno nella giusta direzione e ri­spondono almeno in parte alla prima critica, sia pure con un certo ritardo.

Lo spazio per misure temporanee di rilancio, sen­za generare reazioni negati­ve sul mercato dei titoli di Stato, potrebbe essere si­gnificativamente maggiore se, accogliendo il secondo rilievo, si riavviasse con de­cisione il cammino delle ri­forme.

Vi è ampio consenso sul­la necessità, richiamata dal Governatore Mario Draghi, di «attuare quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro siste­ma produttivo di essere par­te attiva della ripresa econo­mica mondiale». È opinio­ne diffusa che tali riforme debbano riguardare in par­ticolare la riduzione struttu­rale della spesa pubblica corrente, anche attraverso la riforma delle pensioni, la formazione del capitale umano, le infrastrutture, una maggiore concorrenza per aprire i mercati e ridur­re le rendite, la liberalizza­zione dei servizi e special­mente dei servizi pubblici locali.

In questi campi, qualche passo è stato compiuto. Ma a una marcia più decisa ven­gono opposte due obiezio­ni. Siamo sicuri che l'Italia abbia davvero bisogno di ri­forme? È opportuno chiede­re uno sforzo di riforma du­rante una crisi? Su questo terreno, su queste due obiezioni, do­vrebbe secondo me concen­trarsi oggi il dibattito, per capire che corso debba prendere il nostro Paese. Un dibattito in buona fede, perché entrambe quelle obiezioni sono rispettabili e potrebbero essere fonda­te.

Sul primo punto, la mia radicata opinione è che le riforme siano necessarie af­finché l'Italia, dopo 15 anni di bassa crescita, conquisti una maggiore competitivi­tà, uno sviluppo più eleva­to e una società più equa. Rimango convinto di ciò pur considerando realisti­che e importanti le osserva­zioni spesso formulate dal ministro Tremonti su alcu­ni punti di forza della strut­tura sociale, del sistema produttivo e perfino del si­stema finanziario del no­stro Paese. Questi punti di forza sono stati a lungo tra­scurati dagli italiani, forse per qualche complesso di inferiorità; e dagli osserva­tori internazionali, per la frequente incapacità di leg­gere realtà complesse con modelli uniformi.

È bene prendere atto che certe peculiarità italiane hanno attutito l'impatto della crisi sul nostro siste­ma economico e sociale, adoperarsi per mantenerne gli aspetti positivi, non in­dulgere nella imitazione acritica di modelli altrui. Ma accanto a quelle peculia­rità esistono sacche di inef­ficienze, di rendite, di privi­legi. Se opportune riforme aprissero un po' di più al vento del mercato e della concorrenza questi orti chiusi, l'Italia ne trarrebbe vantaggio. Sarebbe assurdo pensare che questo maggio­re mercato debba essere re­spinto solo perché altri mercati, certi mercati finan­ziari lasciati colpevolmente senza vigilanza, hanno scre­ditato agli occhi di molti il mercato in sé.

Occorre dunque riprendere il cammino delle riforme. Ma è opportuno farlo durante la crisi, quando il Paese è già sottoposto a un pesante stress? Anche questa è un’obiezione apprezzabile. Ma deve essere superata, per due buone ragioni.

Se l’Italia si presenterà alla ripresa dell’eco­nomia mondiale appesantita dalla sua scarsa competitività, altri scatteranno più veloci ai blocchi di partenza. Inoltre, se ci si accinges­se alle riforme a crisi superata, lo si dovrebbe fare in un contesto politico nazionale verosi­milmente meno favorevole di quello odierno, che è caratterizzato da una maggioranza am­pia e ragionevolmente compatta e da una legi­slatura ancora nella fase iniziale, con elezioni politiche tra quattro anni.

A pensarci, è strano che un governo forte come quello attuale non sia ansioso di fare presto molte riforme strutturali. Ha un’occa­sione unica per lasciare la sua traccia profon­da nella storia del Paese. Se fossero riforme persuasive, probabilmente la stessa opposi­zione non avrebbe interesse a contrastarle.

Forse, ciò che manca perché questo accada è semplicemente lo sguardo al futuro. L’opi­nione pubblica italiana segue, divertita e sgo­menta, un’attualità politica quotidiana che è diseducativa non solo per i suoi contenuti, ma anche perché distoglie ogni attenzione, dei cittadini e del mondo politico, dal futuro. La Francia, la Danimarca, molti altri Paesi hanno in corso riflessioni, promosse dai go­verni, su quale sarà la loro posizione nel con­testo della competizione mondiale tra 10 o 20 anni. I capi di governo dell’Unione europea hanno creato un gruppo per riflettere sull’Eu­ropa al 2020-2030.

E l’Italia?
Non mi risulta che sia in corso un analogo esercizio d’insieme, promosso dal go­verno, per capire come sarà il futuro dell’Ita­lia. Quale sarà, ad esempio, la posizione com­petitiva della nostra economia? Con quali con­seguenze sull’occupazione, sulla crescita, sul­la società, sui giovani? In che modo la posizio­ne dell’Italia sarà influenzata dalle politiche economiche e sociali che verranno poste in atto? Sono necessarie le riforme per diventa­re più competitivi e per crescere? Quali rifor­me? Come distribuirne i costi e i benefici? Che «programma» di medio-lungo termine è necessario? Con quali scadenze?

Nella vita pubblica italiana, le scadenze hanno sempre avuto un grande valore. Con­centrano gli sforzi, espongono al rischio di in­successo, spingono all’azione. È stato così con il «programma 1992», per la preparazio­ne dell’Italia al mercato unico europeo. È sta­to così per la preparazione all’euro, che richie­deva precisi risultati sul disavanzo pubblico e sull’inflazione entro il 1997. In entrambi i ca­si, l’Italia ha conseguito l’obiettivo, con un im­pegno collettivo favorito dalla scadenza.

E oggi? In assenza di una scadenza-chiave dataci dall’Europa, dovrebbe essere la comu­nità nazionale, guidata dal governo, a darse­ne una, per farvi convergere gli sforzi pubbli­ci e privati. Ma, se non sbaglio, l’unica data che ricorre, ogni tanto, nel dibattito pubblico italiano è il 2015, la data dell’Expo di Milano. È un evento di un certo rilievo, conquistato da Milano e dall’Italia con un notevole impe­gno comune, ma che sembra incontrare diffi­coltà, soprattutto per problemi interni alle forze della maggioranza di governo.

Se non altro, nel caso dell’Expo l’esistenza di una scadenza e l’attento scrutinio interna­zionale fanno sì che i problemi emergano e, si spera, siano risolti in tempo. Sul tema, in­comparabilmente più importante, della posi­zione dell’Italia nell’economia mondiale, for­se dovremmo darci noi, in modo esplicito, de­gli obiettivi e delle scadenze. Fare riflettere la comunità nazionale sul proprio futuro. Ispira­re a quelle riflessioni le decisioni sulle politi­che correnti

Mario Monti
28 giugno 2009

2 commenti:

stai sereno ha detto...

A me Padoa Schioppa sembra una persona seria, eppure quando era ministro era odiato dagli italiani

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

E' una persona seria, uno studioso di livello internazionale, ma non ha arti diplomatiche, che Mario Monti invece ha e che a me non piace troppo.
Anche nell'articolo strizza un po' l'occhio a Berlusconi.
Gli italiani odiano per ignoranza, arroganza, sufficienza e saccenza.
Nonappena qualcosa non gli va giù tutti a strillare come galline spennacchiate.
Avrai capito che non ho grande stima di certi italiani.