Meno autonomia uguale più merito. E più privato uguale più qualità. Sono queste le equazioni che stanno dietro il provvedimento sull’università approvato ieri da Palazzo Chigi. Era dai tempi del sedicente “pacchetto sicurezza” che il volto ideologico della destra che ci governa non lasciava un’impronta tanto nitida. E lo si deve alla furia riformatrice di una figlia della Bergamasca come Mariastella Gelmini, il ministro dell’Istruzione che per diventare avvocato scese a sostenere l’esame in Calabria, in un’ottica di “istruzione patria” di chiara marca deamicisiana (dalle Alpi all’Appennino e ritorno).
La realtà della riforma va oltre gli slogan ed è di volgare concretezza: come per la scuola, non c’è un soldo bucato neppure per gli atenei. Giulio Tremonti non sgancia e la Gelmini, che proprio ieri ha confessato al suo ideologo di riferimento Maurizio Costanzo di voler crivere un libro di “favole regionali” manco fosse Italo Calvino, copre così la sua triste realtà di piccola fiammiferaia di Viale Trastevere.
Ci sono meno denari per gli studenti più bravi, ma si racconta che i criteri di attribuzione saranno più severi e meritocratici.
Ci sono meno soldi per gli atenei pubblici e si restringe ulteriormente il diritto allo studio sancito dalla Costituzione, ampliando il ricorso agli odiosi test d’ingresso.
Si vuole limitare l’offerta formativa delle università statali, limitandone l’autonomia, e si copre il tutto con l’ingresso del famoso “mercato”.
Se almeno avessero il coraggio della provocazione culturale, si potrebbe discutere con una certa allegria. Potremmo chiudere gli occhi sugl’interessi dei privati “sussidiati” ai quali abbiamo assistito nella sanità e nei servizi pubblici essenziali. Potremmo berci la storiella che il contributo scientifico e culturale di Sciùr Brambilla e Cumènda vari sia la vera modernità. Potremmo perfino ripescare meravigliose provocazioni libertarie come quelle di Enzensberger per un “ritorno al precettore”. Poi però uno vede l’ombra di Giulietto Mani di Forbice e capisce che la prima favola della Gelmini ha per titolo “L’ateneo dimezzato”. E allora la può raccontare giusto al Costanzo Show.
Se almeno avessero il coraggio della provocazione culturale, si potrebbe discutere con una certa allegria. Potremmo chiudere gli occhi sugl’interessi dei privati “sussidiati” ai quali abbiamo assistito nella sanità e nei servizi pubblici essenziali. Potremmo berci la storiella che il contributo scientifico e culturale di Sciùr Brambilla e Cumènda vari sia la vera modernità. Potremmo perfino ripescare meravigliose provocazioni libertarie come quelle di Enzensberger per un “ritorno al precettore”. Poi però uno vede l’ombra di Giulietto Mani di Forbice e capisce che la prima favola della Gelmini ha per titolo “L’ateneo dimezzato”. E allora la può raccontare giusto al Costanzo Show.
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