13/10/2009
MICHELE AINIS
MICHELE AINIS
Potremmo farne una questione di bon ton, di buona creanza nei rapporti tra le massime istituzioni del Paese. Dopotutto se una sentenza sfavorevole diventa l’occasione per urlare a squarciagola contro il Quirinale e la Consulta, per revocarne in dubbio la «lealtà», finiremo per scassare quel poco che resta del nostro Stato di diritto. E dopotutto se il confronto tra i poteri degenera in una rissa permanente, non c’è poi affatto da stupirsi quando la stessa intolleranza si propaga dalla società politica alla società civile, quando una donna, un nero o un gay vengono picchiati per la strada, come succede a giorni alterni. Ma questa vicenda d’arsenico e coltelli non offende unicamente il senso civico. No, reca un affronto alla logica, più che ai due garanti del nostro ordinamento. E infatti nei loro riguardi la doppia accusa di slealtà suona doppiamente strampalata.
Il Presidente, innanzitutto. Sarebbe in mala fede perché, lui comunista, non si è impegnato a convincere quegli altri comunisti che hanno banco alla Consulta. Ma a suo tempo Napolitano ha promulgato il lodo Alfano, senza esercitare il potere di rinvio alle Camere, senza neppure manifestare una riserva, anzi rendendo esplicite le ragioni del consenso; se davvero la sentenza costituzionale metteva in gioco la sua autorevolezza, il Presidente avrebbe avuto tutto l’interesse a un disco verde. Più che sleale, dovremmo definirlo un po’ sdentato, senza denti per mordere le altre istituzioni.
Ma non è così, o altrimenti è così per tutti i presidenti. Sta di fatto che ogni sentenza d’incostituzionalità demolisce una legge già in vigore, e perciò già promulgata dal Capo dello Stato: se le due decisioni fossero sempre consonanti, o nessuna legge entrerebbe mai in vigore, oppure nessuna legge verrebbe mai annullata. D’altronde su questa falsariga potremmo continuare all’infinito: è sleale il giudice di primo grado quando la sua pronunzia viene rovesciata dal giudice d’appello, è sleale la commissione Affari costituzionali quando reputa legittima una legge che il presidente rifiuta poi di promulgare, è sleale il Parlamento quando cambia 55 articoli della Costituzione (è accaduto nel 2005), e con un referendum il corpo elettorale successivamente getta la riforma nel cestino dei rifiuti. O forse è sleale la nostra stessa Carta, giacché prevede molteplici istanze di controllo, ciascuna con il suo spazio e il suo specifico raggio d’escursione.
E c’è poi la Consulta, l’imputata principale. Davvero mise fuori strada il Parlamento, quando nel 2004 bocciò il lodo Schifani senza accennare all’esigenza di proteggerlo con legge costituzionale? La risposta è un triplo no. In primo luogo perché la Corte Costituzionale non pontifica sull’universo mondo, bensì risponde a quesiti puntuali e circoscritti; e cinque anni fa l’art. 138 - che detta il procedimento di revisione costituzionale - rimase fuori dalla porta per una scelta dei giudici che avevano sollevato la questione (sentenza n. 24 del 2004, punto 1 della motivazione in diritto). In secondo luogo perché, ciò nonostante, a leggere tra le righe quella prima decisione poteva già desumersi la necessità di una legge costituzionale; tanto che molti commentatori se ne accorsero, basta sfogliare le riviste giuridiche dell’epoca. In terzo luogo per una chiara affermazione della Corte: il lodo Schifani - disse - viola il principio d’eguaglianza e il diritto di difesa processuale, dopo di che «resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale» (punto 8 della motivazione). Assorbito, non escluso.
