lunedì 30 novembre 2009

Chi si vergogna della Piovra


di ADRIANO SOFRI


Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, cui è toccato di inaugurare un convegno indetto a Racalmuto a vent'anni dalla morte di Leonardo Sciascia, col delicato titolo "Inquisizioni di ieri e di oggi", ha detto di sentire la mancanza "di un intellettuale antimafioso e anticonformista come Sciascia". La sento anch'io, e siccome Sciascia era davvero antimafioso e anticonformista non mi azzarderei a ipotizzare che cosa penserebbe e direbbe se fosse vivo.

Non resta che decidere che cosa pensiamo e diciamo noi, che vivi siamo, per il momento. E specialmente i molti fra noi che non sono specialisti di mafia e antimafia, ma persone profane di cittadinanza italiana e di sentire comune. Noi che non abbiamo seguito con dedizione quotidiana le cronache di mafia, e che stentiamo - stentano perfino gli specialisti - a districarci dentro vicende che durano molti anni, impegnano molti tribunali, riempiono decine di migliaia di pagine giudiziarie. Però chi di noi ha l'età, ricorda la sequenza tremenda dell'assassinio di Falcone e di Borsellino e della loro gente come un momento capitale - un colpo al cuore paragonabile forse solo alla morte di Aldo Moro. Allora in tanti dimenticarono di tenere famiglia, in tanti si sentirono chiamati oltre il calcolo personale a ribellarsi all'infamia, e impegnati a sostenere oltre ogni riserva chi in quella temperie aveva il compito di battersi contro la ferocia onnipotente di Cosa Nostra. Quel sostegno era mancato, per usare un eufemismo, ai due magistrati amici, ai loro cari e ai loro fedeli protettori.

È passato del tempo, molte cose sono cambiate, la commozione è scivolata in fondo ai cuori e lo scetticismo delle convalescenze ha ripreso i suoi diritti. Ma il ricordo di quei giorni dovrebbe essere sempre pronto a riaffiorare. La recita di Olbia di Silvio Berlusconi sembra mostrare che quel ricordo sia stato del tutto sfrattato dalla sua mente. Ciascuno, sentendosi accusato e addirittura braccato, può scegliere uno stile di difesa: ma infilare una collana triviale quanto e più del solito di barzellette sulla mafia, vantare una smentita sulla propria iscrizione in un registro di indagati - del tutto pletorica - e fare dell'umorismo da strapazzo sugli autori della Piovra e dei libri di mafia, eccede davvero le aspettative più desolate.

Qualche giorno fa, in un'intervista a questo giornale, Carlo Ginzburg ha spiegato di sentirsi italiano quando si accorge di vergognarsene. In altri paesi si può scandalizzarsi e indignarsi, ma solo nel proprio si prova una profonda vergogna per parole e gesti altrui. Le parole di Berlusconi a Olbia fanno vergognare di essere italiani. Ieri una nota di Palazzo Chigi ha tentato di rimediare proclamando fra gli innumerevoli record di Berlusconi e del suo governo il merito più grande nella storia quanto alla lotta contro la criminalità organizzata. La pretesa rodomontesca è l'altra faccia delle barzellette del giorno prima. Berlusconi, che si vanta l'uomo più lontano dalla mafia sulla faccia della Terra, non sa di che cosa parla, e l'attenuante che gli è capitato di invocare ai suoi eventuali rapporti con la mafia sta esattamente in questa rivendicazione di non aver saputo e capito di che cosa si trattasse.

L'argomento secondo cui la Piovra e in generale il chiasso antimafioso nuocerebbe all'immagine della Sicilia e dell'Italia nel mondo, da lui usato altre volte in passato (e anche da Totò Riina, sia detto senza affratellarli) significa una minimizzazione immorale e incresciosa, e continua la magnanima tradizione dell'epoca che Andreotti, per essa prescritto, definì una volta come del "quieto vivere" con la mafia. L'epoca in cui la linea dello Stato era che "si ammazzassero pure fra loro" - se non che ammazzavano copiosamente anche fuori di loro, e che fra loro si era accomodata una parte della politica e dello Stato. Quanto all'origine delle sue ricchezze, Berlusconi non fu alieno in passato da risposte disinvolte come quella che lui i soldi li aveva presi da tutti: un ritratto peculiare di che cosa sia un imprenditore secondo lui, e che purtroppo si attaglierebbe anche a molti altri grandi imprenditori, e non solo siciliani né solo in Sicilia.

Il cosiddetto stalliere Mangano, infine, era arrivato da lui solo perché raccomandato da persone di fiducia, e per garantire una legittima protezione del giardino dai cattivi vicini e della sua famiglia dai malintenzionati sequestratori. Sulla tomba di Mangano - l'ho vista nel film di Deaglio, sta in un cimitero abbandonato - una lapide recita così: "Hai dato un valore alla storia degli uomini non barattando la dignità per la libertà, hai dato un significato alla nostra vita...". Mangano rifiutò in effetti di guadagnarsi una liberazione, che per lui non voleva dire che andare a morire fra i suoi invece che in galera, dicendo ai magistrati quello che i magistrati gli chiedevano di dire. Fu davvero un eroe, ma della mafia, e per giunta di quella mafia mitologica che è crollata non appena qualcuno ha fatto sul serio, e ha mostrato di capire di che pasta era fatta.

La caduta della Cosa Nostra delle stragi, come del terrorismo politico, è stata soprattutto il tracollo di persone la cui tempra umana non valeva due soldi: e tanto meno valeva quanto più sanguinaria si mostrava. La proliferazione di "pentiti" che, a differenza di Mangano, sono pronti a barattare la propria "dignità" - e a trovare nello scambio anche trascinanti gratificazioni devozionali - con affari come andare a vivere, piuttosto che a morire, fuori da una cella, o a realizzare, come forse i fratelli Graviano, il loro particolarissimo recupero crediti, o semplicemente (non è poco) sfuggire alla tortura del 41 bis, mette chi ebbe a che fare con la mafia, volendo sapere o no di che cosa si trattasse, in una condizione insuperabile: se non in un tribunale, senz'altro nel proprio stato civile. Governare in questa condizione è un'impresa tremenda, suffragi o no: se non altro perché non si governa che per protrarre il momento della propria precipitazione, ciò che solo una monarchia assoluta può assicurare, e a condizione che i sudditi non si innamorino, con la volubilità che è loro, di un Ottantanove, o di un suo anniversario.

(30 novembre 2009)

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