giovedì 15 ottobre 2009

BRUNI, L’ALTRO PM STRITOLATO DA WHY NOT


Dopo de Magistris il caso del procuratore applicato all’inchiesta contro la sua volontà
di Antonio Massari


IL 2008 per de Magistris è un periodo intenso. È stato punito dal Csm, trasferito di sede e funzioni dalla procura di Catanzaro, va e viene dalla procura di Salerno, dove sta denunciando un “sistema” di malaffare composto da politici, imprenditori, agenti dei servizi, faccendieri, giornalisti e - soprattutto - magistrati. È questo “sistema” - dice De Magistris ai colleghi di Salerno - che gli ha sottratto le indagini “Why not” e “Poseidone”. Gliele ha sottratte in maniera illegale e mirata: per impedirgli di continuare a indagare.
È in questo contesto che, il 27 maggio, un magistrato si affaccia alla porta del suo ufficio. Il suo nome è Pierpaolo Bruni. Cravatta sottile, testa rasata, il crotonese Bruni è un pm poco noto alle cronache nazionali, e c’è poco da stupirsi, visto che da decenni, in Italia, la mafia non fa più notizia. Bruni - che ha quarantuno anni - può già contare numerosi successi in indagini di mafia. Vive sotto scorta e nel suo curriculum figurano circa 400 arresti, una decina di boss condannati in regime di 41-bis, almeno 140 milioni di euro sequestrati alle cosche. E infatti: la vita di Bruni è fortemente a rischio.
PER 280MILA EURO
Un collaboratore di giustizia, l’11 luglio dello stesso anno, chiede di parlare con la polizia. Poiché teme per la propria vita, decide di parlare soltanto in via “informale”, e in questura verbalizzano il contenuto della dichiarazione: “Ernesto Grande Aracri, che è stato appena scarcerato, si sarebbe impegnato a trovare una persona che in cambio di 280 mila euro sia disposta a portare a termine l’attentato nei confronti del magistrato”.
Pochi giorni dopo, un altro collaboratore di giustizia, Angelo Salvatore Cortese, confermerà agli investigatori della squadra mobile di Crotone, guidati dal vice questore Angelo Morabito, che le cosche hanno condannato a morte Bruni. Come vedremo, gli stralci del verbale, meglio di qualsiasi commento, spiegano la situazione.
“Nel periodo 2000-2003”, dice Cortese il 19 luglio, “durante il processo ‘Scacco Matto’, mi trovavo nel carcere di Catanzaro e in parecchie occasioni si era parlato del dottor Bruni come persona pericolosa per la nostra cosca. (…) Si doveva trovare una soluzione per fermarlo perché era pericoloso per le indagini che stava portando avanti”.
“Che significa soluzione?”, chiede l’ispettore Russo. “Soluzione vuol dire eliminazione, di fare un attentato al dottor Bruni. Perché era pericoloso sia per il processo che era in corso, Scacco Matto, sia per altri procedimenti che sapevamo che erano contro la nostra cosca e le cosche, diciamo, alleate a noi (…). Parlando fra noi affiliati (…) si parlò del dottor Bruni, di una persona pericolosissima per le nostre attività e per la nostra cosca e si doveva in qualche modo eliminarlo e fermarlo con qualsiasi mezzo (…). E quindi si è già progettato che si doveva fermare con qualsiasi mezzo nel 2003 (…), con qualsiasi azione, sia con bazooka, sia con bombe, sia … trovare la soluzione di ucciderlo (…). Così si cambiava pm, insomma, si prendeva tempo … L’input è partito dalla nostra cosca, Grande Aracri Nicolino (…) e poi automaticamente tutti noi affiliati parlammo di questo qua perché, ogni volta che andavamo a fare i processi a Crotone partivamo da Catanzaro, un pullman, ed eravamo tutti noi affiliati (…) e si parlava, insomma, ogni volta che vedevano il dottor Bruni c’erano parole, diciamo, indescrivibili contro il dottor Bruni, che si dicevano sia durante il processo e sia una volta tornati in carcere … perché tutti i giorni c’era il problema del dottor Bruni, tutti i giorni si parlava, si doveva fermare in tutti i modi”.
