La (non) santa alleanza tra pubblico e privato rischia di schiacciare i nostri aeroporti sul modello autostradale, notoriamente poco virtuoso. Se ne discute poco, con tutta l’attenzione mediatica concentrata sul problema dello smarrimento dei bagagli, ma ciò che sta succedendo negli scali italiani è quantomeno paradossale. Della qualità e del costo dei sevizi forniti - nel complesso modesti - sembra importare assai poco alle nostre autorità di settore. In compenso, conta sempre di più una sola logica: fare molti investimenti sempre e comunque. Anche se la crisi attuale li rende certamente non tutti inutili, ma neppure tutti urgenti. E forse per questa peculiare pulsione ad annunciare grandi investimenti vi sono solide spiegazioni economiche. Innanzitutto, negli aeroporti gli investimenti sono potenzialmente molto redditizi e privi di rischi reali, in quanto garantiti dalle tariffe che pagano i passeggeri, direttamente o indirettamente. Quando compra un biglietto aereo, il passeggero sovente ignora che sta pagando anche gli aeroporti, sia per la gestione che per gli investimenti. Mentre chi prende il treno non paga nemmeno tutti i costi di gestione. Gli aeroporti sono in parte pubblici (la Sea ad esempio è del comune di Milano) e in parte a capitale misto come Torino, Firenze e Venezia, o completamente privati come gli Aeroporti di Roma della famiglia Benetton. I fratelli di Ponzano Veneto sono anche concessionari di Autostrade per l’Italia, che gestisce il 70% del traffico autostradale a pedaggio nel nostro paese. E anche degli investimenti autostradali gli utenti ne pagano la gran parte e, in alcuni casi, persino molto più del 100%. Perché anche qui ci sono molte autostrade pubbliche o semipubbliche. Dunque, aeroporti e autostrade sono potenzialmente grandi fonti di reddito, pubblico e privato, e gli utenti hanno poca scelta e non sanno esattamente se pagano il giusto oppure no. Questa situazione genera una spinta a un’alleanza pubblico-privato assai poco innocente, dove si riesce a massimizzare i ritorni economici, senza contraccolpi di consenso sociale. Insomma, un capolavoro di marketing e sedicente “capitale di rischio”.
Però la redditività delle infrastrutture (dette “monopoli naturali”) dovrebbe essere oggetto di regolazione pubblica, come l’energia o le telecomunicazioni, per difendere gli ignari utenti da possibili spoliazioni dei monopolisti (“rendite di monopolio”), o dalle loro inefficienze se prevalgono obiettivi politici, come l’eccesso di forza lavoro, i consigli di amministrazione gonfiati, gli appalti e subappalti a imprese “amiche”. Inoltre, visto che anche gli investimenti li pagano gli utenti, il regolatore pubblico dovrebbe verificare che si facciano solo quelli necessari, e senza sprechi di sorta (ai minimi costi, non con granito rosso di Svezia e moquette di vero leopardo). Da qui, la necessità della creazione di autorità indipendenti di regolazione, invise sia ai monopolisti che alla sfera politica, che non ha molto voglia di regolare se stessa e rinunciare alle relative rendite. Nel caso dei trasporti, la politica si è adoperata con successo per evitarne il varo, anche se c’era un vago impegno nel programma di Romano Prodi. Tornando agli aeroporti, recentemente è stato deciso un curioso aumento “ponte” delle tariffe che devono pagare gli utenti: tre euro per quelli grandi; due per quelli medi e uno per quelli piccoli. Questo, senza alcuna verifica se le diverse gestioni aeroportuali siano efficienti o no. Insomma: aumenti uguali per tutti, efficienti e inefficienti, in attesa di firmare poi i soliti “contratti di programma” di lunghissima durata. L’Antitrust si è vanamente opposta a queste lunghissime durate, che generano uno strapotere negoziale dei concessionari, senza alcuna motivazione tecnica, ed eliminano la possibilità di bandire gare periodiche per l’affidamento delle concessioni. Inoltre, questi “contratti di programma” saranno tutti centrati sui futuri investimenti, ma dell’efficienza gestionale si parla pochissimo.
Ora, l’organo di regolazione “facente funzione” della mancante autorità, ovvero l’Enac, dichiara di essere in difficoltà a valutare anche solo i piani di investimento che gli saranno sottoposti. Quegli aumenti arbitrari rischiano così di diventare permanenti. Le compagnie aeree ovviamente protestano, ma l’assenza di un’Autorità indipendente li priva di un avvocato essenziale. E lo Stato ha già dimostrato di poter intervenire pesantemente, e contro le regole del mercato, nella vicenda Alitalia. Logico, allora, essere molto prudenti. D’altronde anche per la regolazione delle autostrade è andato in scena un film molto simile: dopo lunghissimi conflitti e dibattiti, la regolazione stessa del settore è stata di fatto cancellata; gli investimenti saranno fatti direttamente dai concessionari (“in house”) e pagati dagli utenti sostanzialmente a piè di lista. Questa non santa alleanza tra pubblico e privati sembra perciò destinata a un analogo “successo” anche nel settore aeroportuale. Il tutto, naturalmente, a danno del cittadino-utente.
* Ordinario di Economia Applicata al Politecnico di Milano
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