Nei mesi scorsi ho espresso apprezzamento al governo, in particolare al ministro Giulio Tremonti, per la gestione, accorta e sicura, della difficile crisi finanziaria. Ho invece criticato lo stimolo apportato dallo Stato per contrastare la recessione, a mio giudizio insufficiente pur tenuto conto delle cautele imposte dall'alto debito pubblico, e la pausa nel processo delle riforme strutturali.
I provvedimenti adottati venerdì dal Consiglio dei ministri, come ha osservato ieri Dario Di Vico, vanno nella giusta direzione e rispondono almeno in parte alla prima critica, sia pure con un certo ritardo.
Lo spazio per misure temporanee di rilancio, senza generare reazioni negative sul mercato dei titoli di Stato, potrebbe essere significativamente maggiore se, accogliendo il secondo rilievo, si riavviasse con decisione il cammino delle riforme.
Vi è ampio consenso sulla necessità, richiamata dal Governatore Mario Draghi, di «attuare quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro sistema produttivo di essere parte attiva della ripresa economica mondiale». È opinione diffusa che tali riforme debbano riguardare in particolare la riduzione strutturale della spesa pubblica corrente, anche attraverso la riforma delle pensioni, la formazione del capitale umano, le infrastrutture, una maggiore concorrenza per aprire i mercati e ridurre le rendite, la liberalizzazione dei servizi e specialmente dei servizi pubblici locali.
In questi campi, qualche passo è stato compiuto. Ma a una marcia più decisa vengono opposte due obiezioni. Siamo sicuri che l'Italia abbia davvero bisogno di riforme? È opportuno chiedere uno sforzo di riforma durante una crisi? Su questo terreno, su queste due obiezioni, dovrebbe secondo me concentrarsi oggi il dibattito, per capire che corso debba prendere il nostro Paese. Un dibattito in buona fede, perché entrambe quelle obiezioni sono rispettabili e potrebbero essere fondate.
Sul primo punto, la mia radicata opinione è che le riforme siano necessarie affinché l'Italia, dopo 15 anni di bassa crescita, conquisti una maggiore competitività, uno sviluppo più elevato e una società più equa. Rimango convinto di ciò pur considerando realistiche e importanti le osservazioni spesso formulate dal ministro Tremonti su alcuni punti di forza della struttura sociale, del sistema produttivo e perfino del sistema finanziario del nostro Paese. Questi punti di forza sono stati a lungo trascurati dagli italiani, forse per qualche complesso di inferiorità; e dagli osservatori internazionali, per la frequente incapacità di leggere realtà complesse con modelli uniformi.
È bene prendere atto che certe peculiarità italiane hanno attutito l'impatto della crisi sul nostro sistema economico e sociale, adoperarsi per mantenerne gli aspetti positivi, non indulgere nella imitazione acritica di modelli altrui. Ma accanto a quelle peculiarità esistono sacche di inefficienze, di rendite, di privilegi. Se opportune riforme aprissero un po' di più al vento del mercato e della concorrenza questi orti chiusi, l'Italia ne trarrebbe vantaggio. Sarebbe assurdo pensare che questo maggiore mercato debba essere respinto solo perché altri mercati, certi mercati finanziari lasciati colpevolmente senza vigilanza, hanno screditato agli occhi di molti il mercato in sé.
Occorre dunque riprendere il cammino delle riforme. Ma è opportuno farlo durante la crisi, quando il Paese è già sottoposto a un pesante stress? Anche questa è un’obiezione apprezzabile. Ma deve essere superata, per due buone ragioni.
Se l’Italia si presenterà alla ripresa dell’economia mondiale appesantita dalla sua scarsa competitività, altri scatteranno più veloci ai blocchi di partenza. Inoltre, se ci si accingesse alle riforme a crisi superata, lo si dovrebbe fare in un contesto politico nazionale verosimilmente meno favorevole di quello odierno, che è caratterizzato da una maggioranza ampia e ragionevolmente compatta e da una legislatura ancora nella fase iniziale, con elezioni politiche tra quattro anni.
