TEHERAN - Il comandante della polizia iraniana, in uniforme verde, risaliva via dell'Ospedale Komak con le armi in pugno e la sua piccola pattuglia accanto. "Lo giuro su Dio", gridava ai manifestanti che aveva di fronte, "ho moglie e figli, non voglio picchiare la gente. Per favore, andatevene a casa". Un uomo accanto a me gli ha lanciato una pietra. Il comandante, senza battere ciglio, ha continuato a pregarli. C'erano dei cori: "Unisciti a noi, unisciti a noi!". La pattuglia si è ritirata verso via della Rivoluzione, dove folti gruppi di persone si spostavano vorticosamente avanti e indietro attaccati dalla milizia Basiji armata di bastoni e dagli agenti di polizia antisommossa vestiti di nero sulle loro motocicletta.
Nuvole di fumo nero aleggiavano sulla grande città nel tardo pomeriggio. Da alcune motociclette date alle fiamme si levavano grandi fiammate verso il cielo. L'ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema, aveva approfittato del suo sermone del venerdì per dare un ultimatum a Teheran, minacciando "spargimento di sangue e caos" se fossero continuate le proteste di chi contestava il risultato delle elezioni.
Sabato li ha ottenuti entrambi, ma ha anche visto l'autorità della sua carica, fino ad allora sacrosanta, sfidata come non era mai successo da quando la rivoluzione del 1979 aveva generato la Repubblica islamica e concepito per lui un ruolo di guida a fianco al Profeta stesso. Una moltitudine di iraniani, sabato, ha spinto la sua lotta oltre un limite sacro dal quale sarà difficile poter tornare indietro.
Non so dove porterà questa sollevazione. Quello che so è che alcune unità delle polizia stanno vacillando. E che il comandante che parlava della sua famiglia non era solo. C'erano altri poliziotti che si lamentavano delle indisciplinate milizie Basiji. Alcune forze di sicurezza sono rimaste ferme a guardare.
So anche che le donne iraniane sono in prima linea. Da giorni, ormai, le vedo incoraggiare gli uomini meno coraggiosi ad andare avanti. Le ho viste percosse e poi ributtarsi nella mischia. "Perché state lì seduti?", ha gridato una donna a due uomini accovacciati sul marciapiede. "Alzatevi! Alzatevi!".
Un'altra donna, Mahin, 52 anni, occhi verdi, si trascinava piangendo in un vicolo, con le mani sul volto. Poi, incoraggiata dalle persone intorno a lei, ha raggiunto zoppicando la folla che si dirigeva verso piazza della Libertà. La accompagnavano le grida di "Morte al dittatore" e "Vogliamo la libertà".
C'era gente di tutte le età. Ho visto un anziano con le stampelle, impiegati di mezza età e bande di adolescenti. Diversamente dalle rivolte studentesche del 2003 e del 1999, questo movimento è ampio. Una donna mi ha chiesto: "Le Nazioni Unite non potrebbero aiutarci?". Le ho detto che ne dubito molto. "Allora", ha detto, "dobbiamo cavarcela da soli".
Nei pressi di via della Rivoluzione, mi sono ritrovato in una nuvola di gas lacrimogeno. Pochi minuti prima avevo acceso una sigaretta - non per abitudine ma per necessità - e un giovane mi è crollato davanti urlando: "Soffiami il fumo in faccia". Il fumo riduce in parte gli effetti del gas. Ho fatto quello che potevo e lui mi ha detto, in inglese: "Siamo con voi". Insieme al mio collega, siamo finiti in un vicolo cieco - a Teheran ce ne sono tanti - per sfuggire al bruciore del gas e alla polizia. Sono caduto boccheggiante in un portone, dove qualcuno aveva acceso un fuocherello in un piatto per alleviare l'irritazione.
Più tardi ci siamo diretti verso nord, guardinghi, attenti alle improvvise cariche della polizia, e abbiamo raggiunto piazza della Vittoria, dove si stava svolgendo un aspro scontro. Dei giovani spezzavano pietre e mattoni per poterli lanciare. Alcuni gruppi di persone si affollavano sui cavalcavia per filmare e incoraggiare i manifestanti. Una macchina ha preso fuoco. La folla avanzava e indietreggiava, affrontata da unità di polizia poco convinte.
Attraverso il fumo ho visto un manifesto con il viso severo di Khomeini che campeggiava sulle parole: "L'Islam è la religione della libertà". Più tardi, mentre calava la notte sulla capitale in tumulto, si sentivano degli spari in lontananza. Dai tetti della città, il grido di sfida "Allah-u-Akbar" - Dio è grande - risuonava nuovamente, come ogni notte dal giorno dei brogli elettorali. Sabato, però, sembrava più forte. Lo stesso grido si sentì nel 1979, solo perché una forma di assolutismo lasciasse il posto ad un'altra. L'Iran ha aspettato abbastanza per essere libero.
22 giugno 2009
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