L’ispettore domanda: “Quindi oggi potrebbe essere a rischio?”:
Risponde Cortese: “È a rischio, sì, specialmente con il fatto della mia collaborazione, perché io quando ho iniziato a collaborare ho deciso di parlare direttamente con il dottor Bruni (…). Sono a rischio di ergastolo le persone, in questo momento, e quindi è motivo in più adesso di uccidere il dottor Bruni (…). E poi il fatto che abbiamo a disposizione molte armi, sia bazooka, sia esplosivo in quanto già all’epoca si parlava che era una persona che non camminava così, libero, camminava con la scorta, con la macchina blindata, quindi si parlava di fare un attentato in modo che si colpisse la macchina blindata (…). Noi abbiamo a disposizione vari mezzi, dai lanciarazzi ed esplosivo, potrebbero mettere anche dell’esplosivo nell’abitazione, sia durante che si fa il processo a Catanzaro, sul tragitto oppure anche durante il processo, si può colpire (…). Perché abbiamo anche fucili di precisione (…) venuti dalla Germania, di precisione, di lungo tiraggio, arrivano a due trecento metri (…) i mezzi ci sono, non mancano i mezzi, mezzi e armi non ci mancano, e uomini, quindi il dottor Bruni è a rischio di vita proprio assoluto”.
“MI VOGLIONO STRITOLARE”
Nel 2008, quindi, Bruni è certamente a “rischio di vita assoluto”. Eppure, quando bussa alla porta di de Magistris, è preda di ben altre preoccupazioni. Dice di temere per sé, esterna il timore d’essere “stritolato”, ma non si riferisce alla ‘ndrangheta o ai bazooka o ai fucili di precisione. Si riferisce ai suoi colleghi. Ed è questo il punto. Bruni ha ereditato un filone dell’inchiesta “Why Not”, quella avocata a de Magistris, ma ha appena deciso di mollare il pool. È allarmato. E a distanza di un anno e mezzo - come vedremo - i fatti gli danno ragione. Ma andiamo con ordine. La mattina del 27 maggio 2008, Bruni, intende spiegare a de Magistris come procede l’indagine. Non parla dei contenuti. Non fa cenni all’aspetto investigativo. Vuole raccontare l’organizzazione del lavoro. Denuncia delle “anomalie”. A rivelarlo, dinanzi ai pm di Salerno, è lo stesso de Magistris. Una settimana più tardi, il 3 giugno, l’ex pm fa mettere a verbale: “La mattina del 27 maggio è venuto nel mio ufficio il dr. Pierpaolo Bruni (…). Mi ha detto di temere d’essere stritolato. Ha detto che voleva parlarmi (…) nell’interesse della Giustizia. Mi ha riferito che era molto contrariato delle continue anomalie che si stavano verificando nell’inchiesta Why Not (…). A suo dire, stavano demolendo l’intera originaria inchiesta (…)”. De Magistris aggiunge poi un altro particolare. Ed è quello che ci interessa: “Bruni mi ha detto, a questo punto, di temere di “essere stritolato” dalla Procura Generale. Mi ha detto che il dottor Iannelli lo avrebbe “distrutto” se egli si fosse “messo contro la sua volontà”.
Il dottor Iannelli è l’ex procuratore generale di Catanzaro, indagato a Salerno, per la conduzione dell’inchiesta “Why not”. Con la formazione del pool, l’inchiesta viene separata in diversi filoni e, sempre secondo la procura di Salerno, che indagherà sulla vicenda, si creano i presupposti per la “stagnazione delle attività investigative”, per la “disintegrazione dell’originario disegno investigativo”, per il “progressivo dissolvimento di tracce investigative”. Torniamo alle dichiarazioni di Bruni riferite da De Magistris. “Mi ha detto anche che lo potevano “ricattare” per il fatto che egli avesse delle applicazioni DDA (direzione distrettuale antimafia, ndr) … e che se avesse creato problemi, potevano revocargliele, tenuto conto anche della grave situazione di organico della procura della Repubblica di Crotone”. E infatti: a distanza di un anno e mezzo, scopriamo che Bruni aveva visto giusto: non è più applicato all’antimafia, gli hanno revocato l’applicazione, proprio come aveva previsto. Il motivo? Esattamente quello che aveva immaginato: l’organico scarno della procura di Crotone. Il punto più oscuro, però, riguarda un altro elemento della sua profezia: Bruni si è davvero “messo contro” la procura generale? E come? Vediamo cos’è accaduto.