A pensarci, è strano che un governo forte come quello attuale non sia ansioso di fare presto molte riforme strutturali. Ha un’occasione unica per lasciare la sua traccia profonda nella storia del Paese. Se fossero riforme persuasive, probabilmente la stessa opposizione non avrebbe interesse a contrastarle.
Forse, ciò che manca perché questo accada è semplicemente lo sguardo al futuro. L’opinione pubblica italiana segue, divertita e sgomenta, un’attualità politica quotidiana che è diseducativa non solo per i suoi contenuti, ma anche perché distoglie ogni attenzione, dei cittadini e del mondo politico, dal futuro. La Francia, la Danimarca, molti altri Paesi hanno in corso riflessioni, promosse dai governi, su quale sarà la loro posizione nel contesto della competizione mondiale tra 10 o 20 anni. I capi di governo dell’Unione europea hanno creato un gruppo per riflettere sull’Europa al 2020-2030.
E l’Italia? Non mi risulta che sia in corso un analogo esercizio d’insieme, promosso dal governo, per capire come sarà il futuro dell’Italia. Quale sarà, ad esempio, la posizione competitiva della nostra economia? Con quali conseguenze sull’occupazione, sulla crescita, sulla società, sui giovani? In che modo la posizione dell’Italia sarà influenzata dalle politiche economiche e sociali che verranno poste in atto? Sono necessarie le riforme per diventare più competitivi e per crescere? Quali riforme? Come distribuirne i costi e i benefici? Che «programma» di medio-lungo termine è necessario? Con quali scadenze?
Nella vita pubblica italiana, le scadenze hanno sempre avuto un grande valore. Concentrano gli sforzi, espongono al rischio di insuccesso, spingono all’azione. È stato così con il «programma 1992», per la preparazione dell’Italia al mercato unico europeo. È stato così per la preparazione all’euro, che richiedeva precisi risultati sul disavanzo pubblico e sull’inflazione entro il 1997. In entrambi i casi, l’Italia ha conseguito l’obiettivo, con un impegno collettivo favorito dalla scadenza.
E oggi? In assenza di una scadenza-chiave dataci dall’Europa, dovrebbe essere la comunità nazionale, guidata dal governo, a darsene una, per farvi convergere gli sforzi pubblici e privati. Ma, se non sbaglio, l’unica data che ricorre, ogni tanto, nel dibattito pubblico italiano è il 2015, la data dell’Expo di Milano. È un evento di un certo rilievo, conquistato da Milano e dall’Italia con un notevole impegno comune, ma che sembra incontrare difficoltà, soprattutto per problemi interni alle forze della maggioranza di governo.
Se non altro, nel caso dell’Expo l’esistenza di una scadenza e l’attento scrutinio internazionale fanno sì che i problemi emergano e, si spera, siano risolti in tempo. Sul tema, incomparabilmente più importante, della posizione dell’Italia nell’economia mondiale, forse dovremmo darci noi, in modo esplicito, degli obiettivi e delle scadenze. Fare riflettere la comunità nazionale sul proprio futuro. Ispirare a quelle riflessioni le decisioni sulle politiche correnti
Mario Monti
28 giugno 2009
2 commenti:
A me Padoa Schioppa sembra una persona seria, eppure quando era ministro era odiato dagli italiani
E' una persona seria, uno studioso di livello internazionale, ma non ha arti diplomatiche, che Mario Monti invece ha e che a me non piace troppo.
Anche nell'articolo strizza un po' l'occhio a Berlusconi.
Gli italiani odiano per ignoranza, arroganza, sufficienza e saccenza.
Nonappena qualcosa non gli va giù tutti a strillare come galline spennacchiate.
Avrai capito che non ho grande stima di certi italiani.
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