«Berlusconi sa che deve passare sul mio corpo per andare alle elezioni anticipate, ma sa anche che di me può fidarsi, che non darò mai il mio assenso a un governo senza il mandato popolare». Da settimane Fini ripete questo concetto nei suoi colloqui riservati. Da settimane il presidente della Camera osserva quella porta che conduce alle urne e che vuole resti chiusa. Ieri però, al termine della conversazione con il premier, ha avuto come l’impressione che nell’uscio si fosse aperto uno spiraglio, sebbene appaia impensabile una crisi provocata dal braccio di ferro tra il premier e Tremonti, che chiede per sé la vicepresidenza del Consiglio e la delega dell’economia. Non gli è chiaro se il Cavaliere voglia usare strumentalmente lo scontro con il Professore per anticipare la fine della legislatura, anche perché non gli è chiaro l’atteggiamento della Lega, che non è compatta dietro il titolare di via XX settembre. Semmai gli è chiaro cosa accadrebbe se Berlusconi concedesse a Tremonti quello che pretende. «Silvio il problema è tuo», gli ha detto Fini, secondo il quale un cedimento del premier rappresenterebbe il suo «commissariamento» e «la fine del berlusconismo», con «conseguenze disastrose nel Pdl, alleanze comprese». Infatti il Cavaliere ha detto «no» al Professore, che si lamenta per essere «isolato» nel governo, «senza incarichi» nel partito, e vorrebbe perciò un riconoscimento. «Tremonti non cambierà mai». Per formarsi questa opinione l’inquilino di Montecitorio non ha avuto bisogno di sapere ciò che gli ha riferito Berlusconi del vertice di ieri: «Giulio è sempre lo stesso, è sempre la stessa storia. Come nel 2004». Allora Fini era vicepremier e accusò il collega di governo di «truccare i bilanci dello Stato» la sera in cui ottenne le sue dimissioni. Stavolta non è così semplice, e la rottura sarebbe traumatica, sebbene ieri il Cavaliere fosse infuriato dopo l’incontro, perché avanti così «un tecnico alla Banca d’Italia si trova sempre». Pare che Tremonti se ne sia reso conto e abbia capito il rischio.
Berlusconi non può permettersi una simile figuraccia: un conto è assecondare il suo ministro sulla linea del rigore, rinviare il sogno del taglio dell’Irap, invitare alla calma gli altri rappresentanti del governo; altra cosa è lasciare al Professore il controllo di palazzo Chigi e da lì di tutti i dicasteri, consegnargli la testa di Gianni Letta, e di fatto anche la sua. Così aspetterà l’incontro con Bossi e Fini per trovare un’intesa sulle Regionali, siccome — è il ragionamento del presidente della Camera — il leader del Carroccio si starebbe muovendo dietro Tremonti per ottenere i candidati governatori di Veneto e Piemonte. Quando sarà chiusa quella vertenza, si andrà al «chiarimento» definitivo con il responsabile di via XX settembre. Nel frattempo il premier ha iniziato un sondaggio nel partito per avere un’opinione sull’ipotesi di «promuovere Giulio». È un’assoluta novità: quando mai il Cavaliere ha avuto bisogno di sentire i dirigenti del Pdl per prendere una decisione? Non l’ha mai fatto. Se l’ha fatto stavolta l’obiettivo era quello di scatenare la rivolta. E c’è riuscito. Ieri sera non c’erano distinzioni tra ex forzisti ed ex aennini, mai si è registrata una tale unanimità di giudizi, con un’intensità superiore alle attese. Già nei conciliaboli prima del referendum su Tremonti, il Pdl era una tonnara. «Sarebbe uno sbracamento», ha urlato Scajola a un collega di partito. A Fitto manco a domandarlo. Alla Prestigiacomo nemmeno, lei che aveva saputo di un colloquio tra Tremonti e Miccichè dopo la sciagura di Messina. Il Professore si era rivolto al sottosegretario siciliano per cercare di far pace con «Stefania», e in quell’occasione si era sentito perorare la richiesta di fondi per il dicastero dell’Ambiente: «Ma per risolvere i problemi dell’ambiente lei non deve venire da me. Deve rivolgersi a Dio», era stata la risposta salace di Tremonti giunta alle orecchie della ministra. Ieri, nel commentare l’eventuale «promozione di Giulio», la voce di La Russa era più roca del solito: «Simili decisioni non si prendono nè stasera nè domani, ma nell’ufficio di presidenza del partito. Poi è chiaro che non è ininfluente quanto dice Berlusconi». E giù una staffilata contro Tremonti ormai considerato un ministro leghista: «Un uomo del Pdl non ha bisogno di avvocati difensori». Chiara l’allusione alla presenza di Bossi e Calderoli al vertice di Arcore, una presenza «superflua, se non dannosa». Per una volta tutti uniti. Persino Fini e Schifani d’accordo: «Giulio stavolta ha esagerato».
