domenica 11 ottobre 2009

Il caimano si prepara per l'ultima spallata


di EUGENIO SCALFARI


A ME sembra che Silvio Berlusconi sia sottovalutato dai suoi avversari e mal compreso nella logica con la quale persegue i suoi obiettivi. Vengono messi in risalto i suoi errori, le sue gaffe il suo parlarsi addosso e li si attribuiscono ad un prevalere della sua pancia (per dire dei suoi istinti) su una debole razionalità.
Ebbene non è così. Lo conosco da trent'anni e nei primi dieci ho avuto con lui una frequentazione intensa e alquanto agitata.

Non era ancora un uomo politico ma alla politica era già intimamente legato; sia la fase dell'immobiliarista sia quella successiva dell'impresario televisivo erano intrecciate e condizionate dai suoi rapporti politici. Imparò presto a muoversi come un pesce nell'acqua. Poi l'esperienza politica diretta ha perfezionato un innato talento. Perciò - lo ripeto - non è affatto uno sprovveduto in preda ad istinti irragionevoli, salvo quelli sessisti. In quel campo gli istinti lo dominano e l'hanno spinto a commettere errori inauditi; ma in tutto il resto no.

Conosce il suo carattere e lo usa. Conosce la sua tendenza alla megalomania e all'egolatria e la usa. Usa perfino le sue gaffe. L'insieme di queste movenze costituiscono una miscela formidabile di populismo, demagogismo, culto della personalità. In altri Paesi un decimo se non addirittura un centesimo di ciò che dice e che fa avrebbero provocato la sua messa fuori gioco. In altri Paesi il suo mostruoso conflitto di interessi avrebbe impedito il suo ingresso nell'agone politico; non esiste infatti in nessun Paese del mondo un capo di governo proprietario di metà del sistema mediatico e contemporaneamente possessore dell'altra metà.

Ma in Italia questo è possibile. Attenti però: non è un incidente di percorso. La vocazione degli italiani ad innamorarsi di personaggi come Berlusconi fa parte della storia patria. Per fortuna non è la sola vocazione; convive con caratteristiche differenti e anche opposte. Ma quell'innamoramento verso il demagogo è una costante che spesso è diventata dominante e alla fine ha precipitato il Paese nel peggio. Non è ancora avvenuto, ma siamo già abbastanza avanti nella strada che può portarci ad una catastrofe.

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Da questo punto di vista le due sentenze emesse nei giorni scorsi rispettivamente dal Tribunale di Milano sul lodo Mondadori e dalla Corte costituzionale sulla legge Alfano hanno prodotto un'accelerazione che Berlusconi considera provvidenziale per l'attuazione dei suoi piani. L'ira iniziale che l'ha invaso - che viene dalla sua pancia - è stata rapidamente razionalizzata.

L'attacco contro la Corte, contro la magistratura, contro il Csm, contro il Presidente della Repubblica, è proseguito a mente fredda. Non è più ira, è strategia pensata e messa in atto, la spallata finale che dovrà portare l'Italia istituzionale e costituzionale a cambiare volto radicalmente: da repubblica parlamentare a repubblica autoritaria dove tutti gli organi di garanzia siano cancellati o ridotti ad esanimi fantasmi e dove conti soltanto il plebiscito popolare incitato dagli appelli continui alle pulsioni populiste che covano nella pancia di molti. Questo spiega l'allarme esploso nell'opinione pubblica internazionale.

Lo stupore e anche lo sberleffo che nei mesi scorsi si è manifestato sui giornali di tutto l'Occidente al di qua e al di là dell'Atlantico è diventato negli ultimi quattro giorni una preoccupazione generale e l'Italia è diventata il malato di una malattia infettiva.

In altre circostanze questa reazione avrebbe indotto ad un sussulto di prudenza, ma sta invece accadendo l'opposto; il populismo contiene infatti un'abbondante dose di vittimismo che lo rafforza e lo indirizza verso forme di autarchia psicologica delle quali la Lega è da tempo il più esplicito rappresentante e che trovano nel berlusconismo un importante amplificatore.
Le due sentenze sono impeccabili dal punto di vista tecnico - giuridico.

Quella del Tribunale civile di Milano non fa che confermare quanto contenuto nella sentenza di condanna di Cesare Previti per corruzione di magistrati e di Berlusconi per la stessa ragione con il reato però caduto in prescrizione. Agli effetti penali ma non civili. La quantificazione del danno è secondaria.

La sentenza della Corte che definisce incostituzionale la legge Alfano ha come caposaldo l'articolo 3 della Costituzione che stabilisce la parità dei cittadini di fronte alla legge. Questo è il punto di fondo; l'altro elemento invalidante, e cioè la necessità di procedere con legge costituzionale anziché con legge ordinaria, è secondario perché deriva necessariamente dal primo elemento.

Chi accusa la Corte di incoerenza sostiene una tesi priva di senso; anche nella sentenza del 2004 sul cosiddetto lodo Schifani la Corte aveva infatti eccepito la violazione dell'articolo 3. E quindi, se l'articolo 3 risulta violato fin dal 2004, ne segue ineccepibilmente che per ristabilire l'equilibrio costituzionale bisogna procedere con legge costituzionale e non con legge ordinaria. Dov'è l'incoerenza? La legge Alfano aveva ripristinato l'adempimento all'articolo 3 o il suo emendamento? No.

