lunedì 2 novembre 2009

Intervista a Guido Calvi: "Tossicodipendenti, immigrati, le nostre carceri scoppiano"


di Toni Jop


Stefano Cucchi è morto “per caso” in cella; ma Diana Blefari Melazzi si è certamente suicidata. Modi diversi per dire addio alla vita nel suggestivo scenario delle carceri italiane, anzi, in questi due casi, romane. Qualunque cosa sia successa a Stefano per metterlo in quelle terribili condizioni, l’atrocità della sua morte ha comunque riportato a galla un problema e una consuetudine antichi: la violenza, omologabile alla tortura, che si consuma ancora tra le maglie del nostro sistema di sicurezza con perseveranza endemica. L’Europa ha obiettato al nostro dispositivo carcerario che la tortura esiste già nel costringere i detenuti in spazi pro capite inferiori ai tre metri quadri. Ne parliamo con Guido Calvi, uno dei più bravi e impegnati penalisti d’Italia.
Che accade? La cronaca non ci aiutano a ricordare che in questa terra è stata cancellata dall’ordinamento giuridico la pena di morte. Nelle nostre celle si muore troppo facilmente…
«Veramente il nostro Paese è anche quello che nell’articolo 27 della sua Carta costituzionale prevede, riferendosi alla pena, la rieducazione e la reintroduzione di chi ha sbagliato nella società civile. Tanti altri paesi non hanno inteso dare al trattamento della pena un senso così elevato e profondamente umano…»
Tanto peggio, allora. Cos’è che ci spinge indietro con tanta brutalità?
«Partiamo da un dato: il sovraffollamento. E ogni mese questa popolazione aumenta di mille nuove unità. Siamo del tutto fuori norma e chi afferma che la soluzione è aumentare “i posti letto” non capisce la radice del problema. Ma ecco altri elementi utili: quest’anno si sono tolti la vita tre agenti della polizia penitenziaria. Questo, mentre sempre nel 2009 si registra un incremento di 20 casi di suicidio tra i detenuti. Per restare ad ottobre, otto detenuti sono morti in cella, di cui tre suicidi, tre per malore e due per cause non ancora accertate, tra cui anche il povero Stefano Cucchi. Siamo di fronte a una tragedia immensa che accomuna detenuti e personale carcerario. Una "defaillance" di sistema e non è una banale questione di cubature…»
Arriviamo alla radice, se esiste…
«Mi aiuto ancora con delle quantità. Un terzo degli ospiti delle nostre carceri sono tossicodipendenti, un terzo extracomunitari, un terzo, infine, sono dentro per reati comuni. A parte il fatto che da questo elemento si può prendere atto di come sia praticamente impossibile per un colletto bianco finire in prigione, e la gente lo sa, ecco che sotto questa luce si possono prendere in considerazione le responsabilità di due leggi ad hoc, quella, appunto, sulle tossicodipendenze e quella sulla clandestinità. Queste sono le chiavi principali della situazione che stiamo cercando di affrontare. Se decidiamo che un ragazzo come Stefano Cucchi può finire in prigione in quelle condizioni, se vogliamo punire con il carcere l’extracomunitario che non ha documenti regolari, non possiamo allargare la cubatura delle prigioni per risolvere il problema, le celle non basteranno mai».
Depenalizzare è la via d’uscita?
«Operare attraverso altri strumenti restrittivi, il carcere deve restare la soluzione estrema. Che senso ha, anche sotto il profilo del dettato costituzionale, trattenere in cella migliaia di persone che si drogano? Sanzioni amministrative, allora, e interdizioni. Al medico che prescrive il doping per un ciclista, si può comminare la sospensione dall’esercizio della professione, per esempio».

02 novembre 2009

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