mercoledì 25 novembre 2009

Par condicio fra guardie e ladri


di Marco Travaglio


Fra le crepe di un sistema in cedimento strutturale penetrano spifferi d’aria che scoperchiano altarini e fasci di luce che illuminano zone d’ombra rimaste finora inesplorate e inesplorabili. Si spiega così, non certo col complotto delle toghe o delle penne rosse, la valanga di rivelazioni sui legami fra cosche, malaffare e politica. Oggi il Fatto aggiunge due tasselli al mosaico insanguinato che inaugurò la Seconda Repubblica: il racconto della signora D’Alì sul ruolo di Messina Denaro e quello di Ciancimino jr. sui capitali misteriosi (si fa per dire) di Berlusconi.
Esistono due modi di reagire alla valanga delle rivelazioni di pentiti e testimoni.
Uno, largamente minoritario, è lasciar lavorare magistrati e giornalisti per scoprire tutta la verità (ci ha provato il deputato finiano Fabio Granata con una coraggiosa intervista alla Stampa, subito linciato dai Bondi e dai Mantovano).
L’altro, maggioritario anzi totalitario, è tentare di metterci un altro tappo con leggi salva-mafia tipo lo scudo fiscale o l’asta pubblica dei beni sequestrati mafiosi, e salva-collusi, tipo l’ammazzaprocessi, l’ammazzaintercettazioni, magari la depenalizzazione dell’associazione mafiosa o almeno del concorso esterno (idea del Foglio), i lodini dei soliti Casini.
Per non parlare dell’incredibile offerta di Bersani che, come un anno fa Veltroni digerì il lodo Alfano in cambio del ritiro della blocca processi, propone al premier ciò che lui vuole con la solita tecnica estorsiva: ritirare l’ammazza processi in cambio del “dialogo sulla giustizia”.
Finirà con una legge che ammazzerà solo i processi a Berlusconi e col Pd che canterà vittoria.
Una sola pentola resta senza coperchio: la libera informazione, ancora vigente su un paio di giornali e in un paio di programmi tv.
Se certe vergogne non si processano più, ma i giornalisti le raccontano ancora, i cittadini continuano a sapere: peggio la toppa del buco.
Ecco dunque le prossime “linee guida” dell’Agcom che impongono la par condicio fra notizie vere e notizie false: un lodo Alfano per congelare l’informazione, peraltro anticipato da conduttori particolarmente zelanti. Come Antonello Piroso, direttore dell’informazione (si fa per dire) di La7. Stava per essere sostituito dal turboforzista Vigorelli, ma ha sventato la minaccia dimostrando che non c’è bisogno di un Vigorelli per censurare in extremis un reportage di “Reality” sulla trattativa e le stragi del 1992-’93: basta un Piroso.
Ieri l’autrice del servizio, Silvia Resta, e la redazione di Reality sono stati insigniti del premio “Libera informazione” da Articolo21, in una conferenza stampa con la Fnsi e l’Ordine di Roma.
Ma l’inchiesta premiata non la vedrà nessuno.
Per Piroso, quando si parla di mafia, stragi e trattative, bisogna sentire Berlusconi anche se non è mai nominato: per competenza, a prescindere. Lui o Dell’Utri, che però non ha voluto parlare. Per Piroso il coraggioso, intervistare magistrati antimafia, Scotti, Mancino, Dalla Chiesa o peggio il fratello di Borsellino, riportare le frasi di Spatuzza e Ciancimino che sono su tutti i giornali del mondo, addirittura mostrare le lettere di Provenzano a Berlusconi, è “giornalismo militante”, “a tesi”, “unidirezionale”, “di parte”. E solidarizzare, come il Cdr del Tg1, con la collega censurata è “sovietismo”.
“Io resto qui perché sono Pirosoooo!”, strillava il nostro venerdì nel programma-ossimoro “Niente di personale”.
Piroso ha bisogno di riposo: lui tiene famiglia, anzi poltrona. In attesa che Vespa, convertito dal plastico di casa Cogne a quello di casa Brenda, trovi finalmente il plastico di casa Ciancimino, la par condicio fra mafia e antimafia ormai è passata.
Chi intervista l’antimafia è “di parte”.
Saviano prenda nota: la prossima volta che vorrà parlare del clan dei Casalesi, dovrà portarsi dietro Sandokan.
Non Kabir Bedi. Quell’altro.

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