“IL FATTO NUOVO”
A maggio 2009, esattamente un anno dopo l’incontro tra Bruni e de Magistris, il procuratore capo di Crotone, Raffaele Mazzotta, rilascia la seguente dichiarazione: “Sono stato costretto a revocare il parere favorevole”. La profezia di Bruni s’è avverata. Mazzotta parla del parere favorevole all’applicazione di Bruni alla distrettuale antimafia: Bruni è ufficialmente fuori dalla dda. Ma perché Mazzotta usa questo termine: “costretto a revocare il parere favorevole”? “Costretto” da chi? E perché? Mazzotta spiega che s’è verificato “un fatto nuovo, che ha turbato la serenità del mio ufficio e quella del dottor Bruni in primis. Un fatto nuovo sul quale non posso essere più esplicito, ma del quale ho già informato le autorità competenti”. Le autorità competenti sono il ministero di Giustizia, il Csm, il procuratore generale della Cassazione. Che infatti, di lì a poco, invieranno gli ispettori. Cos’è accaduto? La revoca del parere di Mazzotta giunge dopo le sollecitazioni della procura generale di Catanzaro, per la precisione del facente funzioni Dolcino Favi, l’uomo che avocò l’inchiesta “Why Not” a de Magistris, anch’egli indagato dalla procura di Salerno. Che ha combinato Favi, questa volta? Ha spiegato - a voce e per iscritto - che non avrebbe tollerato alcun inadempimento da parte di Bruni, né il minimo errore, dovuto al suo carico di lavoro. Il procuratore Mazzotta ha letto, in questa presa di posizione, una sorta di intimidazione. Sarebbe questo il “fatto nuovo” che “ha turbato la serenità del mio ufficio e del dottor Bruni in primis”. Ed è per questo che Bruni, come aveva previsto, perde la direzione distrettuale antimafia. Accanto al “fatto nuovo”, però, c’è un fatto bizzarro: è la “schizofrenia” di Favi. Nel maggio 2009, infatti, stabilisce che Bruni è troppo occupato, che la procura di Crotone è troppo sguarnita, perché possa continua a occuparsi della ‘ndrangheta. Un anno prima, però, la pensa diversamente. Molto diversamente.
“NEL POOL NON CI VOLEVO ANDARE”
Nel febbraio 2008, il pm di Salerno Dionigio Verasani, che sta indagando sul “caso de Magistris” e sulla procura di Catanzaro, rivolge qualche domanda al capo di Bruni, il procuratore Francesco Tricoli. Verasani vuol capire come, e perché, Bruni sia stato applicato al pool che indaga su “Why Not”. La vicenda risale a pochi giorni dopo l’avocazione dell’inchiesta, disposta da Favi, a de Magistris. “Ebbi modo di incontrare Favi a Crotone, presso la Prefettura, (…) Favi mi disse che aveva bisogno della collaborazione di sostituti procuratori “di primo grado” per la gestione dell’inchiesta appena avocata (…). Risposi che il momento era poco favorevole, in quanto, di lì a poco, si sarebbero trasferiti due sostituti in servizio a Crotone. Ciò avrebbe comportato che su una pianta organica di sei sostituti la procura di Crotone sarebbe rimasta con soli quattro magistrati, oltre al Capo dell’ufficio”.
Le dichiarazioni di Tricoli, insomma, dimostrano che già nel febbraio 2008, l’organico della procura di Crotone era fortemente critico. E Favi ne è perfettamente a conoscenza. Ma non basta. Dice ancora Tricoli: “In quel contesto si parlò anche del fatto che il Bruni era applicato alla Dda di Catanzaro, circostanza peraltro istituzionalmente nota alla Procura Generale (…). Favi, pur prendendo atto delle mie perplessità, replicò che comunque era nella necessità di applicare dei sostituti di primo grado. (…). Pochi giorni dopo arrivò in Procura l’interpello formale. Lo comunicai formalmente ai miei sostituti (…). Nessuno di loro diede la disponibilità alla applicazione alla Procura Generale”. Ma anche qui accade un fatto nuovo: Tricoli segnala Bruni. “Mi determinai a ‘segnalare’ il nominativo del dottor Bruni in quanto sapevo bene che rientrava fra i poteri della Procura Generale quello di applicare ‘di ufficio’ un magistrato di una qualsiasi procura del Distretto. Ritenni, pertanto, di evidenziare che il dottor Bruni si era già interessato di reati contro la Pubblica Amministrazione”.
