Il presidente del Senato Schifani ha pubblicamente dichiarato che se la maggioranza non è compatta, si va a nuove elezioni. La stampa è unanime nel riconoscere il mandante delle affermazioni nel presidente del Consiglio.
Ma la Costituzione cosa dice?
Tre punti sono da correggere:
1) che lo scioglimento consegua automaticamente alle dimissioni del governo;
2) che il presidente del Consiglio possa deciderlo da solo;
3) che nel nostro sistema esista un rapporto diretto fra governo e popolo.
La maggioranza muove da una premessa sbagliata: che la Costituzione sia cambiata in seguito al mutamento del sistema elettorale che, se può influire sul modo di funzionamento della forma di governo, non può di certo modificarla. Occorre il procedimento dell’art.138 e, dunque, l’approvazione con la maggioranza dei due terzi; altrimenti può esser chiesto un referendum oppositivo, com’è avvenuto nel 2006.
1) Nel sistema parlamentare – che è tuttora il nostro – la crisi di governo non ha lo scioglimento come soluzione obbligata: la diversa idea, costituzionalmente da rifiutare, è sconfessata anche dalla prassi recente. Caduto il primo governo Berlusconi dopo il distacco della Lega, il presidente Scalfaro nominò un governo nuovo lasciando in vita la legislatura, e lo stesso avvenne alla caduta del primo governo Prodi. Lo scioglimento è l’estremo rimedio cui si ricorre quando il Parlamento non riesca a esprimere una maggioranza in grado di sostenere un qualsiasi governo. Non ci sono confini politici precostituiti: il governo si fa in Parlamento. Lo scioglimento avviene, di solito, fallito ogni tentativo di formare un governo che sia in grado di ottenere la fiducia delle Camere, quando sia dimostrato che non esiste altra soluzione. Era così nella cosiddetta Prima Repubblica (ricordo ad esempio i numerosi e persino inediti tentativi di risolvere la crisi esperiti dal presidente Pertini), è stato così anche di recente. Basta ricordare le travagliate vicende seguite alla caduta del primo governo Prodi che, dopo momenti di grande incertezza e il reincarico allo stesso Prodi, portò al governo D’Alema.
2) Per l’art. 88 della Costituzione il presidente della Repubblica può sciogliere le Camere sentiti i loro presidenti (il cui parere non è vincolante). Il governo non è menzionato, ma ciò non significa che sia del tutto estraneo alla decisione essendo richiesta la controfirma anche per il decreto di scioglimento come per tutti gli atti del capo dello Stato, pena l’invalidità (art.89). Secondo alcuni, in questo caso la controfirma non potrebbe essere negata trattandosi, eccezionalmente, di un potere esclusivo del presidente della Repubblica. Altri costituzionalisti invece (da Costantino Mortati, che fu membro dell’Assemblea Costituente, a Leopoldo Elia) ritengono che la decisione debba essere di entrambi, concependo lo scioglimento come atto ‘duale’ che richiede l’accordo. È anche la mia opinione. Del tutto fuori luogo pensare che il governo possa decidere da solo uno scioglimento, ma, trattandosi di un atto politico, pericoloso attribuirlo, anche contro la maggioranza, al solo capo dello Stato che interviene come organo di garanzia del funzionamento del sistema. Anche la maggioranza va difesa da eventuali gesti non giustificati del presidente. Per far comprendere meglio la questione, dirò soltanto che se n’è molto parlato durante la fantasiosa presidenza Cossiga. Quel che è certo e nessuno discute, è che il ruolo dominante sia del presidente della Repubblica al quale spetta il compito di valutare la situazione politica, e che, prima di sciogliere, deve constatare che non esistono altre soluzioni possibili. Senza il suo pieno accordo non si può procedere a nuove elezioni.
3) Spetta al presidente della Repubblica nominare il presidente del Consiglio e, “su proposta di questo, i ministri” (art.92). Il governo, entro dieci giorni, deve ottenere la fiducia delle Camere (art.94 ) altrimenti il capo dello Stato affida a un altro politico (previe consultazioni) la guida del governo. Se la fiducia viene meno, dopo un voto contrario il governo deve dimettersi. Non esiste, da noi, un’investitura popolare diretta; la previa indicazione del premier non cambia la Costituzione. È singolare che, mostrando tanto ossequio per la volontà popolare espressa nelle elezioni (che imporrebbe, in caso di dimissioni, lo scioglimento automatico), la maggioranza dimostri invece un disprezzo totale per il popolo stesso, riproponendo riforme contro le quali si è da poco espresso col referendum del 2006 volendo mantenere la forma parlamentare e rifiutando la pericolosa concentrazione di poteri nel primo ministro.
