ANNI DOPO ESSER STATI IN AFFARI CON IL SENATORE UNO DOPO L’ALTRO SONO FINITI IN CARCERE
di Peter Gomez e Marco Lillo
di Peter Gomez e Marco Lillo
La storia di Renato Schifani è spesso ridotta all'elenco dei suoi clienti. Si fa presto a dire: Schifani era l’avvocato dei mafiosi per poi sottolineare che Schifani non lo sapeva e che comunque era tutto legale. Il fatto è che il presidente del senato prima di approdare a Palazzo Madama nel 1996 non è stato solo un avvocato ma anche tante altre cose. Per esempio è stato titolare di quote in tre società. La prima è la Desio Immobiliare, una cooperativa nata nel 1976 che ha assegnato nel 1986 l’appartamento nel quale il politico ha risieduto fino a luglio scorso. La seconda è la Sicula Brokers, una compagnia assicurativa nata nel 1979 e la terza è la Gms, creata nel 1992 insieme a due amici per svolgere attività legale a Roma e rimasta inattiva. Nei prossimi giorni ci dedicheremo a Desio e Gms oggi vi raccontiano la storia della Sicula Brokers.
Scavando negli archivi si scopre che una decina di soci di queste vecchie società sono stati poi arrestati per le accuse più varie, dalla mafia alla bancarotta, dalla corruzione alla truffa. Ma non è questo il punto. Dietro ogni arresto (avvenuto sempre dopo l’ingresso dell’avvocato nella compagine) si apre uno spaccato rivelatore. Per chi coltiva il vizio della memoria è un esercizio prezioso. Se si può comprendere l’Italia di oggi solo guardando alle sue radici, così per scoprire chi è il nostro presidente del senato sarà interessante guardare da dove viene Renato Schifani.
Nato a Palermo, figlio di un dipendente dell’ufficio urbanistica, Antonino, 88 anni, Renato è uno studente brillante che si diploma nel 1968 al liceo scientifico Cannizzaro con la “pagella d'oro”. Mentre infuria la contestazione Schifani studia. Si laurea in giurisprudenza con 110 e lode sposa Francesca, dalla quale avrà due figli, Andrea e Roberto (al quale passerà lo studio) e dopo una breve esperienza in banca, entra giovanissimo a studio di Giuseppe La Loggia, il padre di Enrico, l’ex ministro degli affari regionali.
La Loggia padre nel 1956 è stato presidente della Regione Siciliana. Nel 1968 si candida ed entra in Parlamento insieme al genero Attilio Ruffini, ministro della difesa e prima ancora avvocato dei cugini Salvo, legati alla mafia e ricchissimi, che lo faranno eleggere con i loro voti. Quando Schifani entra a studio, La Loggia è presidente della Commissione Bilancio e la sua famiglia è potentissima. Grazie anche all’appoggio elettorale di galoppini come Nino Mandalà, poi arrestato come capomafia di Villabate e intercettato negli anni novanta mentre racconta di avere minacciato Enrico La Loggia di raccontare i trascorsi elettorali con il padre. La Sicula Broker nasce il 19 febbraio 1979 su impulso di papà La Loggia che fa entrare il figlio Enrico, il collaboratore Renato Schifani e i suoi galoppini e amici. Ma il vero socio forte è il più grande operatore italiano, il gruppo Taverna di Genova che ne detiene il 51 per cento e ha scelto i La Loggia per sbarcare in Sicilia, in un settore nel quale contano gli appoggi politici. Tra i soci siciliani ben quattro finiranno in seguito dietro le sbarre: Benni D’Agostino, Francesco Maniglia, Antonino Mandalà e Luciano De Lorenzo. Mentre un quinto, Giuseppe Lombardo, amministratore delle società dei cugini mafiosi Ignazio e Nino Salvo, sarà solo indagato con loro. La Sailem di Benni D’Agostino, la Ifis di Maniglia e Giuseppe Lombardo hanno il 10 ciascuno. La Loggia e Schifani, come gli altri piccoli soci hanno quote intorno al 4 per cento. Il consiglio è composto di nove membri: il presidente è Enrico La Loggia, il vicepresidente è Giuseppe Giudice, allora 26enne, figlio del comandante generale della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice. Ovviamente sarà arrestato anche lui. Tre volte. Ma andiamo per ordine. Il primo mandato di arresto (sempre per fatti che nulla hanno a che fare con la Sicula Brokers) è per Francesco Maniglia. Nell’autunno del 1979 è indagato per ricorso abusivo al credito poi la sua azienda fa crack e Maniglia si dà alla latitanza nel 1980. Maniglia era ricchissimo e frequentava il jet set, ma nel processo contro Vito Ciancimino si scoprirà che era socio del sindaco mafioso di Palermo già dagli anni sessanta. Il pentito Antonino Calderone racconterà che a Roma nei suoi uffici si incontravano i Calderone e il loro referente politico: Salvo Lima. Dopo Maniglia tocca al vicepresidente della sicula Brokers: Giuseppe Giudice, arrestato il 18 dicembre del 1980. Giudice è il figlio del generale delle Fiamme Gialle Raffaele, che era stato già arrestato per lo scandalo petroli. Negli atti di quel processo si scoprono alcuni dettagli utili per capire il contesto: il figlio era socio di un petroliere arrestato, mentre il padre (condannato definitivamente a 4 anni e morto nel 1994) era stato nominato comandante grazie alla sponsorizzazione di Giulio Andreotti (finanziato dai petrolieri) e di Salvo Lima, siciliano come lui. Quando il colonnello Giovanni Visicchio arrestò il boss Luciano Liggio nel 1976, il comandante Giudice lo apostrofò: “lei è un finanziere, la smetta di fare il carabiniere”. Giuseppe Giudice uscirà indenne dalle accuse ma sarà arrestato altre due volte, a Roma (estorsione tentata) e a Palermo, per bancarotta. Anche un altro ex socio di Schifani, l’avvocato Luciano De Lorenzo, aveva legami con il peggio della Dc. Anche lui scambiava assegni con Vito Ciancimino e anche lui figura nelle carte dell’inchiesta del giudice Falcone, che lo interrogò, senza indagarlo. Si rifarà nel 2007 quando sarà arrestato a Palermo per la bancarotta Finasi. Quisquilie rispetto al curriculum dei due soci davvero “pesanti”: Benni D’Agostino e Antonino Mandalà, legati a doppio filo ai “capi dei capi”. D’Agostino a Totò Riina, Mandalà a Provenzano.
