Il punto è, ministro Frattini, se davvero la cultura cospiratoria, irrisolta, opaca con cui guardiamo alla nostra storia - che lei indica, nella sua lettera di ieri a questo quotidiano, come la radice di un giornalismo disfattista - non sia poi una cultura condivisa dalla nostra stessa classe dirigente. In altre parole, potremmo leggere l’equazione che lei scrive invertendo le parti.
Potremmo domandarci se una classe di governo che ha bisogno di incitare i propri giornalisti ad essere «positivi» non sia essa stessa la prima ad essere convinta di non potercela fare da sola. Cioè grazie esclusivamente alla chiara e indiscussa forza dei fatti.
Una persona come Lei, ministro, cui va l’apprezzamento di essere uomo profondamente internazionale, sa bene che buona parte della polemica del governo sulle malefatte dei giornalisti italiani vale solo se la si guarda dentro il perimetro delle Alpi. Tutti sappiamo infatti che la tensione fra governi e stampa esiste da sempre, a tutte le latitudini e al di qua di ogni colorazione ideologica.
Ricorderà di sicuro le bordate amiche (oltre che nemiche) sparate contro (e in alcuni casi seguite da affondamento) i vari governi di sinistra degli Anni Novanta. Ben prima del sesso orale nello Studio Ovale, Bill Clinton ha dovuto fronteggiare le accuse dello scandalo Withewater - che approdò dalla stampa a un’inchiesta in Congresso -, le accuse di finanziamenti illeciti, e il sospetto addirittura che insieme ad Hillary avesse avuto parte nel suicidio\/omicidio di un loro strettissimo amico, Vince Foster. Tony Blair ha dovuto leggere sui giornali delle droghe dei suoi figli, delle spese irrituali della moglie, e anche lui subire il sospetto della responsabilità nella strana morte di un professore che avrebbe potuto denunciare le sue bugie nella scelta di andare in guerra in Iraq.
Prodi e D’Alema negli stessi anni sono stati attaccati, a diverso titolo, per le tangenti Telecom, e\/o misfatti bancari. E tutti ricordano che parte di quegli attacchi vennero sferrati loro anche da gruppi come L’Espresso-Repubblica che oggi il premier considera suoi principali nemici.
I tanti scandali sessuali cui abbiamo assistito negli anni, sono forse il meno - per altro, colgo l’occasione per ricordare a tutti che la prima rete della nostra Tv di Stato, la Rai, ha portato in Italia dagli Usa la Monica Lewinsky appositamente per un’intervista, e che l’evento andò in fumo solo perché la stagista all’ultimo minuto abbandonò lo studio in quanto offesa dai titoli della trasmissione.
Gli esempi sono tanti. E li evoco per dire non solo che Silvio Berlusconi non è in una condizione unica, ma anche per ricordare che i governi citati - di «sinistra» ripeto - hanno reagito in parte come il nostro premier fa oggi: dicendo che i giornalisti sono un ostacolo al governare, che i giornalisti si sostituiscono alla politica, anzi che spesso fanno politica, e a volte la fanno anche per conto di altri. Basta un solo esempio, che non a caso scelgo dal mondo anglosassone: Tony Blair, dopo anni trascorsi a sedurre la stampa, nel suo memoriale finalmente confessa che «se solo non ci fossero stati i giornalisti...».
Sbagliano i politici a lamentarsi? No. Hanno ragione nel dire che se non ci fossero i giornali molte cose andrebbero diversamente. Lo sa bene Bill Clinton che nonostante tutto ha visto il suo ruolo storico e quello dei democratici americani appannato dall’affaire Lewinsky. Quell’affaire ha consegnato per otto anni l’America a una destra che ha vinto sottraendo ai liberal il concetto stesso di etica. Se i giornali non avessero parlato allora della Lewinsky in Usa, come oggi della D’Addario, il bilancio di quel governo e della successiva elezione di Bush, sarebbe stato di sicuro un altro. Come vede, ministro, anche senza citare il conflitto di interessi, il caso Italia non è un’eccezione. Potremmo finire qui. Ma val la pena di riprendere, anche, prima di concludere, il suo argomento più specifico. Lei dice: il giornalismo italiano è unico nel senso che è vittima di una sindrome peggiorativa di una malattia tipicamente italica - quella di una visione oscura, opaca, complottista e dunque di negativa autorappresentazione, della nostra storia. Su questo mi trova d’accordo: c’è questa sindrome, in Italia, ed è materia degna anche di grandi rotture politiche.
Un Paese che ha così tanti misteri, trame e scandali, un’Italia che ha più retroscena che scene, è di sicuro un Paese che confessa di essere nelle mani di tanti. Di mafia, potenze straniere, servizi, Opus Dei, massoneria; di tutti, e comunque, eccetto la propria classe dirigente. Una nazione con tale storia, su questo, ripeto, sono d’accordo con lei, non è una democrazia. E’ un Paese prigioniero. Val la pena di combattere dunque, apertamente, il complottismo come interpretazione storica del nostro passato. Ma, con ogni rispetto, questa interpretazione è la stessa cui il governo fa ricorso da sempre e in queste stesse ore, indicando nella stampa lo strumento di poteri forti, interessi oscuri, complotti internazionali.
Con una differenza, però. I giornalisti possono sbagliare, è parte del loro privilegio ma anche delle responsabilità che davanti alla legge si assumono. Ma un governo che si dichiara in battaglia contro forze oscure, confessa solo la propria fragilità.
Con una differenza, però. I giornalisti possono sbagliare, è parte del loro privilegio ma anche delle responsabilità che davanti alla legge si assumono. Ma un governo che si dichiara in battaglia contro forze oscure, confessa solo la propria fragilità.
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