Insomma nessuna retromarcia, nessuna inversione giurisprudenziale. Domanda: e se anche fosse? Negli Usa la Corte suprema avallò la segregazione razziale per decenni: classi differenziate nelle scuole, tavoli separati al ristorante, orari diversi per montare su un mezzo di trasporto pubblico. Poi nel 1954, con la celebre sentenza Brown, aprì finalmente ai neri il condominio riservato ai bianchi; mezzo secolo più tardi Obama è presidente. Anche la Corte italiana, nel 1961, giudicò legittima la punizione del solo adulterio femminile; ma nel 1968 ci liberò da questa odiosa discriminazione. Evidentemente qualche volta la slealtà è la madre del progresso.
michele.ainis@uniroma3.it
Il Presidente, innanzitutto. Sarebbe in mala fede perché, lui comunista, non si è impegnato a convincere quegli altri comunisti che hanno banco alla Consulta. Ma a suo tempo Napolitano ha promulgato il lodo Alfano, senza esercitare il potere di rinvio alle Camere, senza neppure manifestare una riserva, anzi rendendo esplicite le ragioni del consenso; se davvero la sentenza costituzionale metteva in gioco la sua autorevolezza, il Presidente avrebbe avuto tutto l’interesse a un disco verde. Più che sleale, dovremmo definirlo un po’ sdentato, senza denti per mordere le altre istituzioni.
Ma non è così, o altrimenti è così per tutti i presidenti. Sta di fatto che ogni sentenza d’incostituzionalità demolisce una legge già in vigore, e perciò già promulgata dal Capo dello Stato: se le due decisioni fossero sempre consonanti, o nessuna legge entrerebbe mai in vigore, oppure nessuna legge verrebbe mai annullata. D’altronde su questa falsariga potremmo continuare all’infinito: è sleale il giudice di primo grado quando la sua pronunzia viene rovesciata dal giudice d’appello, è sleale la commissione Affari costituzionali quando reputa legittima una legge che il presidente rifiuta poi di promulgare, è sleale il Parlamento quando cambia 55 articoli della Costituzione (è accaduto nel 2005), e con un referendum il corpo elettorale successivamente getta la riforma nel cestino dei rifiuti. O forse è sleale la nostra stessa Carta, giacché prevede molteplici istanze di controllo, ciascuna con il suo spazio e il suo specifico raggio d’escursione.
E c’è poi la Consulta, l’imputata principale. Davvero mise fuori strada il Parlamento, quando nel 2004 bocciò il lodo Schifani senza accennare all’esigenza di proteggerlo con legge costituzionale? La risposta è un triplo no. In primo luogo perché la Corte Costituzionale non pontifica sull’universo mondo, bensì risponde a quesiti puntuali e circoscritti; e cinque anni fa l’art. 138 - che detta il procedimento di revisione costituzionale - rimase fuori dalla porta per una scelta dei giudici che avevano sollevato la questione (sentenza n. 24 del 2004, punto 1 della motivazione in diritto). In secondo luogo perché, ciò nonostante, a leggere tra le righe quella prima decisione poteva già desumersi la necessità di una legge costituzionale; tanto che molti commentatori se ne accorsero, basta sfogliare le riviste giuridiche dell’epoca. In terzo luogo per una chiara affermazione della Corte: il lodo Schifani - disse - viola il principio d’eguaglianza e il diritto di difesa processuale, dopo di che «resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale» (punto 8 della motivazione). Assorbito, non escluso.
Insomma nessuna retromarcia, nessuna inversione giurisprudenziale. Domanda: e se anche fosse? Negli Usa la Corte suprema avallò la segregazione razziale per decenni: classi differenziate nelle scuole, tavoli separati al ristorante, orari diversi per montare su un mezzo di trasporto pubblico. Poi nel 1954, con la celebre sentenza Brown, aprì finalmente ai neri il condominio riservato ai bianchi; mezzo secolo più tardi Obama è presidente. Anche la Corte italiana, nel 1961, giudicò legittima la punizione del solo adulterio femminile; ma nel 1968 ci liberò da questa odiosa discriminazione. Evidentemente qualche volta la slealtà è la madre del progresso.
michele.ainis@uniroma3.it
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