venerdì 2 ottobre 2009

PROFESSIONE REPORTER, QUINDI FARABUTTO


di Marco Travaglio

Negli Stati Uniti il giornalista deve controllare una sola cosa: che quel che dice sia vero. In Italia invece il mestiere di giornalista è diventato una via crucis fra denunce civili e penali, garanti della privacy ed esposti all’Ordine. Per quelli televisivi c’è pure la Vigilanza del Parlamento, l’Autorità delle comunicazioni e ora il ministro Scajola, cioè il governo. L’avvocato Katia Malavenda ha scritto su Micromega una specie di gioco dell’oca, una via crucis con tutte le trappole che spuntano sulla strada di ogni giornalista italiano. Anzi, di ogni “farabutto”. Diciamo subito che è giusto chi scrive il falso su qualcuno, se mente sapendo di mentire o non fa tutte le verifiche possibili, sia condannato, risarcisca la vittima e venga espulso dall’Ordine. Ma in Italia puoi essere condannato anche se racconti un fatto vero: basta usare parole troppo aspre, o notizie segrete, o atti pubblici ma non pubblicabili.E non c'è alcuna differenza fra una critica dura e un fatto falso: si rischia la diffamazione in entrambi i casi.

In America Michael Moore ha scritto un libro su Bush, “Stupid White Man”, e Bush non s’è nemmeno sognato di denunciarlo: nessun tribunale avrebbe preso in considerazione la denuncia. Nemmeno Clinton ha mai denunciato i giornalisti: neppure quando hanno scritto che il suicidio di un suo assistente era una messinscena per coprire un omicidio.

In Italia, se dai dello stupido a un politico, rischi il carcere fino a 6 anni, o la multa, più il danno morale e la riparazione pecuniaria proporzionata alla gravità dell'offesa e alla tiratura o allo share. Le somme le decide il giudice, a discrezione. Anche se il cronista s'è soltanto sbagliato e poi s'è scusato subito con una rettifica.

Non basta: i danni patrimoniali si possono pure chiedere in sede civile e provocare una condanna al risarcimento per il giornalista e l'editore. Invece negli Usa – scrive Alexander Stille su Repubblica- il cronista può perfino scrivere una notizia falsa senza esser condannato: la condanna scatta solo se scrive il falso con "malizia" e "reckless disregard of the truth", "noncuranza spericolata per la verità". Cioè se l’ha fatto apposta o non s’è dato da fare per verificare la notizia. Se sbaglia in buona fede, prevale il diritto di cronaca, che è un bene assoluto. E per le critiche, anche feroci, non c'è denuncia che tenga. In Italia chi fa causa civile non rischia nulla: chiede decine, centinaia di milioni e, se poi il giudice gli dà torto, non deve sborsare una lira. Molti esperti propongono una cauzione. Mi chiedi 10 milioni? Ne lasci 1 sul tavolo, un cip del 10%. Se vinci, incassi il risarcimento. Se perdi, la Giustizia e il denunciato si dividono il milione per il tempo e le energie che gli hai fatto perdere. Il che scoraggerebbe le cause infondate e le liti temerarie, quelle attivate dai potenti a scopo intimidatorio. Negli Usa, poi, chi denuncia un giornalista deve sottoporsi alla "discovery": cioè tirar fuori tutte le carte. Cioè: Berlusconi, dopo aver denunciato Repubblica per le 10 domande, dovrebbe rispondere a tutte e 10 le domande. Per questo in America i potenti stanno alla larga dai tribunali.

Altra trappola tutta italiana: il Garante della privacy, che interviene quando il giornalista riporta dati personali: salute, idee politiche, religione, tendenze sessuali. Se il cronista dice che un paziente è morto in ospedale, deve dimostrare che la notizia era “essenziale” per un'informazione completa. E chi decide se è essenziale? Il Garante, a sua discrezione. Se decide che il cronista ha torto, può farlo punire dall'Ordine fino alla sospensione dalla professione da 2 mesi a 1 anno, o addirittura alla radiazione. Non solo: il giornalista finisce pure in tribunale penale per il reato di trattamento di dati personali non essenziali, e rischia da 1 a 3 anni di carcere; o davanti al giudice civile, che può condannarlo al risarcimento insieme al suo editore. In caso di foto, tipo quelle dentro villa Certosa, altro reato con pena massima fino a 4 anni di carcere.

In America la privacy dei personaggi pubblici di fatto non esiste: questi hanno tutte le possibilità di dare la loro versione dei fatti, diversamente dai privati cittadini che non hanno voce. Figurarsi se ci fosse un politico con decine di giornali e 5 tv su 6. Quando il senatore del New Jersey Jon Corzine prestò alla fidanzata 300 mila euro, dovette chiarire tutto in pubblico perché lei era una sindacalista che trattava con lo Stato. Un fatto privato e perfettamente lecito: ma toccava un uomo pubblico e se ne doveva parlare. In Italia l’unica privacy di cui si parla è quella dei potenti. I cittadini comuni, tipo Alberto Stasi, possono essere massacrati in tv senz’alcuna difesa. Se poi il giornalista italiano si occupa di giudiziaria, la via crucis continua. Se pubblica atti d’indagine non segreti, rischia un'ammenda fino a 258euro, oblabile pagandone 129.

Ora la legge Alfano alza l'ammenda a 5 mila euro, e a 10 mila se ci sono intercettazioni, anche se non segrete. L'editore invece rischia fino a 480 mila euro per ogni articolo. In più il giornalista dev'essere denunciato all’Ordine e può essere sospeso dalla professione. Così non si pubblicherà più niente. E se il giornalista viene assolto? Peggio per lui lo stesso. Il processo non avrebbe mai dovuto iniziare, ma le spese legali le paga comunque, lui o l'editore. In Italia denunciare i giornalisti conviene, anche se dicono il vero. E’ fare i giornalisti che non conviene. Meglio andare a rubare e portare il bottino all’estero: tanto poi c’è lo scudo.

(è l’intervento nella puntata di ieri sera ad Annozero)

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