martedì 3 novembre 2009

IO, ALDA E MIO PADRE GIORGIO




Lietta, figlia di Giorgio Manganelli, rievoca l’amore tra lo scrittore e Alda Merini:“Una passione che poteva esprimersi soltanto attraverso la parola”
di Lietta Manganelli



Avevo poco più di due anni, vivevo ancora a Milano con i miei genitori, separati in casa ante litteram e, fra gli amici di mio padre, intellettuali e letterati, seri e poco inclini alle confidenze, notai una ragazza, quasi una ragazzina, bellissima, con un dolcissimo sorriso, Alda Merini. Lei che già allora amava i bambini e aveva un fortissimo istinto materno si fermava a giocare con me, mi prendeva sulle ginocchia e mi raccontava storie di lavandaie, servette e artigiani del suo amato Naviglio. Io abituata alla casa e all’ambiente borghese di via Vigoni, la ascoltavo rapita.
Capii che Alda era per mio padre qualcosa di più di un’amica in un modo che a distanza di moltissimi anni ci faceva ancora ridere di cuore. Io e mia madre incontrammo Alda all’ufficio postale, lei, un po’ balbettando, un po’ arrossendo si avvicinò a mia madre e le disse: “Signora mi sono innamorata di suo marito”, e si sentì rispondere: “Ma se lo prenda, benedetta, se lo prenda!”. E lei se lo prese.
Fra mio padre, giovane scrittore di belle speranze e di nessuna finanza e Alda, che iniziava a muovere i primi passi nella poesia, quella poesia che le permetteva di esprimere sentimenti e pensieri forse più grandi di lei, fu amore, fu complicità, fu passione. Manganelli leggeva i testi di Alda, la consigliava, la correggeva; di lui lei diceva: “E’ stato il mio mentore, ma lui parlava di poesia mentre io sognavo solo che mi abbracciasse. Ma Giorgio, timidissimo, preferiva parlare di poesia”. Ma Manganelli era sposato, aveva una figlia, anche se il matrimonio era solo di facciata ed era fallito quasi subito, e il sentimento per Alda lo metteva in crisi, non lo faceva sentire in pace con se stesso. Vorrei sottolineare una cosa: Alda non fu una sfasciafamiglie perché non c’era nulla da sfasciare, ma anzi riuscì a far sì che mio padre si sentisse compreso ed amato, e dio solo sa quanto ne avesse bisogno in quel periodo. In una simile situazione, con due sensibilità così esasperate era inevitabile che si aprisse una falla. Si amavamo, era indubbio, ma non riuscivano più a stare uno accanto all’altra senza farsi del male. Tentarono anche un’analisi insieme, ma non ne ebbero poi questo gran beneficio.
Manganelli dopo uno scontro, anche fisico, col padre di Alda, non dimentichiamo che lei era minorenne e a quei tempi non c’era molta tolleranza, lasciò precipitosamente Milano e si rifugiò a Roma. Forse cercò anche di cancellarla dalla sua vita, ma in realtà non ci riuscirà mai. Non è certo stracciando delle lettere che si annulla un amore e soprattutto una personalità come quella di Alda. Anche la fuga, anche l’imposizione. “Finché ci sono io non venire a Roma”, erano un gesto d’amore. Avrebbero continuato a ferirsi. Meglio mediare attraverso la poesia, meglio “leggersi” che “incontrarsi”. Continuerà a seguirla da lontano, scriverà la prefazione allo splendido e disperato “Diario di una diversa”, dimostrando una sensibilità forse anche anomala in uno scrittore che aveva fatto dell’ironia e del sarcasmo la sua arma migliore.
Sarà a lei, forse perché sapeva che anche lei aveva dei figli, che telefonerà in lacrime, dopo il nostro incontro dopo anni di buio e di silenzio. Avevo 17 anni quando mi presentai alla sua porta dopo un vuoto di 11 anni, e, rimasto solo, lui si attaccò al telefono, chiamò Alda e piangendo ripeteva: “Ho visto mia figlia, ho visto mia figlia”. Nessuno saprà mai cosa si dissero, certo è che all’incontro successivo mi chiese: “Ti ricordi Alda? Vorrebbe rivederti, se vuoi chiamala”. La chiamai. Da allora non ci siamo più perse. Ci vedevamo, ci sentivamo al telefono, lei mi raccontava del suo amore con mio padre, credo in realtà che non ne fosse mai “guarita”, con il suo fare tenero, scanzonato, spesso provocatorio. Mi chiamava in piena notte e mi diceva: “Scrivi” e mi dettava una poesia, versi trovati così, in una notte insonne quando tremendi fantasmi le impedivano di dormire.
Quante volte, in un lapsus che forse lapsus non era mi ha chiamato “Figlia”, quante volte abbiamo parlato di figli, lei delle sue, disperatamente amate, ma spesso lontane, io dei miei, come due amiche, o forse due sorelle.
Quante delle sue poesie, senza nulla togliere agli altri amici e, perché no, ad altri amori, parlano di mio padre, di quel Manganelli, conosciuto ed amato quando non era nessuno, anche se a lei, come mi ha confessato più volte, sembrava un Dio. “Sai – mi diceva – non ho mai capito cosa tuo padre trovasse in una ragazzetta come me…” e poi continuava, con un sorrisetto furbo: “Forse era perché ero tanto bella…”.
Quando mio padre morì, mi chiamò al telefono, era sconvolta, continuava a sostenere che mio padre era stato ucciso, riuscì a calmarla, parlammo a lungo, e poi mi accorsi che per consolare il suo dolore, per un attimo avevo dimenticato il mio.
Poi col tempo il dolore per la morte di mio padre si stemperò, ne parlavamo, era inevitabile, ma con dolcezza, senza angoscia. Mi dettò altre poesie che parlavano di lui e spesso anche di me, dove amore, affetto tenerezza e senso di abbandono confluivano senza scontrarsi. Come questa poesia, (in prima pagina, ndr) assolutamente inedita, che voglio regalare ai tutti coloro che sono in grado di capirla, per ricordare un amore, quello fra Alda e mio padre, che forse poteva esprimersi solo attraverso la parola, la poesia.
Quella poesia che per Alda è stata la vita stessa, l’unica disperata arma contro l’angoscia, quell’angoscia che sempre aveva accomunato Alda e mio padre, ma anche quella poesia che sola può far nascere “Fiori di eccelse pietre”.

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