di Claudia Fusani
Una sentenza che è lo spartiacque della legislatura. Ununico tavolo da cui dipendono tante partite: la durata del governo, la tenuta del Pdl, la nascita di nuove formazioni politiche al centro, un’eventuale diaspora nel Pd. Così la Consulta si ritrova ad essere, suo malgrado, non solo garante e giudice delle leggi ma anche arbitro degli equilibri politici. Ecco perché domattina, quando avvieranno la pubblica udienza che dovrà decidere la costituzionalità del Lodo Alfano, i quindici alti giudici di palazzo della Consulta dovranno anche decidere se essere solo giuristi o anche istituzione dello Stato in un particolare momento della vita pubblica del paese. Giudicare il Lodo - lo scudo giudiziario che blocca i processi, ma non le indagini, per le quattro più alte cariche dello Stato - solo interrogando i codici o anche il contesto in cui gli stessi codici vanno applicati. Il toto-Consulta e le relative schedine su numero dei favorevoli e dei contrari sono stati il tema prediletto nei conciliaboli di Montecitorio dell’ultima settimana.
I quindici giudici e i rispettivi magistrati assistenti sono al lavoro da settimane. Inutile qui dire se sono di più quelli per la conferma del Lodo, e quindi la prosecuzione della legislatura senza che Berlusconi venga processato, o coloro che giudicano il Lodo incostituzionale, annullandolo e aprendo la strada a stravolgimenti politici. Preferibile dire che c’è una sostanziale parità, che la Corte è spaccata e che la differenza la faranno due, al massimo tre giudici tra cui il presidente Francesco Amirante (il cui voto, in caso di parità, vale doppio) ancora incerti sul da farsi. È preferibile, anche, non dilungarsi troppo sulle cene tra giudici e premier e ministri (a maggio a casa Manzella); sul figlio del giudice promosso ai vertici di un importante ente pubblico; sulla lunga stretta di mano tra il premier e il presidente Amirante durante i funerali dei sei parà uccisi a Kabul.
Restiamo ai fatti che più di tutti possono pesare sulla decisione finale. Che sono sostanzialmente tre: la rinuncia del presidente della Camera Gianfranco Fini al Lodo; la memoria difensiva dell’Avvocatura di Stato; le ragioni che nel luglio 2008 hanno fatto dire al presidente della Repubblica sì al Lodo Alfano. Il presidente Napolitano osservò allora, in due diversi comunicati, che la Corte già con la sentenza n.24 del 2004 (quella che bocciò l’analogo Lodo Schifani) «sancì che la norma di sospensione dei processi per le alte cariche dello stato non dovesse essere adottata con legge costituzionale». Che bastava, quindi, una legge ordinaria. Napoletano, firmando il Lodo Alfano, ricordò anche che la Corte, sempre nel 2004, «giudicò un interesse apprezzabile la tutela del bene costituito dalla assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche ». In sintesi, poter governare serenamente è un interesse primario e un processo può anche aspettare. Un po’ lo stesso principio spiegato nelle ventuno pagine della memoria difensiva dell’Avvocatura di Stato che, in caso di stop al Lodo, prevede danni seri all’esercizio delle funzioni provocati dalle dimissioni del premier. Alla Corte, quindi, è stato prospettato una sorta di ricatto politico. Può questo pesare sulle decisioni puramente tecnico- giuridiche degli alti giudici? Non dovrebbe. Fondamentale, invece, è la questione della costituzionalità del Lodo su cui però già in passato, nel 2004, la Consulta si era espressa dicendo che non serviva una legge costituzionale. Ecco perché a questo punto è di grande “aiuto” la scelta di Fini di rinunciare allo scudo: in qualche modo è la prova che il Lodo non è incostituzionale. Si tratta di un messaggio forte per la Corte. Che può far spostare i più indecisi verso il sì e la conferma.
5 OTTOBRE 2009
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