Il punto è che Bruni non aveva alcuna intenzione di lavorare sull’inchiesta Why Not: aveva già troppo lavoro. Ma Favi lo applica ugualmente. Con il passare dei mesi, il pm di Crotone cercherà di allontanarsi dal pool, per le costanti divergenze sulla conduzione delle indagini. La sua partecipazione all’indagine è talmente problematica che, nel colloquio con de Magistris del 27 maggio, giungerà a una inquietante conclusione. Dichiara de Magistris: “Bruni prendeva atto che, probabilmente, la sua permanenza nell’inchiesta Why Not poteva servire a non ‘dare l’impressione’ che si procedesse all’archiviazione e alla demolizione dell’intera inchiesta (…) ma facendolo ‘lavorare’ solo ed esclusivamente sui filoni che ‘non creavano problemi’ alla Procura Generale e sotto la‘costante’ guida e direzione da parte del dr. Iannelli”. Ma Bruni, di “problemi”, ne crea eccome. E sempre quando si toccano i livelli più alti. Per esempio: Prodi e Mastella. È lo stesso Bruni a raccontarlo ai pm di Salerno, quando gli chiedono conto della conversazione con de Magistris, e della richiesta di archiviazione che il pool ha avanzato sulla posizione di Mastella: “Si è parlato della richiesta di archiviazione e discutendo ho manifestato il mio dissenso in ordine a tale richiesta. Infatti nel corso delle riunioni presso la Procura Generale io non ho mai condiviso la scelta di procedere all’archiviazione della posizione del senatore Mastella anche perché, nello specifico, ritenevo che poteva essere approfondita sotto il profilo investigativo. Se non ricordo male il dr. Muraca (un consulente della procura, ndr) mi riferì in proposito che a suo parere vi erano degli ulteriori approfondimenti da fare su tale questione”. Il 30 luglio 2008 Bruni è a Salerno. I pm Nuzzi e Verasani gli chiedono d’illustrare una delle ultime riunioni del pool che si occupa di “Why not”. Per la precisione, la riunione “fiume” de l22 luglio,che s’è protratta per circa dieci ore, fino alle venti. “I contrasti - dice Bruni - sono perdurati per tutta la riunione fino a quando non si è arrivati alla stesura di un verbale, che adottava una soluzione tale da mettere d’accordo i punti di vista presenti nella discussione. Dal momento che nel corso di tutta la discussione, io, avevo una posizione difforme, rispetto agli altri colleghi, ancora una volta ho chiesto di essere estromesso dal gruppo di lavoro, per evitare la permanenza di punti di vista differenti”. Il dissenso di Bruni emerge ancora. E il punto è importante perché riguarda “i criteri per l’adozione dei provvedimenti”. Dice Bruni: “La soluzione che gli altri colleghi volevano far passare, e mettere a verbale, era quella di far adottare le decisioni a maggioranza”. Una decisione che Bruni non approva, perché la maggioranza comporta “l’obbligo, anche da parte dei dissenzienti, di firmare”. “Mi sono opposto a questo criterio – continua Bruni – ritenendolo lesivo della autonomia del magistrato (…). Ho ribadito che non mi sembrava giusto, che non solo ero stato applicato d’ufficio al procedimento Why Not, nonostante il mio dissenso, non solo non venivano accolte richieste di essere “sollevato” dall’incarico, ma avrei anche dovuto firmare provvedimenti che non condividevo. Alla fine si adottava la decisione che i provvedimenti sarebbero stati presi a maggioranza, senza però che vi fosse un obbligo, da parte dei dissenzienti, di firmare”.
FIRMO, NON FIRMO
Firmare, non firmare, la questione potrebbe sembrare noiosa e ininfluente. Ma ha un senso ben preciso. Bruni non soltanto è in dissenso con alcune decisioni ma è convinto che, in alcuni casi,il pool debba prendere iniziative più drastiche nei confronti di qualche indagato. Per esempio: Romano Prodi. De Magistris l’aveva iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di abuso d’ufficio. Bruni ritiene che, per Prodi, le accuse debbano essere più pesanti. All’interno del pool è isolato ma va avanti. E decide di mettere nero su bianco le sue ipotesi di reato, “depositandole” all’interno del pool, che viene così messo fortemente in imbarazzo. Secondo Bruni, l’ex premier va indagato per associazione per delinquere, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Il tutto ruota intorno alle elezioni regionali del 2005, quelle vinte da Agazio Loiero, e le elezioni politiche del 2006, vinte da Prodi.
