Al di là del Capo dello Stato c'è un grande vuoto di personalità cui chiedere il sacrificio dell'impegno pubblico
In passato abbiamo avuto la possibilità di ricorrere a uomini come Carlo Azeglio Ciampi, al quale venne richiesto un compito difficilissimo prima come capo di un governo di transizione, poi come ministro del Tesoro, e infine come presidente della Repubblica. Non si può dimenticare il ruolo preziosissimo ricoperto nella vicenda dell'ingresso nell'area della moneta unica, quando il suo prestigio in campo europeo contribuì a superare i dubbi dei partner sulla capacità di tenuta dei conti pubblici italiani, gravati da un debito fuori dai parametri di Maastricht. Così come oggi, nel momento di un attacco squinternato all'unità nazionale, non è possibile trascurare il sottile e fitto lavoro di cucitura eseguito nei suoi sette anni al Quirinale, con la valorizzazione dei simboli (la bandiera e l'inno nazionale) e soprattutto con i cento viaggi nelle province italiane, alla ricerca di una società più unita e solidale di quanto non mostrasse la politica.
Oggi stiamo assistendo a un solerte lavoro da parte di Giorgio Napolitano, nel tentativo di tenere sotto controllo un'azione legislativa spesso scombinata, e animata da intenzioni sbagliate o dalla voglia di slabbrare strumentalmente l'architettura istituzionale del sistema. Ma ci si rende conto facilmente che al di là del capo dello Stato c'è un grandissimo vuoto, uno spazio che difficilmente può essere riempito. Dopo il mandato di Napolitano si può immaginare un'occupazione 'manu militari' del Colle, con effetti purtroppo immaginabili sugli equilibri istituzionali (anche se grazie al cielo, e ai sofisticati microfoni utilizzati dalla escort Patrizia D'Addario, si direbbe che è evaporata dall'orizzonte politico l'ipotesi di Berlusconi al Quirinale).
Può sembrare piuttosto bizzarro che in tempi di crisi della politica (crisi culturale soprattutto, crisi di idee complessive e di progetti) si possa assistere in prospettiva a una superpoliticizzazione dei poteri neutri dello Stato. Ma si tratta di un fenomeno facilmente spiegabile: quando non sono in gioco valori supremi, la politica è anche gestione, amministrazione, spartizione. Cambia tutto, nella scena, se dovessimo affrontare un periodo di crisi conclamata, come sarebbe possibile ad esempio con la caduta di Berlusconi e con un autunno disastroso per l'economia e l'occupazione.
Tutta la politica italiana, infatti, di governo e di opposizione, dipende dalla figura del Cavaliere, dal gioco di attrazione e repulsione che ha innescato negli anni e che condiziona ormai l'intero sistema politico. Il suo ritiro, o autoeliminazione, rappresenterebbe potenzialmente la catastrofe finale di una Repubblica mai compiuta, e quindi fragilissima nei suoi meccanismi, nonché vulnerabilissima socialmente in seguito al prevedibile colpo di coda della recessione.
È in queste condizioni che verrebbero utili, e anzi essenziali, quelle figure di alta credibilità biografica e intellettuale a cui chiedere il sacrificio personale dell'impegno pubblico nel momento della massima tensione politica e istituzionale. Ma ormai le riserve della Repubblica sono esaurite. Dovesse effettivamente crollare il berlusconismo, si può intravedere in controluce l'eventualità di un governo Fini, grazie anche all'asse con il Quirinale.
Curiosa ipotesi, anche questa, di una felice coabitazione e di un 'idem sentire' fra un ex comunista e un ex fascista: ma anche in questo caso si tratterebbe, e in parte già si tratta, di un esemplare combinazione realizzata da una politica che non ha saputo trovare niente di nuovo, e quindi deve affidarsi al vecchio. Nella speranza che il 'patriottismo della Costituzione', secondo la storica definizione di Habermas, sia sufficiente a reggere gli equilibri di un sistema che sta già cedendo.
(28 agosto 2009)