L’attenzione del mondo politico e dell’opinione pubblica risulta così terribilmente schiacciata sul presente, così interessata alle minuzie della polemica spicciola da respingere o mal tollerare prospettive più ampie. E così un’osservazione pressoché ovvia dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso della sua lezione tenuta ieri al Cerp-Collegio Carlo Alberto ha scatenato un putiferio.
Parlando sui «motivi dell’assicurazione sociale», il Governatore ha osservato che, con l’aumento della durata della vita, le pensioni erogate dal sistema pubblico - ossia principalmente dall’Inps e dall’Inpdap - saranno più basse rispetto ai salari, di quelle erogate finora.
Come previsto dalla riforma, si tratta di pensioni eque da un punto di vista attuariale, ossia corrispondenti all’ammontare complessivo dei contributi versato da ciascun lavoratore commisurate alla durata attesa della vita al momento del pensionamento. La loro diminuita consistenza in rapporto al salario dovrebbe essere evidente perché, se si vive più a lungo, i versamenti effettuati durante tutto l’arco di una vita di lavoro di durata invariata devono essere spalmati su un numero maggiore di anni di pensionamento; come dovrebbe essere evidente, anche se è scomodo ricordarlo, che le categorie anziane, in pensione con l’attuale sistema di transizione, ricevono una parte di pensione in più di quella a cui avrebbero «diritto» sulla base dei versamenti effettuati e della loro probabilità di sopravvivenza.
Draghi ha poi tratto la naturale conclusione di questa premessa che gli italiani preferirebbero non sentire mai e che per i politici è come un brutto sogno che preferiscono rimuovere subito: «Per assicurare prestazioni di importo adeguato a un numero crescente di pensionati è quindi indispensabile un aumento significativo dell’età media effettiva di pensionamento». Il ragionamento non fa una grinza e con la matematica è bene non scherzare. Del resto, l’allungamento della vita lavorativa è una tendenza non solo italiana ma comune a tutti i Paesi avanzati le cui popolazioni sono in fase di invecchiamento; la Gran Bretagna porterà l’età di pensionamento a 66 anni entro il 2020 e addirittura a 69 anni entro i tre decenni successivi; la Germania ha già deciso il pensionamento a 66 anni; la Francia si sta muovendo nella stessa direzione.
L’allungamento della vita lavorativa, del resto, corrisponde a un certo concetto di equità: in media, chi va in pensione adesso vive qualche anno in più (e con un livello di salute migliore) di quanto era previsto quando ha cominciato a lavorare. Perché tutto questo bonus di vita deve andare al pensionamento, ossia a una fase inattiva della vita a carico della collettività, e perché invece una parte non dovrebbe essere dedicata al proseguimento della vita lavorativa per ripagare il costo della pensione che gli anni bonus comportano?
Eppure l’idea di toccare un caposaldo della società italiana ha unito per miracolo destra e sinistra nella difesa dell’esistente. Da parte governativa, il ministro del Lavoro, cui si è associato il presidente dell’Inps, assicurano che «il sistema tiene». Certo, il sistema tiene, ma precisamente con pensioni che saranno, rispetto ai salari, sensibilmente più basse delle attuali, a regime del 15-20 per cento, una scomoda verità che non viene quasi mai esplicitamente spiegata a chi ha meno di quarant’anni. Al momento in cui si ritireranno dal lavoro, questi lavoratori - a meno di una pensione aggiuntiva, pagata con minori consumi di oggi - vedranno i propri redditi ridursi in misura molto maggiore dei lavoratori di oggi. Da parte sindacale si invoca un «tavolo per risolvere tutti i problemi», indubbiamente un tavolo che dovrebbe avere proprietà taumaturgiche se riuscirà a non toccare l’età pensionabile e che potrebbe servire più facilmente a rinviare tutto.
Sarebbe bene che questo Paese ponesse più attenzione alle proprie prospettive. Nel 2030, una scadenza poi non tanto lontana, un italiano su quattro avrà più di 65 anni e di questi la metà sarà ancora in vita vent’anni più tardi se uomini, ventiquattro anni se donne. E circa cinque milioni di italiani (su una popolazione di poco più di sessanta) saranno ultraottantenni, il doppio dei valori attuali mentre i giovani sotto i 14 anni saranno appena 7-8 milioni. E tutto questo nell’ipotesi di un’immigrazione netta di circa 200 mila persone l’anno che attenuerà un poco l’effetto dell’invecchiamento.
Nessuna politica di crescita di lungo termine è realmente tenibile in una situazione del genere se non si prevede la disponibilità di nuove forze di lavoro, il che in Italia significa maggiore occupazione femminile e più elevata età di pensionamento. Può sembrare paradossale in un momento di crisi come questo, in cui i posti di lavoro si stanno purtroppo rapidamente riducendo; ma i governi e le forze politiche dovrebbero avere la capacità di guardare oltre le crisi. E mentre per altri Paesi l’orizzonte del dopo-crisi, quando finalmente verrà, è quello di una ripresa abbastanza sicura della crescita, per l’Italia la situazione è molto più problematica. Stiamo tutti aggrappati al nostro attuale piatto di lenticchie, attentissimi a non farcene portar via neppure una e rischiamo così una rinuncia inconsapevole, ma non per questo meno grave, ad avere un futuro.
mario.deaglio@unito.it
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