sabato 31 ottobre 2009

Stefano è stato assassinato. La Russa assolve i carabinieri


di Toni Jop


«Omicidio preterintenzionale», l’ipotesi di reato è questa, l’ha formulata il pm romano Vincenzo Barba per chiarire le cause e le responsabilità della morte di Stefano Cucchi. Ma se Luigi Manconi non avesse sbattuto in faccia all’opinione pubblica questa vergogna, come sarebbe andata? Come tutte le altre volte, tutto si sarebbe spento con una notizia in cronaca. Invece, ecco la magistratura al lavoro, per ora contro ignoti. L’avvocato Fabio Anselmo si chiede perché «contro ignoti», dal momento che tutti gli spostamenti del ragazzo sono avvenuti in tempi certi e sempre sotto il «controllo» delle forze dell’ordine, quindi... Ma intanto si apre il fascicolo sotto lo sguardo di qualche milione di esseri umani che non si spiegano come sia possibile, oggi, finire i propri giorni tanto brutalmente - ieri le foto del corpo di Stefano hanno fatto il giro di mezzomondo- tra le braccia dello Stato. Mentre dal roof garden politico e istituzionale del paese si alza un coro discretamente solidale: tutti vogliono chiarezza. Per ora pochi si chiedono perché dovesse stare in cella, in attesa di giudizio, un ragazzo che aveva in tasca un po’ di droga per uso personale. Nel coro, anche la voce di La Russa che tuttavia ci tiene a far sapere due cose. La prima: la sua convinzione «del comportamento corretto dei Carabinieri in questa occasione»; la seconda, meno elegante, è una precisazione a proposito della sua non competenza nel caso, dal momento che lui è ministro della Difesa e non dell’Interno o della Giustizia. Ma come sa che i carabinieri non c’entrano? Cosa sa? E se non sono stati i Cc, chi è stato?

Sempre in area di maggioranza, Capezzone, il portavoce, trova il tempo di invocare che si evitino «i festival delle risse...e delle speculazioni» sulla sorte di un povero ragazzo morto «distrattamente » per cause naturali, come lascia intravvedere il referto del medico dell’ospedale Pertini di Roma. Ma aveva due vertebre rotte, il volto tumefatto, un occhio rientrato, segni di impatti violenti su tutto il corpo. E in sei giorni - tanto è durata l’agonia - non è riuscito a comunicare con un avvocato e nemmeno con la famiglia, tenuta in scacco per motivi che ora si possono solo immaginare e non sono commoventi. Un intero sistema ha operato con coerenza attorno alla morte di Stefano, a cominciare dalla legge attuale sulla tossicodipendenza. Ma chi lo ha ridotto in quelle condizioni? Torniamo indietro. La sera del 15 ottobre Stefano viene fermato dai carabinieri. All’una e trenta, con lui presente, perquisiscono l’abitazione di famiglia senza trovar niente di più di quel che già gli avevano sfilato dalle tasche. «Stava bene - ricorda la sorella Ilaria - e ci è stato detto di non preoccuparci, tanto sarebbe tornato a casa il giorno dopo, per così poco gli avrebbero dato i domiciliari ». Lo riportano via e lo ripresentano nell’aula del tribunale, a mezzogiorno. Lì, i famigliari constatano che il loro caro o è andato a sbattere contro un tir oppure... «Mio padre - spiega Ilaria - ha raccontato che aveva il viso gonfio e gli occhi tumefatti, irriconoscibile. Ma non gli ha chiesto nulla, quando se lo è trovato davanti, perché c’erano sempre i carabinieri accanto a lui e pensava che in poche ore sarebbe tornato a casa, lì avrebbe potuto chiarire cosa era successo ».

Stefano viene visitato una prima volta alle 14 dello stesso giorno presso l’ambulatorio del Palazzo di Giustizia. Un arco di poche ore in cui stringere le indagini. Ma giusto ieri sera, il comandante provinciale dei Carabinieri Vittorio Tomasone ribadiva che «i Cc non hanno nulla a che fare con la morte del ragazzo e nemmeno con le echimosi», e rilanciava sostenendo che «noi lo abbiamo portato in tribunale dove ha parlato con il padre, dopodiché lo abbiamo consegnato agli agenti della polizia penitenziaria ». «Quindi - incalza l’avvocato Fabio Anselmo - vuol dire che l’hanno pestato il giudice e il Pm. Ci fa piacere che i Carabinieri dicano queste cose, noi non accusiamo nessuno, cerchiamo di vederci chiaro e non ce la facciamo, sa perché?», no, perché? «Il Pm non ci ha consegnato cartelle cliniche, niente foto dell’autopsia, si fa così?». Del resto, per tornare alla sensibilità del «sistema», conviene ricordare che la madre di Stefano ha saputo della morte del figlio solo quando è stata coinvolta nella procedura dell’autopsia. A nessuno era venuto in mente di non tenere in carcere un ragazzo epilettico con un po’ di droga in tasca e che aveva senza ombra di dubbio le ossa rotte. È diventato un caso nella piazza di Facebook, 12mila interventi on line. Capissimo che questa è la normalità, e non un caso.

31 ottobre 2009

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