Ieri, con il via libera del Consiglio dei ministri, è iniziato il cammino della Riforma universitaria, che dovrà approdare in Parlamento.
Poi dovrà essere discussa, eventualmente emendata, e infine approvata dalle due Camere. È presto dunque per formarsi un’opinione definitiva. Come professore universitario posso però testimoniare su un punto: il clima è già profondamente cambiato. Ho partecipato giusto qualche giorno fa a un incontro di Facoltà sui criteri di valutazione della didattica e della ricerca, e ho constatato che un po’ tutti - anche gli oppositori della riforma - sono consapevoli che, comunque le cose vadano a finire nei dettagli (importantissimi, in questo caso), un’epoca è finita e tutto sommato è un bene.
Quale epoca?
L’epoca in cui le università avevano mano libera nella promozione dei candidati locali, spesso pessimi. Un’epoca in cui i clan accademici la facevano da padroni, e nessuno era veramente tenuto a rendere conto del proprio operato. Un’epoca in cui si sapeva che i bilanci in rosso sarebbero stati ripianati, sempre e comunque. Un’epoca in cui, in nome di una malintesa autonomia, si potevano moltiplicare impunemente corsi di laurea e insegnamenti. Un’epoca in cui la valutazione si cominciava, faticosamente, a fare, ma i suoi risultati non venivano utilizzati per premiare i migliori. Un’epoca in cui i fondi seguivano la spesa storica (e i suoi sfondamenti) anziché premiare le università migliori. Un’epoca in cui, a dispetto del dettato costituzionale (art. 34), quasi nulla veniva fatto a favore dei «capaci e meritevoli».
Quell’epoca è al tramonto non per merito di una riforma che non c’è ancora, ma perché i disastri delle riforme precedenti (e innanzitutto del 3+2) sono sotto gli occhi di tutti. Perché più l’Università si apre all’estero, più diventa difficile evitare il confronto, o continuare a lodarsi da soli. E infine perché i soldi sono sempre di meno, e lentamente si sta capendo che non possiamo più permetterci di gettarli al vento.
Però va detto che la riforma del ministro Gelmini, nonostante i limiti che ognuno di noi può trovarvi (io ad esempio avrei qualche domanda sul valore legale della laurea e sulle tasse universitarie), va nella direzione giusta, almeno nell’impianto generale e nei principi ispiratori. La stella polare della riforma è la piena responsabilizzazione delle istituzioni e degli individui. Se i dettagli saranno ben congegnati, cosa non scontata, le università non potranno dissipare risorse come in passato, le prepotenze nei concorsi incontreranno qualche ostacolo, il merito individuale sarà premiato un po’ più di prima (del resto non ci vuole molto). Ci vorranno anni, ma la direzione è questa.
Naturalmente è anche possibile che non se ne faccia niente. La riforma potrebbe non passare in Parlamento. Gli emendamenti di maggioranza e opposizione, anziché migliorarla, potrebbero stravolgerla. I professori potrebbero trovare il modo di continuare a pilotare i concorsi, come prima e più di prima. Gattopardescamente, potrebbe anche accadere che tutto venga cambiato perché tutto resti come prima. E’ questo, a mio parere, il rischio più grande.
Ma se questo rischio si vuole evitare, occorre che tutti facciamo la nostra parte. Il ministro dovrebbe sempre tenere presente che la macchina che ha deciso di toccare è delicatissima, e che il rischio di non rendersi conto delle conseguenze pratiche delle norme che si introducono è sempre molto alto. L’opposizione, anziché demonizzare la Gelmini, farebbe bene a prenderla in parola, vigilando sul fatto che le intenzioni si traducano in norme davvero efficaci: l’ha già fatto quando con Pietro Ichino (senatore del Partito democratico) ha contribuito a migliorare la riforma della Pubblica amministrazione del ministro Brunetta, può benissimo rifarlo oggi nel caso dell’Università. E infine noi, docenti, studenti e personale dell’Università, dovremmo smetterla di pensare che tutto dipende dalle leggi, dalle norme e dai regolamenti: la qualità della riforma dipenderà certo dal fatto che non contenga sciocchezze e aberrazioni, ma molto dipenderà anche da noi, dal modo in cui sapremo parlarne, farla nostra, usarla per costruire un’Università più degna di un Paese civile.