Reati in concorso con il governatore calabrese Agazio Loiero, l’ex segretario regionale dei Ds Nicola Adamo e sua moglie Vincenza Bruno Bossio, il re calabrese dei supermarket Despar, Antonino Gatto, l’ex leader di Cl Calabria Antonio Saladino, il parlamentare europeo Sandro Gozi, il braccio destro di Prodi Pietro Scarpellini, la san riminese Claudia Mularoni, l’imprenditore d’area prodiana Pietro Macrì, i fratelli Mariangela e Francesco De Grano. Cos’avrebbero combinato? Avrebbero “asservito le istituzioni pubbliche per finalità private e di partito, strumentalizzando le istituzioni pubbliche di riferimento, e in particolare quelle della Regione Calabria, facendo in modo che venissero realizzate tutta una serie di leggi, atti e provvedimenti amministrativi, talora strumentali, talaltra quale corrispettivo delle condotte fraudolente (…)”. Non è roba da poco. Secondo Bruni, Claudia Mularoni e Pietro Scarpellini, rispettivamente amministratore unico e titolare della Pragmata di San Marino, si sarebbero accordati con Prodi (e con Macrì e i fratelli De Grano), per lo “svuotamento delle casse della società Met Sviluppo, attraverso la distrazione dei finanziamenti pubblici” ricevuti dalla Met. Bruni sostiene l’esistenza di “una serie di contratti di consulenza dal contenuto fittizio, intervenuti tra il 2004 e il 2005”. È convinto che vi siano state “fatturazioni fittizie”, anzi, “fatture pagate con danari provento” di una “bancarotta fraudolenta”. Aggiunge che Pietro Macrì, insieme con Armando Borghi, avrebbe “emesso fatture per operazioni inesistenti”. Il pm parla - infine - di “operazioni al fine di ostacolare trasferimenti di danaro provento delle condotte di bancarotta” e “operazioni inesistenti dalla società Met Sviluppo alla società Pragmata e dalla cassa di quest’ultima verso se stessi o verso terzi”. Accuse molto gravi, insomma, che però, è bene specificarlo, restano soltanto sulla carta, non sono mai state formulate né verificate sotto il profilo giudiziario. Si tratta soltanto dell’ipotesi di lavoro che il pm Bruni aveva formulato, all’epoca, prima di lasciare il pool di “Why Not”. Queste ipotesi, però, sono state depositate nel fascicolo. Sono agli atti e mostrano la profonda divergenza tra il lavoro di Bruni e quello del pool che, infatti, a febbraio ha chiesto l’archiviazione per Prodi. Richiesta che – per quanto ci risulta - non è stata ancora evasa, poiché il gip di Catanzaro, Tiziana Macrì, non s’è ancora pronunciata.
Ma proviamo a riassumere. Nel febbraio 2008, Bruni viene applicato all’inchiesta Why Not nonostante il proprio parere contrario e la scarsità d’organico, nella procura di Crotone, denunciata dal suo stesso capo. Il procuratore generale reggente Dolcino Favi lo applica a Why Not, quindi, nonostante sappia che Bruni è oberato di lavoro, essendo applicato anche all’antimafia. Circa anno dopo, nel maggio 2009, quando Bruni ha già lasciato il pool di “Why Not”, e quindi potrebbe essere più “libero” di prima, Favi “preme” affinché Bruni esca dall’antimafia, spiegando al suo capo, Raffaele Mazzotta, che non tollererà inadempienze di Bruni nei carichi di lavoro. È evidente che Favi ha cambiato totalmente idea. Nel mezzo dei due eventi, la conversazione tra Bruni e de Magistris, il 27 maggio 2008, durante la quale, Bruni dice di “temere di ‘essere stritolato’ dalla Procura Generale”, di essere “distrutto” se si fosse “messo contro la volontà” di Iannelli, di essere “ricattato” per via delle applicazioni alla Dda, e che se avesse creato problemi, potevano revocargliele”. Il tutto s’avvera e, effettivamente, come dimostrano le vicende Prodi e Mastella, Bruni si mette contro il pool. Ma non soltanto. Le sue deposizioni a Salerno diventano fondamentali per le accuse che i procuratori campani muovono contro i colleghi di Catanzaro. E i magistrati di Salerno, per quest’inchiesta, hanno già pagato: il 19 ottobre si celebrerà il processo davanti alla sezione disciplinare del Csm a carico dei pm di Salerno. Il Csm vaglierà il sequestro dei fascicoli “Why Not” e “Poseidone”, operato dai pm di Salerno, nei confronti dei colleghi di Catanzaro durante le perquisizioni del gennaio 2009. Atti che il Csm ha già giudicato “abnormi”, disponendo, su richiesta del ministro della Giustizia Angelino Alfano, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio di Apicella e il trasferimento d'ufficio di Nuzzi e Verasani. Quello di gennaio fu un provvedimento cautelare. Vedremo cosa accadrà il 19 ottobre. Nel frattempo, si può dire che un dato è certo: il “caso de Magistris” ha prodotto ulteriori vicende di interesse pubblico, diventando una storia paradigmatica della giustizia italiana.

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