È dura guardare, ma forse conviene; queste foto atroci dicono molto ed è bene prendere atto di ciò che preferiamo spesso ignorare: le immagini di Stefano Cucchi, o meglio del suo corpo martoriato, sono un po’ la mappa del linguaggio del nostro sistema «di sicurezza». Le ha consegnate ai media Luigi Manconi, ieri mattina; accanto a lui, padre, madre e sorella del ragazzo che un giorno è entrato in buona salute in cella e una manciata di ore dopo ne è uscito senza vita e con le ossa rotte. La famiglia di Stefano non ha rancore, non chiede vendetta, solo verità su quel che è accaduto al loro caro; dicono «Glielo dobbiamo», umano, molto umano, e si rivolgono al governo, ai ministri competenti, facciano il loro mestiere perché non si può morire così a trentuno anni mentre sei tra le braccia dello Stato.
Proviamo a ricapitolare la storia, recentissima, che inizia il 15 ottobre quando, di sera, Stefano viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti, a Roma. Gli trovano addosso un po’ di marijuana, pochissima coca, un paio di pastiglie, secondo il padre «di Rivotril», un farmaco contro l’epilessia regolarmente prescritto dal medico. Il giorno dopo, perquisizione in casa, non viene trovato niente di più. Stefano ammette l’uso di stupefacenti davanti al giudice ma a mezzogiorno, quando giunge in aula scortato da quattro carabinieri, ha il volto tumefatto e appare dimagrito. Dopo circa un’ora, emessa la sentenza di rinvio a giudizio, Stefano va verso il carcere ammanettato perché è stato assegnato alla custodia cautelare in attesa dell’udienza fissata per il 13 novembre.
Cella e manette per «roba» ad uso personale, sembra una risposta un bel po’ forte ma, se è così, eccoci di fronte a uno dei tanti specchi del nostro inflessibile paese. Alle 14 lo visitano presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia e gli riscontrano lesioni al viso mentre Stefano lamenta lesioni alla zona sacrale e agli arti inferiori. Via a Regina Coeli. All’ingresso, visita medica: ecchimosi... tumefazione... algia.... Gita all’ospedale Fatebenefratelli, dove le radiografie diagnosticano: «frattura del corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea». Torna in cella con le sue fratture. Il mattino dopo, nuova gita al Fatebenefratelli e di qui all’ospedale Pertini. I famigliari sanno del ricovero solo alle 21. Corrono e chiedono di poterlo vedere. Umana risposta: «Questo è un carcere e non sono possibili le visite», giusto. Chiedono allora come stia il loro ragazzo ma viene loro risposto che conviene tornare lunedì e parlare coi medici. Pazienza? Lunedì: alle dodici, parenti di nuovo al padiglione detenuti del Pertini; stessa domanda: come sta Stefano? Una sovrintendente, uscendo dal reparto telegrafica concede: «Il ragazzo sta tranquillo». Niente colloquio coi medici: manca, spiegano, l’autorizzazione del carcere, tornassero il giorno dopo. Fatto: purtroppo, non li lasciano entrare, si sentono spiegare che serve il permesso del giudice. Accidenti, nessuno glielo aveva mai detto prima, c’è sempre qualcosa da imparare. Siamo arrivati a mercoledì, mattinata di pratiche ma questa volta forse non manca niente, giovedì sarà il giorno buono. Infatti, a metà giornata, mentre il padre è a Regina Coeli per farsi firmare il visto, un carabiniere bussa e chiede alla mamma di Stefano di seguirlo in caserma, le devono dire delle cose. Lei non può allontanarsi, sta badando alla nipotina. Il carabiniere promette che tornerà. Alle 12 e mezza, alla signora viene notificato il decreto del Pm per l’autorizzazione alla nomina di un perito di parte. E perché? Perché Stefano è morto. Corrono all’obitorio, lo spettacolo è devastante, le tracce sono in quelle foto. Fine. Si indaga. Che sarà mai.
30 ottobre 2009
Cella e manette per «roba» ad uso personale, sembra una risposta un bel po’ forte ma, se è così, eccoci di fronte a uno dei tanti specchi del nostro inflessibile paese. Alle 14 lo visitano presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia e gli riscontrano lesioni al viso mentre Stefano lamenta lesioni alla zona sacrale e agli arti inferiori. Via a Regina Coeli. All’ingresso, visita medica: ecchimosi... tumefazione... algia.... Gita all’ospedale Fatebenefratelli, dove le radiografie diagnosticano: «frattura del corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea». Torna in cella con le sue fratture. Il mattino dopo, nuova gita al Fatebenefratelli e di qui all’ospedale Pertini. I famigliari sanno del ricovero solo alle 21. Corrono e chiedono di poterlo vedere. Umana risposta: «Questo è un carcere e non sono possibili le visite», giusto. Chiedono allora come stia il loro ragazzo ma viene loro risposto che conviene tornare lunedì e parlare coi medici. Pazienza? Lunedì: alle dodici, parenti di nuovo al padiglione detenuti del Pertini; stessa domanda: come sta Stefano? Una sovrintendente, uscendo dal reparto telegrafica concede: «Il ragazzo sta tranquillo». Niente colloquio coi medici: manca, spiegano, l’autorizzazione del carcere, tornassero il giorno dopo. Fatto: purtroppo, non li lasciano entrare, si sentono spiegare che serve il permesso del giudice. Accidenti, nessuno glielo aveva mai detto prima, c’è sempre qualcosa da imparare. Siamo arrivati a mercoledì, mattinata di pratiche ma questa volta forse non manca niente, giovedì sarà il giorno buono. Infatti, a metà giornata, mentre il padre è a Regina Coeli per farsi firmare il visto, un carabiniere bussa e chiede alla mamma di Stefano di seguirlo in caserma, le devono dire delle cose. Lei non può allontanarsi, sta badando alla nipotina. Il carabiniere promette che tornerà. Alle 12 e mezza, alla signora viene notificato il decreto del Pm per l’autorizzazione alla nomina di un perito di parte. E perché? Perché Stefano è morto. Corrono all’obitorio, lo spettacolo è devastante, le tracce sono in quelle foto. Fine. Si indaga. Che sarà mai.
30 ottobre 2009
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