L'inchiesta sulla fine di Stefano Cucchi riapre i dubbi sulla situazione di Milano. Dove tre fermati sono stati lasciati morire in questura. Senza aiuto Una manifestazione a Montecitorio contro la morta di Stefano Cucchi
Se le foto di Stefano Cucchi, morto in stato di arresto dopo sei giorni di agonia, fossero state pubblicate senza didascalia, si sarebbe potuto pensare ad una vittima del braccio violento di qualche regime dittatoriale lontano secoli culturali dal nostro mondo. Invece Stefano Cucchi è morto nonostante il ricovero all'ospedale Pertini di Roma dove, risulta evidente anche senza aspettare gli esiti dell'inchiesta, non gli sono state prestate le cure necessarie per salvargli la vita. La tragedia del piccolo spacciatore trentunenne è stata quella di restare imprigionato per troppo tempo nel limbo che divide il cittadino libero dal detenuto, rimpallato tra troppe competenze, ognuna senza responsabilità. La stessa zona grigia in cui a Milano, in soli 15 mesi, hanno perso la vita uno spacciatore marocchino, un pregiudicato italiano e un ladruncolo georgiano. Morti in quello che dovrebbe essere uno dei luoghi più sicuri d'Italia, le camere di sicurezza di una questura, a poche centinaia di metri da un grande ospedale. Tre decessi con tre spiegazioni ufficiali, su cui hanno indagato pubblici ministeri e medici legali, decidendo per tre decreti di archiviazione. Non tutte però sono state 'morti naturali'.
Georgi Bacrationi, georgiano clandestino di 25 anni, l'8 ottobre 2008 aveva rubato un lettore Mp3 dalla Feltrinelli di corso Buenos Aires e venne fermato dagli uomini dell'Unità operativa contro la criminalità diffusa (Uocd), la squadra celebrata dal film di Raoul Bova 'Sbirri'. Forse quegli 'sbirri' non avevano perquisito bene Georgi, o peggio, qualcun altro non aveva bonificato la camera di sicurezza nel sottosuolo della questura di via Fatebenefratelli. Fatto sta che il clandestino georgiano muore per overdose da metadone, così come recita il referto dell'autopsia.
All'udienza del processo per direttissima che si stava svolgendo in quelle ore a carico dei suoi due complici il cancelliere si presenta dal presidente con un fax appena ricevuto: poche righe per informare che 'Alle 10.15 il medico legale Claudia Locatelli ha constatato la morte, per probabili cause naturali, dell'imputato Georgi Bacatrioni'. Ma il pubblico ministero di turno, incaricato dell'indagine, Giulio Benedetti, scrupoloso fino alla pignoleria, trovandosi di fronte al terzo caso di decesso in quelle stesse celle, volle vederci chiaro. E fece prelevare ogni tipo di campione da quella stanzetta disadorna con la porta blindata, la branda e un lavandino. Trovandoci 'evidenti tracce di metadone'. Georgi Bacrationi, insomma, era morto di overdose dopo aver assunto la droga proprio in questura. Quanto basta per ipotizzare l'omicidio colposo. Ma la mancanza di un nesso provato tra la presenza dello stupefacente e la morte del georgiano, portarono all'archiviazione. Inevitabili le polemiche che divamparono per poi spegnersi in poche ore. Una morte per overdose, infatti, è relativamente lenta, ben riconoscibile e basta un'iniezione di Narcam effettuata da un paramedico per salvare la vita del tossicodipendente.
Il comunicato diramato dai vertici della questura era ricco fino all'assurdo dei dettagli su come Georgi e i suo due complici avevano rubato un lettore musicale; troppo pochi invece su come era morto. Nessuno, nella notte di quell'8 ottobre, si accorse di niente. Finché la mattina seguente, quando i poliziotti del turno successivo sono andati a prenderlo per portarlo alla direttissima, lo hanno trovato senza vita.
Stessa sorte toccata, il 4 settembre 2007, al pregiudicato sorvegliato speciale Antonio D'Apote, tossicodipendente di 49 anni. Fermato dalle Volanti in evidente stato di agitazione, probabilmente dovuta all'assunzione di droga, D'Apote venne portato in questura non senza difficoltà. I verbali di arresto parlano di 'resistenza e minacce a pubblico ufficiale', e di gravi atti di autolesionismo. Chi c'era quella sera racconta di un uomo scatenato, impossibile da trattenere con le buone, che sbatte più volte la testa contro il muro fino a procurarsi lividi e bernoccoli. Poi finalmente si calma. Per sempre.
Anche lui, la mattina dopo l'arresto, viene scoperto cadavere dagli uomini della questura che lo dovevano condurre al processo per direttissima. Alle 6.15 viene chiamato una prima volta per firmare dei verbali. Ma non risponde. Poi un secondo appello, finché al terzo silenzio l'agente di guardia si decide ad andare a vedere e lo trova steso per terra cianotico e rantolante. La chiamata al 118 è stata registrata alle 6.35. Ma all'arrivo dell'ambulanza D'Apote era già morto.
