Non voglio commentare l'intervento di Berlusconi sulle previsioni (tutte concordi tra loro) delle varie istituzioni finanziarie internazionali, del nostro Istituto di statistica, del governatore della Banca d'Italia e dei giornali "sovversivi" che ne riportano fedelmente le stime. E neppure voglio soffermarmi sul reiterato invito del premier a boicottare la libera stampa lasciandola a secco di inserzioni pubblicitarie. L'ha già fatto ieri Ezio Mauro definendo quelle sconsiderate parole "Minacce e disperazione".
Voglio invece esaminare i provvedimenti che il ministro Tremonti ha proposto e che il Consiglio dei ministri ha approvato e che nelle intenzioni del governo dovrebbero servire a superare la crisi venendo incontro all'appello della Confindustria, dei sindacati e dell'opposizione per sostenere la ripresa entro i prossimi tre mesi, in mancanza di che - come ha detto la Marcegaglia - l'intero sistema economico rischia il precipizio.
Si tratta di provvedimenti talmente leggeri per dimensione e diluiti nel tempo da risultare del tutto inefficaci. Stupisce che l'organizzazione dei commercianti li abbia accolti con applausi; forse non hanno capito (e non sarebbe la prima volta) oppure gli esponenti di quell'organizzazione non sono in sintonia con i loro rappresentanti che conoscono e soffrono sulla loro pelle la situazione reale.
L'architettura normativa di quella ridicola manovra si appoggia su due interventi: un "bonus" alle aziende che invece di licenziare o mettere in cassa integrazione i propri dipendenti in esubero li trattengano presso di sé in attesa che la tempesta abbia termine e la riduzione del 50 per cento della fiscalità sugli utili reinvestiti nei processi produttivi. Soprattutto su questo secondo intervento punta il ministro dell'Economia, anche lui assai imbronciato nei confronti di Draghi, dell'Istat, dell'Ocse, della Banca mondiale, profeti di sventura da ridurre al silenzio "almeno fino al prossimo settembre".
Zittire le Cassandre", questo è il succo di ciò che il governo ha in mente per uscire dalla crisi che attanaglia il mondo intero: un programma di politica economica non solo risibile ma sciagurato.
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Il "bonus" alle imprese per evitare i licenziamenti. Non se ne conosce ancora l'ammontare e la relativa copertura e c'è una ragione che spiega questo silenzio: si ignora infatti quali e quante saranno le aziende che vorranno aderire a quell'invito e come saranno in grado di dimostrare di aver cambiato parere sul licenziamento dei loro dipendenti. I criteri per accertare questo auspicabile ravvedimento dovranno infatti esser rigorosi per non dar luogo a truffe ai danni dell'erario.
Anche supponendo che truffe non vi saranno resta comunque incerto che quel ravvedimento virtuoso vi sarà in misura apprezzabile e resta altrettanto incerto che si tratti d'un ravvedimento utile. Se il "bonus" sarà troppo esiguo le aziende non avranno alcun interesse ad accettarlo; se invece sarà adeguato, la perdita per l'erario sarà gravosa e difficile la sua copertura. Assai meglio sarebbe rafforzare con quelle risorse il sistema degli ammortizzatori sociali lasciando libere le imprese di calibrare al meglio il personale necessario alla produzione.
Ma veniamo al nocciolo del provvedimento, l'esenzione del 50 per cento di gravame fiscale sugli utili reinvestiti. Anche qui l'ammontare delle risorse necessarie è puramente ipotetico poiché è ipotetico l'ammontare degli utili destinati ad esser reinvestiti.
Il provvedimento specifica con apprezzabile chiarezza quali siano gli investimenti che meritano l'esenzione fiscale; si tratta di un ventaglio ridotto, di fatto riservato alle imprese medie e grandi che dispongono di programmi innovativi sia nel campo dei prodotti sia in quello dei processi di produzione.
C'è tuttavia un però che riguarda la tempistica: per dar luogo all'investimento degli utili occorre che gli utili vi siano e qui la scrematura sarà purtroppo vistosa in tempi di crisi. Ma poi è necessario che quegli utili siano destinati agli investimenti indicati nel provvedimento. Soltanto l'esame rigoroso dei bilanci aziendali sarà in grado di dimostrare che l'operazione di reinvestimento è stata effettuata, il che significa che la riduzione del carico tributario avrà luogo al più presto nella primavera del 2010 e non nei prossimi cento giorni come Emma Marcegaglia avrebbe voluto.
