Nel primo semestre del 2009 il numero dei bandi pubblicati e l’importo totale posto in gara subisce una nuova contrazione del 3,3% Lo dicono i costruttori
di Daniele Martini
di Daniele Martini
IL GOVERNO DEL FARE NON FA. Non è un’opinione, lo dicono i dati sulle costruzioni. Cifre fornite non da qualche sedizioso centro studi dell’opposizione, ma dall’autorevole e da sempre filogovernativa Ance (Associazione nazionale costruttori edili). In un rapporto dal titolo “La struttura della domanda di lavori pubblici” che Il fatto quotidiano è riuscito ad avere in anteprima c’è scritto che “nel primo semestre del 2009 il numero dei bandi pubblicati e l’importo totale posto in gara subisce una nuova contrazione del 3,3 per cento in termini reali”.
Non solo: le grandi imprese fanno la parte del leone e molte medie e piccole cominciano ad avere il fiato corto. “La trasformazione della domanda verso bandi di dimensioni elevate contrasta con le caratteristiche dell’offerta” ammoniscono gli esperti dell’Ance. Per un motivo semplice: il tessuto produttivo delle costruzioni in Italia è costituito soprattutto da imprese non grandi. Delle 34 mila aziende iscritte al sistema di qualificazione, il 66 per cento può partecipare solo a gare sotto il milione di euro e addirittura l’83 per cento è abilitato per gare non superiori a 2,6 milioni.
La predilezione per i grandi appalti fa felici i soliti noti del mattone tricolore, ma fa tribolare parecchio molti degli altri. L’Ance lo scrive papale papale: “Lo spostamento della domanda verso i grandi lavori pone un problema di tenuta del tessuto produttivo”. Come dire: incalzate dalla crisi, molte aziende vedono l’orizzonte tragico del dissesto. La conclusione è lapidaria: “E’ necessario contrastare il gigantismo degli appalti”
E’ una parola… Gigantismo e sistema delle imprese generali e dei general contractor sono pane e companatico delle costruzioni in Italia. Il risultato, purtroppo, non è consolante. I general contractor, a dispetto dell’inglesismo che fa moda, ripropongono un cliché stagionato e tradizionale, un metodo che in Italia si basa su una serie di elementi ricorrenti. Ma che finora ha dato esiti complessivamente negativi facendo precipitare la dotazione infrastrutturale italiana al 54 esimo posto, così come certificato dal World Economic Forum.
Il primo elemento è un mix di simbiosi con la politica, una capacità di lobby strepitosa e una delega di fatto ampia e praticamente in bianco ottenuta dagli enti pubblici. Il secondo è il ricorso programmato, costante e massiccio ai subappalti. Il general contractor all’italiana, inoltre, ha comportato quasi di regola scarsità di controlli sulla qualità dei manufatti, tempi biblici di realizzazione delle opere (anche dieci volte più lente rispetto all’Europa), lievitazione dei costi in media 3 volte superiori nei confronti degli altri paesi e oltretutto sopportati per intero dai bilanci pubblici. Tutto ciò si è ovviamente ripercosso sulla dotazione infrastrutturale ormai scaduta a livelli infimi.
Nel dossier preparato all’inizio d’ottobre dal Comitato tecnico infrastrutturale, logistica e mobilità della Confindustria l’arretratezza italiana è denunciata in termini chiarissimi e riguarda tutti i comparti delle infrastrutture, da quelle a supporto della mobilità e della logistica a quelle energetiche (i rigassificatori, per esempio), idriche (le dighe e gli acquedotti) e ambientali. Dal 1970 al 2006 la rete autostradale è cresciuta in Italia del 67,5 per cento, ma la Spagna ha aumentato i chilometri delle sue autostrade di 30 volte, la Francia di 6 e la Germania di 2. La crescita media annua della rete autostradale è stata del 4,3 per cento nell’Europa a 15, con punte dell’11,7 per cento in Spagna e del 6,5 in Francia. In Italia è stata solo dell’1,7.
Note dolenti anche per la dotazione ferroviaria. Annotano i tecnici della Confindustria: “Nel periodo 1970-2007 la dotazione ferroviaria è rimasta ben distante dai valori medi comunitari. Nel 2007 presentiamo ancora indici nettamente più bassi di Francia e Germania. Non solo, nel nostro paese sono stati sì realizzati miglioramenti tecnologici (elettrificazione, doppi binari, controllo ed Alta velocità), ma meno velocemente che negli altri. E la qualità scadente dei servizi ha sensibilmente inciso sulla nostra capacità d’offerta, in particolare quella dei servizi per i passeggeri che potrebbe contribuire a ridurre la congestione stradale”.
Infine il sistema dei general contractor si è caratterizzato anche per gli alti costi sociali, con una sequela di incidenti sul lavoro favoriti dall’abuso di imprese subappaltatanti di dimensioni spesso modeste scelte dalle aziende capofila non perché qualitativamente più affidabili o più efficienti. Ma proprio per l’esatto opposto, in quanto disposte a risparmiare su tutto, dalle paghe dei dipendenti alla sicurezza nei cantieri trattata con una disinvoltura disarmante e quindi ideali come alleate subordinate in appalti vinti con il criterio del massimo ribasso.
Non è una novità che la maggior parte delle morti sul lavoro in edilizia sia appannaggio proprio delle aziende di subappalto, una catena di morti stigmatizzata pubblicamente dal coro di rappresentanti delle istituzioni, dai politici e dai procuratori antimafia preoccupati per le frequenti infiltrazioni malavitose. E anche dai sindacati, i quali, però, assai raramente osano spingersi fino alla critica della radice del problema, temendo forse di mettere in discussione un sistema giudicato per certi versi discutibile, ma che dal loro punto di vista dà lavoro su larga scala e garantisce comunque il funzionamento della Cassa edile.
Fino ad ora il governo, e in particolare il ministro per le Infrastrutture, Altero Matteoli, non ha avuto orecchie che per i Grandi cavalieri del cemento. Ma la partita non è chiusa. Dopo il terremoto dell’Aquila i grandi costruttori stavano addirittura per fare cappotto con l’assenso del governo all’estensione del subappalto fino ad un tetto del 50 per cento anche per la realizzazione dei prefabbricati, entrando a piedi uniti proprio in un settore specifico di intervento delle aziende specializzate. Solo in extremis sono stati fermati. E in Confindustria, dopo aver lavorato per più di un anno al piano di riforma infrastrutturale consegnato all’inizio del mese ai ministri Matteoli e Stefania Prestigiacomo (Ambiente), hanno deciso di lasciare in bianco proprio il capitolo dell’organizzazione degli appalti non riuscendo a trovare una sintesi tra gli interessi delle imprese generali e quelli delle aziende specializzate. Tutto rinviato sperando in un accordo.
L’esito del braccio di ferro in corso stabilirà non solo quali interessi in campo saranno premiati, ma farà intuire anche la piega che potrà essere impressa al ciclo delle grandi opere e questo è l’aspetto cruciale della partita. Interessa in primo luogo le imprese perché le infrastrutture sono il retroterra per la competitività e la crescita delle aziende. Ma riguarda da vicino anche i cittadini normali, la qualità della vita, la possibilità di spostarsi in modo decente, di avere energia in quantità sufficienti e a costi accettabili e di accedere ad Internet con facilità e tempi di trasmissione da paese moderno. (fine)
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