Spero di sbagliarmi, ma non credo che entro la fine di questa legislatura Berlusconi abolirà l’Irap. Non ci credo, innanzitutto, perché è dal 1994 che promette riduzioni delle tasse, e non ha mai mantenuto la promessa di «abbattere la pressione fiscale» (dal «Contratto con gli italiani»). Non ha abolito l’Irap, non ha portato al 33% l’aliquota massima dell’imposta sui redditi. Durante i suoi governi la pressione fiscale non è mai diminuita. Per l’anno prossimo il governo stesso, nei suoi documenti, prevede un ulteriore aumento della pressione fiscale (dal 42,8% al 43,0%). Non ci credo perché, come elettore, constato che il 95% della politica è fatta di annunci, e non ho motivo di supporre che nel restante 5% di cose fatte e non solo annunciate debba ricadere proprio l’abolizione dell’Irap, un’operazione che da sola costerebbe la bellezza di 40 miliardi l’anno. Non ci credo, infine, perché l’abolizione dell’Irap è, al tempo stesso, la tipica cosa che si dovrebbe fare e che fare non si può.
Perché sarebbe bene abolire (sottolineo: abolire, non limare o «rimodulare») un’imposta come l’Irap? La ragione di fondo è che, più di qualsiasi altra imposta, l’Irap pesa sui produttori - grandi imprese, piccole imprese, artigiani, professionisti - e per questa via abbassa il tasso di crescita dell’Italia. Se si ritiene che il «padre di tutti i problemi» dell’Italia sia la crescita, e che senza crescita c’è ben poco da redistribuire, l’Irap è la prima tassa da sopprimere, tanto più se si considera che ha due difetti molto gravi: penalizza le imprese che impiegano molto lavoro, si deve pagare anche quando l’impresa è in perdita.
Ma l’Irap non si può abolire e non si abolirà, per tanti motivi. Il motivo ovvio, che suppongo stia dietro le perplessità del ministro Tremonti, è che la soppressione costa circa 40 miliardi di euro l’anno e il nostro debito pubblico, recentemente schizzato a 1750 miliardi (il 115% del Pil), ci impone la massima prudenza. Il motivo meno ovvio è che le cosiddette forze sociali sono compattamente contrarie: Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno già detto di no, l’opposizione di sinistra ha fatto sapere che preferirebbe altre misure. Perché?
Fondamentalmente per il timore che l’abolizione dell’Irap venga finanziata con una riduzione della spesa pubblica, per di più non compensata da vantaggi fiscali per i lavoratori dipendenti e i pensionati, che costituiscono la larga maggioranza degli iscritti a queste organizzazioni. La preoccupazione non è infondata, ma è miope. E’ vero che, a breve, un’eventuale abolizione dell’Irap non lascerebbe nulla alle decine e decine di gruppi, categorie e clan che, specie in vista di una Finanziaria, si accalcano nell’anticamera del ministro dell’Economia per spartirsi le briciole della spesa pubblica. Ma è altrettanto vero che, se non si torna a crescere, di spesa pubblica ce ne sarà sempre di meno, e le briciole ora distribuite un po’ a tutti si pagheranno con meno posti di lavoro, meno opportunità di mercato, meno risorse per il completamento del nostro disarmonico Stato sociale (care forze sociali, vi siete dimenticate che mancano quasi del tutto asili nido, ammortizzatori sociali, aiuti per i poveri e i non autosufficienti?).
So bene che, a questa riflessione, si obietta che se si devono abbassare le tasse si può cominciare dai lavoratori e dalle loro famiglie, con la riduzione del cuneo fiscale, la detassazione delle prossime tredicesime, eccetera. Ma l’obiezione è scarsamente compatibile con quel che si sa del funzionamento di un’economia di mercato, e soprattutto non fa i conti con quello che abbiamo imparato durante l’ultimo periodo di crescita (2001-2007). I Paesi che crescono di più non sono quelli con la pressione fiscale aggregata più bassa, ma quelli che hanno i migliori servizi e le imposte societarie più basse. La Finlandia e la Svezia, ad esempio, sono cresciute a un tasso molto più rapido del nostro nonostante una pressione fiscale altissima perché avevano imposte societarie basse (circa 10 punti meno di noi) e un Welfare efficiente. Simmetricamente Paesi come la Germania e il Giappone sono cresciuti poco perché, pur avendo una pressione fiscale aggregata relativamente bassa, soffrivano di imposte societarie troppo alte. In concreto vuol dire che, se l’obiettivo è aumentare il tasso di crescita dell’Italia, uno sgravio di 100 euro sull’Irap ha un impatto decisamente maggiore di uno sgravio di 100 euro sull’Irpef o sull’Iva.
Perciò, alla fine, resto della mia idea. L’Irap verrà «rimodulata» un pochino, giusto per salvare la faccia. Qualche briciola sarà concessa alle forze sociali e agli enti locali, perché la politica è la politica. I sindacati si diranno parzialmente soddisfatti, la Confindustria dirà «meglio che niente». Nessuno avvertirà vantaggi significativi, nessuno sarà troppo penalizzato. Insomma, più o meno lo spettacolo cui assistiamo impotenti da una ventina d’anni.
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