Francesco Verderami
25 ottobre 2009
Berlusconi non può permettersi una simile figuraccia: un conto è assecondare il suo ministro sulla linea del rigore, rinviare il sogno del taglio dell’Irap, invitare alla calma gli altri rappresentanti del governo; altra cosa è lasciare al Professore il controllo di palazzo Chigi e da lì di tutti i dicasteri, consegnargli la testa di Gianni Letta, e di fatto anche la sua. Così aspetterà l’incontro con Bossi e Fini per trovare un’intesa sulle Regionali, siccome — è il ragionamento del presidente della Camera — il leader del Carroccio si starebbe muovendo dietro Tremonti per ottenere i candidati governatori di Veneto e Piemonte. Quando sarà chiusa quella vertenza, si andrà al «chiarimento» definitivo con il responsabile di via XX settembre. Nel frattempo il premier ha iniziato un sondaggio nel partito per avere un’opinione sull’ipotesi di «promuovere Giulio». È un’assoluta novità: quando mai il Cavaliere ha avuto bisogno di sentire i dirigenti del Pdl per prendere una decisione? Non l’ha mai fatto. Se l’ha fatto stavolta l’obiettivo era quello di scatenare la rivolta. E c’è riuscito. Ieri sera non c’erano distinzioni tra ex forzisti ed ex aennini, mai si è registrata una tale unanimità di giudizi, con un’intensità superiore alle attese. Già nei conciliaboli prima del referendum su Tremonti, il Pdl era una tonnara. «Sarebbe uno sbracamento», ha urlato Scajola a un collega di partito. A Fitto manco a domandarlo. Alla Prestigiacomo nemmeno, lei che aveva saputo di un colloquio tra Tremonti e Miccichè dopo la sciagura di Messina. Il Professore si era rivolto al sottosegretario siciliano per cercare di far pace con «Stefania», e in quell’occasione si era sentito perorare la richiesta di fondi per il dicastero dell’Ambiente: «Ma per risolvere i problemi dell’ambiente lei non deve venire da me. Deve rivolgersi a Dio», era stata la risposta salace di Tremonti giunta alle orecchie della ministra. Ieri, nel commentare l’eventuale «promozione di Giulio», la voce di La Russa era più roca del solito: «Simili decisioni non si prendono nè stasera nè domani, ma nell’ufficio di presidenza del partito. Poi è chiaro che non è ininfluente quanto dice Berlusconi». E giù una staffilata contro Tremonti ormai considerato un ministro leghista: «Un uomo del Pdl non ha bisogno di avvocati difensori». Chiara l’allusione alla presenza di Bossi e Calderoli al vertice di Arcore, una presenza «superflua, se non dannosa». Per una volta tutti uniti. Persino Fini e Schifani d’accordo: «Giulio stavolta ha esagerato».
Francesco Verderami
25 ottobre 2009
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