lunedì 26 ottobre 2009

Le parole per battere la mafia


26/10/2009
BARBARA SPINELLI


Da anni ci interroghiamo su questo male che non viene estirpato, la mafia: in particolare sulla lunga storia di trattative fra una parte dello Stato e la malavita, con poteri occulti che mediano fra due potenze facendone entità paragonabili. Anche per il potere della malavita, non solo per il potere legale, dovrebbero valere le parole di Montesquieu: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere».

Forse però è venuto il momento di dire quello che sappiamo, e non solo di farci domande. Di dire, come fece Pasolini il 14 novembre 1974 a proposito delle trame eversive italiane, che in realtà: noi sappiamo. Sono anni che sappiamo, anche se non abbiamo tutte le prove e gli indizi. Sappiamo che le trattative sono esistite, prolungandosi fino al 2004. Sappiamo che viviamo ancor oggi - con le leggi che ostacolano la lotta alla mafia, con lo scudo fiscale che premia l’evasione - sotto l’ombra di un patto. Sappiamo il sangue che mafia, camorra, ’ndrangheta hanno versato lungo i decenni. Sappiamo il sacco di Palermo, e di tante città: sacco che continua. Sappiamo che l’Italia si va sgretolando davanti a noi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni e di buon cemento non fornito dalla mafia - sì, noi l’abbiamo accettato, noi che eleggiamo chi ha il potere di favorire o frenare la malavita. Sappiamo che basta leggere le sentenze - anche quelle che assolvono gli imputati per mancanza di prove o, peggio, per prescrizione - per conoscere le responsabilità di politici che, per aver conquistato e mantenuto il potere grazie alla malavita, non dovrebbero essere chiamati coi nomi, nobili, di rappresentanti del popolo o di statisti.

Tutte queste cose, come avviene nei paesi che vivono sotto il giogo di un potere totalitario, le sappiamo grazie a persone che hanno deciso di denunciare, di testimoniare, e non solo di testimoniare ma di rimboccarsi le maniche e cominciare a costruire un’Italia diversa: tra i primi l’associazione Libera, e i giudici che hanno indagato su mafia e politica sapendo che avrebbero pagato con la vita, e uomini come Roberto Saviano, e giornalisti che esplorano le terre di mafia come Anna Politkovskaja esplorava, sapendo di essere mortalmente minacciata, gli orrori della guerra russa contro i ceceni.

Sono i medici dell’Italia. Ma medici che osservano un giuramento di Ippocrate speciale, di tipo nuovo: resta il dettato che comanda l’azione riparatrice, risanatrice. Nella sostanza, l’obbligo di non nuocere, di astenersi da ogni offesa e danno volontario. Ma cade il comandamento del segreto, vincolante in Ippocrate, che comanda: «Tutto ciò ch’io vedrò e ascolterò nell’esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta».

Il paragrafo del giuramento cade, perché troppo contiguo alla complicità, al delitto di omertà: questa parola che offende e storpia la radice da cui viene e che rimanda all’umiltà, all’umirtà. La vera umiltà consiste nell’infrangere il segreto, nel far letteralmente parlare le pietre e il cemento, le terre e i mari inquinati, poiché è denunciando il male che esso vien conosciuto e la guarigione può iniziare. Per questo l’informazione indipendente è così importante, in Italia: spesso lamentiamo un’opinione pubblica indifferente, ma, prima di esser aiutata a divenire civica, essa deve essere bene informata: con parole semplici, non specialiste, con esempi concreti. I medici di cui ho parlato - medici dell’Italia e delle sue parole e della sua natura malate - combattono proprio contro questo silenzio, che protegge i mafiosi, copre oscuri patti fra Stato e mafia, lascia senza protezione le loro vittime. I medici danno alle cose un nome, e su questa base agiscono.

C’è un modo di servire lo Stato che chiamerei paradossale: si serve lo Stato, pur sapendo che esso è pervertito, che nella nostra storia c’è stato più volte un doppio Stato. Uomini come Falcone, Borsellino, il giudice Chinnici, don Giuseppe Puglisi, don Giuseppe Diana e i tanti uomini delle scorte avevano questa fedeltà paradossale allo Stato. Uomini così sono come esuli, come De Gaulle che lasciò la Francia quando fu invasa da Hitler e dall’esilio londinese disse: la Francia non coincide con la geografia; quel che rappresento è «una certa idea della Francia», che ha radici nella terra ma innanzitutto nella mente di chi decide di entrare in resistenza e sperare in un mutamento.

La riconquista del territorio e della legalità è come la speranza, anch’essa sempre paradossale. Prende il via da una perdita del territorio, dalla consapevolezza che se lo Stato non ha più presa su di esso, ciascuno di noi perde la terra sotto i piedi. E quando dico territorio perduto dico le case che franano non appena s’alza la tempesta, i terremoti che uccidono più che in altre nazioni, l’abitare che diventa aleatorio, brutto, perché la costruzione delle case avviene con cemento finto, fatto di sabbia più che di ferro, procurato dalle mafie. Come nella lettera di Paolo ai Romani, è dalla debolezza che si parte, altrimenti non ci sarebbe bisogno di sperare: «Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».

Ecco, per ora speriamo quel che non ancora vediamo: una cultura della legalità, una politica del territorio restituito a chi vuole abitarlo decentemente. Per ora abbiamo una certa idea dell’Italia, della lotta alla mafia. Ma se sappiamo quel che accade da tanto tempo, pur non avendo tutte le prove, già metà del cammino è percorsa e l’agire diventa non solo necessario ma possibile. Anche questo Paolo lo spiega bene, quando elenca le tappe della speranza. Prima viene l’afflizione, la conoscenza del dolore. L’afflizione produce la pazienza, e questa a sua volta la virtù provata. È sul suolo della virtù provata che nasce la speranza, e a questo punto la prospettiva cambia. A questo punto sappiamo una cosa in più, preziosa: non si comincia con lo sperare, per poi agire. Si comincia con la prova dell’azione, e solo dalla messa alla prova nascono la speranza, la sete di trovare l’insperato, l’anticipazione attiva - già qui, ora - di un futuro possibile. Ha detto una volta Giancarlo Caselli una cosa non dimenticabile: «Se essi sono morti (parlava di Falcone, Borsellino) è perché noi tutti non siamo stati vivi: non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia; non lo abbiamo fatto abbastanza, nelle professioni, nella vita civile, in quella politica, religiosa».
Per questo corriamo il rischio, sempre, di disimparare perfino la speranza.

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