Il pubblico ministero Laura Pedio non volle che i poliziotti partecipassero all'autopsia. Il referto parla di 'decesso per infarto del miocardio' e probabili cause naturali e il caso fu archiviato. D'Apote i poliziotti lo conoscevano bene. Piccolo criminale del Corvetto, quartiere problematico a sud di Milano, era già stato arrestato nel '92 perché, grazie alla complicità di alcuni secondini di San Vittore, riusciva a fare entrare grandi quantità di droga in carcere, dove i fratelli, già detenuti, provvedevano a spacciarla con grossi profitti. Gli stessi fratelli, malati, disoccupati e pregiudicati, che, 15 anni dopo, avevano ancora fin troppi motivi per non voler chiedere un'inchiesta vera e propria sulla morte di Antonio, pur sapendo che da un infarto, se si interviene in tempo, ci si può salvare.
Anche in questo caso, in consiglio comunale, ci fu chi propose di dotare la questura di un'infermeria o di piazzare delle telecamere a circuito chiuso nelle celle. Proposte fatte rispettivamente dal centrodestra e dal centrosinistra, e subito dimenticate. Entrambi i provvedimenti furono scartati, anche per il rispetto della privacy del fermato. D'altronde, si affrettò a spiegare il questore, quelle celle erano state ristrutturate da poco e ognuna aveva un campanello con cui chiamare il piantone di turno. Ma né Georgi Bacrationi né Antonio D'Apote seppero o vollero premere quel bottone.
Come non riuscì a fare Mohammed Darid, marocchino clandestino di 32 anni, fermato dagli agenti della Polizia Ferroviaria il 10 luglio 2007 mentre spacciava alla stazione centrale. Dopo un breve passaggio negli stessi uffici della polizia giudiziaria dove Giuseppe Turrisi, clochard di 58 anni, il 6 settembre 2008 sarà massacrato di botte e ucciso da due poliziotti ora agli arresti in attesa della sentenza. Darid viene portato in questura. Nei mille verbali che hanno accompagnato le sue ultime ore di vita (di arresto, di perquisizione, di sequestro di droga, di accompagnamento in questura, di presa in consegna dalla questura) non compare alcun cenno a eventuali ferite, lesioni o malesseri del marocchino. Che però viene trovato morto alle 6 del mattino, ancora una volta quando i poliziotti lo vanno a carcere per portarlo alle direttissime in tribunale. Come per gli altri casi, l'autopsia stabilì che non c'erano segni di violenza sul corpo e che la morte era stata causata da un arresto cardiocircolatorio. I parenti, che vivono a Casablanca, sono stati informati molti giorni dopo il decesso e anche loro, tanto lontani da via Fatebenefratelli, non hanno presentato alcuna richiesta di indagine ulteriore. Le disposizioni della Procura di Milano prevedono da anni che i fermati, circa trenta al giorno, che presentino segni di malattia o che dichiarino di soffrire di patologie incompatibili con la detenzione in una cella di sicurezza, vengano dirottati, pur in attesa del processo per direttissima, all'infermeria del carcere di San Vittore. Se così fosse stato anche per Bacrationi, D'Apote e Darid, forse sarebbero ancora vivi.
(06 novembre 2009)
Georgi Bacrationi, georgiano clandestino di 25 anni, l'8 ottobre 2008 aveva rubato un lettore Mp3 dalla Feltrinelli di corso Buenos Aires e venne fermato dagli uomini dell'Unità operativa contro la criminalità diffusa (Uocd), la squadra celebrata dal film di Raoul Bova 'Sbirri'. Forse quegli 'sbirri' non avevano perquisito bene Georgi, o peggio, qualcun altro non aveva bonificato la camera di sicurezza nel sottosuolo della questura di via Fatebenefratelli. Fatto sta che il clandestino georgiano muore per overdose da metadone, così come recita il referto dell'autopsia.
All'udienza del processo per direttissima che si stava svolgendo in quelle ore a carico dei suoi due complici il cancelliere si presenta dal presidente con un fax appena ricevuto: poche righe per informare che 'Alle 10.15 il medico legale Claudia Locatelli ha constatato la morte, per probabili cause naturali, dell'imputato Georgi Bacatrioni'. Ma il pubblico ministero di turno, incaricato dell'indagine, Giulio Benedetti, scrupoloso fino alla pignoleria, trovandosi di fronte al terzo caso di decesso in quelle stesse celle, volle vederci chiaro. E fece prelevare ogni tipo di campione da quella stanzetta disadorna con la porta blindata, la branda e un lavandino. Trovandoci 'evidenti tracce di metadone'. Georgi Bacrationi, insomma, era morto di overdose dopo aver assunto la droga proprio in questura. Quanto basta per ipotizzare l'omicidio colposo. Ma la mancanza di un nesso provato tra la presenza dello stupefacente e la morte del georgiano, portarono all'archiviazione. Inevitabili le polemiche che divamparono per poi spegnersi in poche ore. Una morte per overdose, infatti, è relativamente lenta, ben riconoscibile e basta un'iniezione di Narcam effettuata da un paramedico per salvare la vita del tossicodipendente.