1) Nel sistema parlamentare – che è tuttora il nostro – la crisi di governo non ha lo scioglimento come soluzione obbligata: la diversa idea, costituzionalmente da rifiutare, è sconfessata anche dalla prassi recente. Caduto il primo governo Berlusconi dopo il distacco della Lega, il presidente Scalfaro nominò un governo nuovo lasciando in vita la legislatura, e lo stesso avvenne alla caduta del primo governo Prodi. Lo scioglimento è l’estremo rimedio cui si ricorre quando il Parlamento non riesca a esprimere una maggioranza in grado di sostenere un qualsiasi governo. Non ci sono confini politici precostituiti: il governo si fa in Parlamento. Lo scioglimento avviene, di solito, fallito ogni tentativo di formare un governo che sia in grado di ottenere la fiducia delle Camere, quando sia dimostrato che non esiste altra soluzione. Era così nella cosiddetta Prima Repubblica (ricordo ad esempio i numerosi e persino inediti tentativi di risolvere la crisi esperiti dal presidente Pertini), è stato così anche di recente. Basta ricordare le travagliate vicende seguite alla caduta del primo governo Prodi che, dopo momenti di grande incertezza e il reincarico allo stesso Prodi, portò al governo D’Alema.
2) Per l’art. 88 della Costituzione il presidente della Repubblica può sciogliere le Camere sentiti i loro presidenti (il cui parere non è vincolante). Il governo non è menzionato, ma ciò non significa che sia del tutto estraneo alla decisione essendo richiesta la controfirma anche per il decreto di scioglimento come per tutti gli atti del capo dello Stato, pena l’invalidità (art.89). Secondo alcuni, in questo caso la controfirma non potrebbe essere negata trattandosi, eccezionalmente, di un potere esclusivo del presidente della Repubblica. Altri costituzionalisti invece (da Costantino Mortati, che fu membro dell’Assemblea Costituente, a Leopoldo Elia) ritengono che la decisione debba essere di entrambi, concependo lo scioglimento come atto ‘duale’ che richiede l’accordo. È anche la mia opinione. Del tutto fuori luogo pensare che il governo possa decidere da solo uno scioglimento, ma, trattandosi di un atto politico, pericoloso attribuirlo, anche contro la maggioranza, al solo capo dello Stato che interviene come organo di garanzia del funzionamento del sistema. Anche la maggioranza va difesa da eventuali gesti non giustificati del presidente. Per far comprendere meglio la questione, dirò soltanto che se n’è molto parlato durante la fantasiosa presidenza Cossiga. Quel che è certo e nessuno discute, è che il ruolo dominante sia del presidente della Repubblica al quale spetta il compito di valutare la situazione politica, e che, prima di sciogliere, deve constatare che non esistono altre soluzioni possibili. Senza il suo pieno accordo non si può procedere a nuove elezioni.
3) Spetta al presidente della Repubblica nominare il presidente del Consiglio e, “su proposta di questo, i ministri” (art.92). Il governo, entro dieci giorni, deve ottenere la fiducia delle Camere (art.94 ) altrimenti il capo dello Stato affida a un altro politico (previe consultazioni) la guida del governo. Se la fiducia viene meno, dopo un voto contrario il governo deve dimettersi. Non esiste, da noi, un’investitura popolare diretta; la previa indicazione del premier non cambia la Costituzione. È singolare che, mostrando tanto ossequio per la volontà popolare espressa nelle elezioni (che imporrebbe, in caso di dimissioni, lo scioglimento automatico), la maggioranza dimostri invece un disprezzo totale per il popolo stesso, riproponendo riforme contro le quali si è da poco espresso col referendum del 2006 volendo mantenere la forma parlamentare e rifiutando la pericolosa concentrazione di poteri nel primo ministro.
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