Benni D’Agostino, dopo essere stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, grazie ai suoi legami con la mafia, si è pentito e ha raccontato: “mio padre mi presentò Michele Greco, (il papa della mafia) nel 1977. E mi disse che era una persona ‘intisa’ (cioé mafiosa ndr). Lo riincontrai nel 1979 o 1980 sul traghetto da Palermo a Napoli e mi trattò come un figlio raccontandomi dei suoi incontri con Andreotti”. Nel periodo in cui D’Agostino fonda la Sicula Brokers è così vicino al Papa che questi gli confida i suoi rapporti più segreti. Non basta. Negli anni novanta, Totò Riina è il socio occulto della società Reale, intestata all’ex socio di Schifani. Lo racconta il pentito Giovanni Brusca: “la Reale Costruzioni era all’epoca, controllata da Riina. Totò mi raccomanda questa impresa, intestata a D'Agostino, e ho capito successivamente il perché, quando mi disse: ‘l’impresa Reale, fai finta che è mia’”. D’Agostino ha raccontato: “con Salvo Lima facevamo una serie di lavori e poi quando c’era l’elezione e lui mi chiedeva per esempio cento milioni io li tiravo fuori”.
Non bisogna stupirsi se in questo ambientino troviamo Nino Mandalà. Fondatore del primo club di Forza Italia a Villabate e padre di Nicola, l’uomo che ha curato la latitanza di Bernardo Provenzano. Nino Mandalà, storico capomafia di Villabate, è stato condannato in primo grado a 8 anni molto tempo dopo la sua partecipazione con Schifani. Tutti i soci degli inizi dell’assicurazione (che esiste ancora e ha cambiato nome) sono usciti presto. Il loro è stato solo un fugace incrocio di destini.
Renato Schifani sulla Sicula Brokers ha spiegato la sua posizione ai magistrati di Firenze, quando ha querelato il pentito Francesco Campanella per le sue accuse. “Mandalà era incensurato fino al 1998 ed era un cliente ed elettore di Giuseppe La Loggia quando nel 1979 nasce la Sicula Brokers. Io ero solo un giovane avvocato dello studio e ho accettato di addivenire alla richiesta del presidente La Loggia di entrare nella società per una piccola quota del 4 per cento. Poi ho versato solo i tre decimi come risulta dai libri sociali. La Loggia padre chiamò a farne parte persone che allora erano di spicco, al di sopra di ogni sospetto. Come Benni D’Agostino e Giuseppe Lombardo. Io sono rimasto solo un anno e qualche mese. Ad aprile del 1980 ho detto a Giuseppe La Loggia che non volevo versare gli altri sette decimi e sono uscito. Anche Mandalà fino al 1997 non è stato attenzionato nemmeno dai Carabinieri, era talmente insospettabile che fu eletto al congresso provinciale di Forza Italia presideduto da Alfredo Biondi”. Il giudice per le indagini preliminari ha archiviato la sua querela ma sostanzialmente gli ha dato ragione: “Vero è che la qualifica di uomo d’onore prescinde dal formale riconoscimento che se ne ottiene con il suffragio giudiziario. Ma è altrettanto vero però che una mera frequentazione professionale discendente da affari di natura civilistica quelli di cui si occupava in via esclusiva l’avvocato Schifani, non impone certo l’onere per il professionista dì recidere i predetti rapporti per via del sospetto (ammesso che tale fosse) di illecite condotte dal proprìo assistito in tutt’altri contesti consumate e sfociate peraltro solo anni dopo, in procedimenti penali”.
Una conclusione opinabile. E che comunque non vale per un politico. Anche perché dopo avere scoperto in quale ginepraio lo avevano cacciato i La Loggia, Schifani non ha certo preso le distanze da loro. Anzi. Grazie a Enrico La Loggia l’avvocato Schifani (certamente bravo ma raccomandato) ha ottenuto nel 1994 una consulenza da 60 milioni di vecchie lire dal comune di Villabate, retto da una giunta vicina al solito Nino Mandalà (che se ne prendeva il merito mentre era intercettato). E, sempre grazie a La Loggia, Renato Schifani è entrato nel partito che gli ha cambiato la vita. Sarà vero, come dice il gip che agli avvocati può capitare di difendere clienti che poi si rivelano mafiosi. Sarà vero che può capitare di farci affari insieme. Ma viene un giorno in cui si deve scegliere. Si può tagliare i ponti con chi ti ha messo in queste situazioni imbarazzanti. Oppure si può continuare a far finta di niente. Schifani ha scelto la seconda strada. E oggi è presidente del senato.
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