mercoledì 25 novembre 2009

Dimenticato in banca il tesoretto del Compagno G


di EMILIO RANDACIO

Da diciassette anni, sul conto bancario intestato alla procura di Milano giacciono 400 milioni di vecchie lire dimenticati. Gli interessi li hanno fatti lievitare a 390.000 euro. Sono una piccola fetta delle tangenti che il vecchio pentapartito aveva riservato allo scomparso Pci-Pds, e smascherato dalle indagini di Mani pulite. Quei soldi, tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90, sono finiti al cassiere di Botteghe Oscure Primo Greganti, nel gioco della spartizione della torta degli appalti pubblici per la costruzione di centrali Enel. In questi anni, le sentenze hanno ricostruito così la storia. Ma per fare entrare i soldi del "compagno G", nelle disastrate casse dell'Erario, c'è un intoppo che ha messo al tappeto la già ingolfata macchina della pubblica amministrazione.

Per ricostruire questa storia bisogna tornare indietro. Esattamente al primo marzo del 1993, quando Greganti finisce in carcere per corruzione e il pool sequestra il denaro rimasto sul suo conto dal nome in codice "Gabbietta". Rimasto chiuso a San Vittore per quasi sei mesi, Greganti nega sempre con determinazione che il destinatario finale di una maxitangente complessiva da un miliardo e 200 milioni di lire siano le Botteghe Oscure. Nella sentenza, però, il suo ruolo e la causale di quel pagamento vengono così nitidamente definiti: "Fiduciario del Pci, pronto a mettere a disposizione i propri conti personali per esigenze illecite del partito". E nonostante la difesa dell'indagato, il pool di Mani Pulite non si intenerisce e, oltre a ottenere la condanna definitiva a tre anni di carcere dell'ex "Compagno G", fa immediatamente sequestrare quei 400 milioni di lire.

Da allora, quel denaro giace nella filiale della Bnl del Tribunale milanese. Nel frattempo la somma originaria ha maturato, anno dopo anno, gli interessi bancari fino ad raggiungere la cifra di 390 mila euro, quasi il doppio. Denaro immobile, fermo e quasi beffardamente intoccabile. Tutta colpa di una dimenticanza dei giudici d'appello che, nel motivare la sentenza, si sono scordati di decretare anche la confisca della cifra sequestrata. Ora, a diciassette anni di distanza, la procura dovrà porre rimedio alla svista. In termine tecnico, la mossa riparatoria passa per una procedura che il codice definisce burocraticamente con il nome di "incidente di esecuzione". Un atto formale già fissato per le prossime settimane, in cui le parti dovranno essere convocate per sancire la definitiva confisca. Solo allora, finalmente, quei 390mila euro diventeranno a titolo definitivo di proprietà dello Stato.

(25 novembre 2009)

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