Tremonti del resto non si smentisce, se c'è un politico coerente è lui. La sua politica è sempre stata quella di guadagnar tempo sperando che il futuro sia migliore. Fece così nella legislatura 2001-2006, quando impiantò la sua politica sui condoni, sulle operazioni di "swap", sulla cartolarizzazione d'una parte del patrimonio pubblico immobiliare. Il risultato fu la caduta verticale dell'avanzo di bilancio, l'aumento altrettanto verticale della spesa e la flessione delle entrate tributarie.
Ora le condizioni sono cambiate e la politica di guadagnar tempo mantenendo possibilmente il consenso popolare si appoggia ad una tecnica profondamente diversa. Si tratta infatti di promettere e addirittura di inserire nella legislazione provvedimenti di sostegno alla produzione postergandone l'esecutività ad un anno da oggi. A quel punto se la tempesta sarà passata gli stimoli saranno diventati inutili ma comunque peseranno gravemente sulle casse dello Stato. Oggi che servirebbero "per scongiurare il precipizio" non se ne vede alcuno e tutto resta come prima. I salvagenti per aiutare i naufraghi che rischiano di morire sono stati gettati ad alcuni chilometri di distanza dal luogo del naufragio. Questo è esattamente il senso dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri. Altro di consistente non c'è.
Eppure un modo per soccorrere i naufraghi c'era ed è stato più volte indicato in questi mesi sia dalle imprese interessate sia dagli economisti e dall'opposizione. Si trattava di mettere immediatamente in pagamento i debiti dello Stato nei confronti di molte imprese e perfino delle pubbliche amministrazioni locali.
L'ammontare di questi debiti è stimata in 80 miliardi. I creditori privati e pubblici si sarebbero accontentati di una prima tranche di 30 miliardi con i quali avrebbero rimborsato alle banche i prestiti ricevuti per sopravvivere e i cospicui interessi nel frattempo maturati. Anche le banche, rientrando da esposizioni già molto protratte, avrebbero acquistato maggior libertà di manovra per nuove erogazioni tanto invocate e reclamate.
L'operazione sarebbe dunque utile ed anzi necessaria da ogni punto di vista ma presenta un piccolo inconveniente: in questo caso si tratta infatti di soldi veri, da pagare immediatamente. Tremonti, che pure aveva promesso di accogliere quelle richieste, ora fa il sordo. Il suo premier poi, anche lui impegnato in prima persona, ha addirittura perso l'udito. Nel frattempo trastullano le imprese, gli industriali, i commercianti, col "bonus" e con il credito di imposta ad un anno data.
Chi ha orecchi per udire e occhi per vedere, intenda e giudichi.
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Il governatore Draghi, reo di imitare la Cassandra omerica, è stato dal canto suo d'una chiarezza cristallina. La diagnosi esposta due giorni fa (che ha suscitato l'ira funesta di Tremonti e del suo premier) è questa: la domanda interna e internazionale è piatta o discendente e ancor più lo sarà nei prossimi sei mesi in parallelo con l'aumento della disoccupazione e con la discesa complessiva del monte-salari. In simili condizioni le imprese sono restie ad investire e l'economia precipita nella recessione. Il nostro reddito pro capite è intanto il più basso d'Europa, al tredicesimo posto della classifica, seguito soltanto dalla Grecia e dalla Slovenia.
La questione dunque si gioca interamente sui consumi e sul sostegno dei redditi dei disoccupati e cassintegrati. Tutto il resto è puro spettacolo volto a mantenere il consenso dietro ad un sipario di chiacchiere. Ed ecco perché si vuole zittire chi parla della crisi che c'è ed è ancora ben lontana dall'esser stata superata.
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Sull'argomento economico non mi resta per ora altro da scrivere e potrei fermare qui le mie riflessioni domenicali, ma c'è un altro tema al quale vorrei dedicare qualche osservazione ed è il preannunciato congresso (il primo dopo quello di fondazione) del Partito democratico.