Il comunicato diramato dai vertici della questura era ricco fino all'assurdo dei dettagli su come Georgi e i suo due complici avevano rubato un lettore musicale; troppo pochi invece su come era morto. Nessuno, nella notte di quell'8 ottobre, si accorse di niente. Finché la mattina seguente, quando i poliziotti del turno successivo sono andati a prenderlo per portarlo alla direttissima, lo hanno trovato senza vita.
Stessa sorte toccata, il 4 settembre 2007, al pregiudicato sorvegliato speciale Antonio D'Apote, tossicodipendente di 49 anni. Fermato dalle Volanti in evidente stato di agitazione, probabilmente dovuta all'assunzione di droga, D'Apote venne portato in questura non senza difficoltà. I verbali di arresto parlano di 'resistenza e minacce a pubblico ufficiale', e di gravi atti di autolesionismo. Chi c'era quella sera racconta di un uomo scatenato, impossibile da trattenere con le buone, che sbatte più volte la testa contro il muro fino a procurarsi lividi e bernoccoli. Poi finalmente si calma. Per sempre.
Anche lui, la mattina dopo l'arresto, viene scoperto cadavere dagli uomini della questura che lo dovevano condurre al processo per direttissima. Alle 6.15 viene chiamato una prima volta per firmare dei verbali. Ma non risponde. Poi un secondo appello, finché al terzo silenzio l'agente di guardia si decide ad andare a vedere e lo trova steso per terra cianotico e rantolante. La chiamata al 118 è stata registrata alle 6.35. Ma all'arrivo dell'ambulanza D'Apote era già morto.
Il pubblico ministero Laura Pedio non volle che i poliziotti partecipassero all'autopsia. Il referto parla di 'decesso per infarto del miocardio' e probabili cause naturali e il caso fu archiviato. D'Apote i poliziotti lo conoscevano bene. Piccolo criminale del Corvetto, quartiere problematico a sud di Milano, era già stato arrestato nel '92 perché, grazie alla complicità di alcuni secondini di San Vittore, riusciva a fare entrare grandi quantità di droga in carcere, dove i fratelli, già detenuti, provvedevano a spacciarla con grossi profitti. Gli stessi fratelli, malati, disoccupati e pregiudicati, che, 15 anni dopo, avevano ancora fin troppi motivi per non voler chiedere un'inchiesta vera e propria sulla morte di Antonio, pur sapendo che da un infarto, se si interviene in tempo, ci si può salvare.
Anche in questo caso, in consiglio comunale, ci fu chi propose di dotare la questura di un'infermeria o di piazzare delle telecamere a circuito chiuso nelle celle. Proposte fatte rispettivamente dal centrodestra e dal centrosinistra, e subito dimenticate. Entrambi i provvedimenti furono scartati, anche per il rispetto della privacy del fermato. D'altronde, si affrettò a spiegare il questore, quelle celle erano state ristrutturate da poco e ognuna aveva un campanello con cui chiamare il piantone di turno. Ma né Georgi Bacrationi né Antonio D'Apote seppero o vollero premere quel bottone.
Come non riuscì a fare Mohammed Darid, marocchino clandestino di 32 anni, fermato dagli agenti della Polizia Ferroviaria il 10 luglio 2007 mentre spacciava alla stazione centrale. Dopo un breve passaggio negli stessi uffici della polizia giudiziaria dove Giuseppe Turrisi, clochard di 58 anni, il 6 settembre 2008 sarà massacrato di botte e ucciso da due poliziotti ora agli arresti in attesa della sentenza. Darid viene portato in questura. Nei mille verbali che hanno accompagnato le sue ultime ore di vita (di arresto, di perquisizione, di sequestro di droga, di accompagnamento in questura, di presa in consegna dalla questura) non compare alcun cenno a eventuali ferite, lesioni o malesseri del marocchino. Che però viene trovato morto alle 6 del mattino, ancora una volta quando i poliziotti lo vanno a carcere per portarlo alle direttissime in tribunale. Come per gli altri casi, l'autopsia stabilì che non c'erano segni di violenza sul corpo e che la morte era stata causata da un arresto cardiocircolatorio. I parenti, che vivono a Casablanca, sono stati informati molti giorni dopo il decesso e anche loro, tanto lontani da via Fatebenefratelli, non hanno presentato alcuna richiesta di indagine ulteriore. Le disposizioni della Procura di Milano prevedono da anni che i fermati, circa trenta al giorno, che presentino segni di malattia o che dichiarino di soffrire di patologie incompatibili con la detenzione in una cella di sicurezza, vengano dirottati, pur in attesa del processo per direttissima, all'infermeria del carcere di San Vittore. Se così fosse stato anche per Bacrationi, D'Apote e Darid, forse sarebbero ancora vivi.
(06 novembre 2009)
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