Poi dovrà essere discussa, eventualmente emendata, e infine approvata dalle due Camere. È presto dunque per formarsi un’opinione definitiva. Come professore universitario posso però testimoniare su un punto: il clima è già profondamente cambiato. Ho partecipato giusto qualche giorno fa a un incontro di Facoltà sui criteri di valutazione della didattica e della ricerca, e ho constatato che un po’ tutti - anche gli oppositori della riforma - sono consapevoli che, comunque le cose vadano a finire nei dettagli (importantissimi, in questo caso), un’epoca è finita e tutto sommato è un bene.
Quale epoca?
L’epoca in cui le università avevano mano libera nella promozione dei candidati locali, spesso pessimi. Un’epoca in cui i clan accademici la facevano da padroni, e nessuno era veramente tenuto a rendere conto del proprio operato. Un’epoca in cui si sapeva che i bilanci in rosso sarebbero stati ripianati, sempre e comunque. Un’epoca in cui, in nome di una malintesa autonomia, si potevano moltiplicare impunemente corsi di laurea e insegnamenti. Un’epoca in cui la valutazione si cominciava, faticosamente, a fare, ma i suoi risultati non venivano utilizzati per premiare i migliori. Un’epoca in cui i fondi seguivano la spesa storica (e i suoi sfondamenti) anziché premiare le università migliori. Un’epoca in cui, a dispetto del dettato costituzionale (art. 34), quasi nulla veniva fatto a favore dei «capaci e meritevoli».
Quell’epoca è al tramonto non per merito di una riforma che non c’è ancora, ma perché i disastri delle riforme precedenti (e innanzitutto del 3+2) sono sotto gli occhi di tutti. Perché più l’Università si apre all’estero, più diventa difficile evitare il confronto, o continuare a lodarsi da soli. E infine perché i soldi sono sempre di meno, e lentamente si sta capendo che non possiamo più permetterci di gettarli al vento.
Però va detto che la riforma del ministro Gelmini, nonostante i limiti che ognuno di noi può trovarvi (io ad esempio avrei qualche domanda sul valore legale della laurea e sulle tasse universitarie), va nella direzione giusta, almeno nell’impianto generale e nei principi ispiratori. La stella polare della riforma è la piena responsabilizzazione delle istituzioni e degli individui. Se i dettagli saranno ben congegnati, cosa non scontata, le università non potranno dissipare risorse come in passato, le prepotenze nei concorsi incontreranno qualche ostacolo, il merito individuale sarà premiato un po’ più di prima (del resto non ci vuole molto). Ci vorranno anni, ma la direzione è questa.
Naturalmente è anche possibile che non se ne faccia niente. La riforma potrebbe non passare in Parlamento. Gli emendamenti di maggioranza e opposizione, anziché migliorarla, potrebbero stravolgerla. I professori potrebbero trovare il modo di continuare a pilotare i concorsi, come prima e più di prima. Gattopardescamente, potrebbe anche accadere che tutto venga cambiato perché tutto resti come prima. E’ questo, a mio parere, il rischio più grande.
Ma se questo rischio si vuole evitare, occorre che tutti facciamo la nostra parte. Il ministro dovrebbe sempre tenere presente che la macchina che ha deciso di toccare è delicatissima, e che il rischio di non rendersi conto delle conseguenze pratiche delle norme che si introducono è sempre molto alto. L’opposizione, anziché demonizzare la Gelmini, farebbe bene a prenderla in parola, vigilando sul fatto che le intenzioni si traducano in norme davvero efficaci: l’ha già fatto quando con Pietro Ichino (senatore del Partito democratico) ha contribuito a migliorare la riforma della Pubblica amministrazione del ministro Brunetta, può benissimo rifarlo oggi nel caso dell’Università. E infine noi, docenti, studenti e personale dell’Università, dovremmo smetterla di pensare che tutto dipende dalle leggi, dalle norme e dai regolamenti: la qualità della riforma dipenderà certo dal fatto che non contenga sciocchezze e aberrazioni, ma molto dipenderà anche da noi, dal modo in cui sapremo parlarne, farla nostra, usarla per costruire un’Università più degna di un Paese civile.
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