È utile farlo ora questo congresso, non solo perché previsto dallo statuto con una procedura in realtà piuttosto barocca, ma anche perché tra un anno ci saranno le elezioni regionali, un appuntamento di notevole importanza al quale il Pd non può arrivare senza aver preso le necessarie decisioni sulla propria identità e la propria struttura.
Il congresso può rappresentare un momento di rilancio positivo oppure la vigilia d'un'implosione se si trasformerà in una rissa di tutti contro tutti. Questo rischio non è affatto remoto, esiste anzi incombe e spetta soprattutto ai militanti di quel partito di scongiurarlo oppure, con comportamenti impropri e non avveduti, renderlo inevitabile.
Non è avveduta la formazione di gruppi e gruppetti, il pullulare di capi e capetti, lo sbriciolamento del comune sentire, la velleità di formulare programmi fondati su parole vuote, affermazioni generiche, ricerca e costruzione di nicchie incapaci di governare ma capacissime di impedire ogni azione efficace.
Un partito riformista di massa non è mai esistito in Italia da quando esiste lo Stato unitario. Oggi esiste e conta all'incirca dieci milioni di voti. Paragonare questi voti, la loro composizione sociale e la loro identità riformista al vecchio Partito comunista è un errore madornale. Altrettanto madornale è l'errore di chi si rifacesse a vecchie appartenenze cattolico-popolari. Quel che rimaneva di quei due partiti oscillava un anno fa per il primo (Ds) attorno al 16 per cento e per il secondo (Margherita) intorno all'11. I dirigenti di entrambi arrivarono alla conclusione che le due storie si erano interamente esaurite. Questo fu il vero atto di nascita del Pd e questa fu la ragione dell'insediamento di Veltroni alla sua guida.
Il risultato elettorale delle elezioni politiche del 2007, con il 33,4 per cento dei voti, non fu una sconfitta come tutti ritennero, ma una vittoria. Per la prima volta il riformismo aveva un partito democratico e laico che rappresentava un terzo degli italiani.
Oggi quella rappresentanza è scesa da un terzo ad un quarto. È stata una sconfitta politica ma non la fine di un disegno. Le amministrative sono state anch'esse una sconfitta, in una fase tuttavia in cui l'intera sinistra europea è stata travolta. C'è però un dato da tener presente: tutti i partiti, con la sola eccezione della Lega, hanno indietreggiato in cifre assolute. Perfino Di Pietro: alle amministrative il suo partito ha perso il 9 per cento in voti assoluti. Così, chi più chi meno, tutti gli altri. La Lega ha ripreso gli stessi voti delle precedenti elezioni.
È dunque il partito del non-voto o del voto inutilmente disperso che va interpellato, rimotivato, riportato in linea e questo dovrebbe essere il vero compito del congresso del Pd.
Un problema analogo si pone al Pdl che ha anch'esso subito una profonda diminuzione in termini di voti assoluti, ma lì le cause sono diverse: si sta allontanando l'elettorato cattolico e moderato. Se quell'emorragia non si fermerà l'attuale gruppo dirigente del Pdl dovrà trovare nel suo interesse i modi per invertire il trend. Affare loro ma anche di chi non la pensa come loro perché il problema della democrazia interessa tutti e a tutti dovrebbe stare a cuore.
Il Partito democratico, per ritornare a quel tema, può e deve confrontare due diversi modi di intendere l'identità, la struttura e i valori culturali del partito. E non è vero che parte da zero. Il programma che Veltroni espose al Lingotto rappresenta ancora, a rileggerlo oggi, una piattaforma più che accettabile con qualche integrazione soprattutto sul versante laico che allora fu troppo sottaciuto.
Comunque non partono da zero i democratici italiani. Debbono contarsi su diverse visioni del bene comune, se ce ne sono di diverse; oppure su due diverse personalità e biografie.
Chi osserva da fuori questa vicenda non vede spazio per terzi e quarti candidati, sembra già ardua una visione duplice, tre o quattro sarebbero un tentativo di dividere l'atomo, che francamente servirebbe solo a nascondere la rissa generale e l'implosione.
Se è questo che i militanti di quel partito vogliono, nessuno potrà impedirglielo. Sappiano soltanto che l'implosione significherà sotterrare per un tempo indefinibile l'esistenza di un riformismo democratico in un Paese invaso dalla demagogia, dalla corruttela e da pulsioni autoritarie sempre più evidenti.
(28 giugno 2009)
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