È quindi perfettamente coerente che, di fronte ad un nuovo ricorso, la Corte lo giudicasse ammissibile. Gli avvocati del premier che proclamano l'incoerenza mentono sapendo di mentire. E i media che non chiariscono un punto così fondamentale ai loro ascoltatori e lettori, sorvolano anzi tacciono del tutto su un punto di capitale importanza e danno adito ad una macroscopica disinformazione.

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A questo proposito viene acconcio citare l'articolo uscito ieri sul "Corriere della Sera" e firmato dal suo direttore. L'ho letto e ne sono rimasto colpito e profondamente rattristato. Sono amico di Ferruccio De Bortoli anche se spesso in questi ultimi mesi ho dissentito dalla sua linea giornalistica. Ma in casa propria ciascuno decide liberamente a quale lampione e con quale corda impiccarsi.

L'articolo di ieri va però assai al di là del prevedibile.
Poiché Berlusconi il giorno prima aveva rimproverato il "Corriere della Sera" d'essere diventato di sinistra, il direttore di quel giornale manifesta il suo stupore e il suo dolore. Cita tutti gli articoli recenti da lui pubblicati che hanno sostenuto il governo e le sue ragioni; rivendica di non aver mai partecipato a campagne di stampa faziose, condotte da gruppi editoriali che vogliono pregiudizialmente mettere il governo in difficoltà con argomenti risibili; ricorda di aver approvato la politica economica e sociale del governo, la sua efficienza operativa, la sua politica estera; ammette di averlo criticato solo quando è stato troppo duro con la Corte costituzionale e con il Capo dello Stato; auspica una tregua generale tra le istituzioni; riconosce al presidente del Consiglio l'attenuante di essere perseguitato in modo inconsueto dalla magistratura. Infine ribadisce la natura liberale che storicamente il giornale da lui diretto ha sempre seguito e nello stesso numero pubblica un'intervista a piena pagina con Marina Berlusconi, con splendida foto nella quale la figlia del leader rivaleggia con una Ava Gardner bionda anziché mora, che in quel contesto assume inevitabilmente una funzione riparatoria per qualche birichinata di troppo.

Mi procura sincero dolore un giornale liberale ridotto a pietire un riconoscimento al merito dal peggior governo degli ultimi centocinquanta anni di storia patria, Mussolini escluso. E ridotto ad attaccare noi di "Repubblica", faziosi e farabutti per definizione, per marcare la propria differenza.

Noi siamo liberali, caro Ferruccio. Liberali veri. Non abbiamo pregiudizi, ma vediamo sintomi ed effetti d'una deriva che minaccia le sorti del Paese.
Vediamo anche la totale inefficienza di questo governo che non ha attuata nessuna delle promesse e degli impegni assunti con il suo elettorato salvo quelli che recano giovamento personale al premier e ai suoi accoliti.

Voglio qui ricordare un non dimenticabile articolo di Barbara Spinelli pubblicato dalla "Stampa" di qualche settimana fa, che forse De Bortoli non ha letto. Mi permetto di consigliargliene la lettura. I giornali ricevono molte querele e molte citazioni per danni, ricordava la Spinelli. Fa parte della rischiosa professione giornalistica e degli errori che talvolta vengono compiuti.

Ma quando è il potere politico e addirittura il capo del governo a tradurli in giudizio perché hanno osato porgli domande scomode, quando questo avviene - ha scritto la Spinelli - i giornali che sono in fisiologica concorrenza tra loro fanno blocco comune e quelle stesse domande le pongono essi stessi, le fanno proprie per togliere ogni alibi ad un potere che dà prova di non sopportare il controllo della pubblica opinione. La stampa italiana - concludeva - non ha fatto questo, mancando così ad uno dei suoi doveri.

Si può non esser d'accordo con il codice morale e deontologico della Spinelli (peraltro seguito da tutta la stampa occidentale) e non mettere in pratica le sue esortazioni. Ma addirittura accusare noi d'una nefasta faziosità rivendicando a proprio favore titoli di merito verso il governo, questo è un doppio salto mortale che da te e dal tuo giornale francamente non mi aspettavo. A tal punto è dunque arrivato il potere di intimidazione che il governo esercita sulla libera stampa?

Ricordo, a titolo di rievocazione storica, che Luigi Albertini incoraggiò il movimento fascista dal 1919 al 1922; gli assegnava il compito di mettere ordine nel Paese purché, dopo averlo adempiuto, se ne ritornasse a casa con un benservito. Ma nel 1923 Mussolini abolì la libertà di stampa e instaurò il regime a partito unico, le cui premesse c'erano tutte fin dal sorgere del movimento fascista. A quel punto Albertini capì e cominciò una campagna d'opposizione senza sconti, tra le più robuste dell'epoca. Purtroppo perfettamente inutile perché il peggio era già accaduto, il regime dittatoriale era ormai solidamente insediato e l'ex direttore del "Corriere della Sera" se ne andò a consolarsi a Torrimpietra.

Ad Indro Montanelli è accaduto altrettanto, ma lui almeno se n'è accorto prima. Difese per vent'anni dalle colonne del "Giornale" le ragioni del Berlusconi imprenditore d'assalto. Si accorse nel 1994 di quale pasta fosse fatto il suo editore e lo lasciò con una drammatica rottura. Ma era tardi anche per lui. Se c'è un aldilà, la sua pena sarà quella di vedere Vittorio Feltri alla guida del giornale da lui fondato. Al "Corriere della Sera" quest'esperienza d'un giornalista di razza al quale dedicano un santino al giorno dovrebbero farla propria per capire qual è il gusto e il valore della libertà liberale.

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