martedì 3 novembre 2009

Un anno di Obama promosso con riserva


I CONSIGLIERI DELLA CASA BIANCA DANNO I VOTI AL PRESIDENTE
di Leo Sisti


Quattro novembre 2008-4 novembre 2009. È un anno esatto da quando Barack Obama è stato eletto 44° presidente degli Stati Uniti. Una vittoria schiacciante. Ma ora è tempo di bilanci, di analisi e giudizi, tra aspettative e risultati finora conseguiti, tra luci e ombre che si alternano. Occhio ai dossier allora, affrontati o ancora da affrontare. Tutti “pesanti”, da brivido: rilancio dell'economia; riforma sanitaria; clima; energia; Guantanano; Afghanistan-Pakistan-Al Qaeda; questione palestinese; rapporti con Iraq, Iran e Corea del Nord.
L'America sta uscendo dalla recessione grazie all'aumento del prodotto interno lordo del 3,5 per cento nel terzo trimestre, proclamano gongolanti da Washington. Dei quasi 800 miliardi di dollari annunciati a febbraio sotto la voce “pacchetto di stimolo”, o “stimulus package”, 159 miliardi sono stati investiti, anche se solo 25 spesi, senza comunque contare 100 miliardi di taglio delle tasse. Il che, fa sapere la Casa Bianca, ha permesso di creare o salvare 640 mila posti di lavoro. Però i repubblicani obiettano: “Il tasso di disoccupazione sfiora il 10 per cento. Ma Obama non aveva promesso lo scorso inverno che si sarebbe attestato sull'8 per cento?”.
Dei primi 24 mesi di “regno” obamiano Alex Castellanos, stratega e consulente politico proprio del partito repubblicano, firma delle campagne 2000-2004 di George Bush e Dick Cheney, è critico quasi benigno. E, a margine di un convegno su Barack Obama organizzato a fine ottobre dalla New York University nella sua filiale di Firenze, dichiara al “Fatto Quotidiano”: “Obama merita alcuni riconoscimenti: sta portando l'America verso lidi migliori, il paese è più amato di prima nel mondo, la sua immagine è cambiata. Inoltre Obama è riuscito ad attrarre alla politica nuove generazioni più giovani, parla del futuro con ottimismo, sa che gli Usa sono una nazione che guarda sempre avanti, non tollera le divisioni del passato”.
Stan Greenberg, già consulente dei democratici Bill Clinton e Al Gore, nonché di Nelson Mandela, Tony Blair e Francesco Rutelli, è drastico: “Il partito democratico deve dimostrare di essere in grado di gestire il denaro”. Ma Castellanos gli risponde: “Obama sta spendendo più di quello che i contribuenti si vedranno restituire”. Robert Shrum, ex manager delle campagne presidenziali di Al Gore nel 2000 e di John Kerry nel 2004, ghost writer di Jimmy Carter e Ted Kennedy, ora docente alla New York University, è tranciante: “Obama ha marcato uno straordinario primo anno. Il suo stimulus package è il più importante del mondo, l'economia è in netto miglioramento”.
Certo, il pacchetto di stimolo, la disoccupazione: tutte questioni delicate. Ma sanno tutti, a Washington, qual è il vero guanto di sfida di Obama in politica interna. È la riforma sanitaria, estendere a quei 50 milioni di americani che ancora ne sono privi, la copertura assicurativa pubblica. È, questa, la cosiddetta “opzione pubblica”, che vedrà nascere lo “Stato assicuratore”, a far tremare i polsi al presidente degli Stati Uniti. Per il precedente, storico, flop dell’esordio della prima amministrazione Clinton. Per la cifra del conto finale: se andrà bene, saranno mille miliardi di dollari in dieci anni. Per la battaglia al Congresso, dove alcuni democratici sono pronti a tradire i colori dell'asinello, il loro simbolo, per passare con i repubblicani, autori di durissimi attacchi al nuovo “stato socialista” di Obama. Finora qualche successo, ancora parziale, è stato raggiunto nelle commissioni preposte allo studio di questa rivoluzionaria riforma, definita in gergo la “salsiccia”. Ma non basta, sono ancora tanti gli scogli da superare. Eppure la fiducia non crolla. Mister Greenberg scommette: “La legge passerà entro la fine dell'anno”. E, come lui, anche Shrum: “Passerà”.
Stranamente, Guantanamo trova poco risalto nei media Usa. Obama, insediandosi alla Casa Bianca il 20 gennaio, aveva subito decretato due giorni dopo la chiusura, entro un anno, del carcere in terra cubana per i sospetti militanti di Al Qaeda e Taliban, là detenuti. Mancano appena tre mesi e molte sono le incognite. Sarà mantenuta la promessa? Ci sono tanti dubbi in proposito. Nel 2008 la Corte Suprema ha stabilito che spetta alle corti federali giudicare il destino dei prigionieri di Guantanamo annullando il regime di detenzione, se illegittimo. E così, su 200 cause da loro attualmente intentate, in 38 casi i tribunali hanno deciso che ben 26 hanno diritto alla liberazione.
L'altro guanto di sfida, in politica estera, Obama lo getta soprattutto sul fronte più caldo: l'Afghanistan, con tutto il suo carico di incertezze, dalle vittime degli attentati, civili e militari, soldati Usa in testa, e la dubbia tenuta del Governo di Kabul, in difficoltà per la controversa vittoria elettorale di Hamid Karzai dopo la rinuncia al ballottaggio di Abdullah Abdullah, che aveva accusato lo stesso Karzai di brogli. Obama vuole abbassare il numero delle nuove truppe, 40mila soldati, richiesto dai generali. Ha paura di cacciarsi in una storia senza fine, della vietnamizzazione del conflitto, uno spettro da evitare. Lo teme Alex Castellanos: “L'Afghanistan è un pantano”. Per lui tutti, democratici e repubblicani, commettono un errore, quello di puntare a “un Afghanistan stabile, una democrazia, ma probabilmente non è possibile. Obama è stato scelto per rimettere in ordine l'economia, non per mettere a fuoco il mondo”. Robert Shrum avverte, buttando lì un suo pensiero-bomba: “Parlare con i Talebani, per separarli da Al Qaeda. Imitare quel che è avvenuto in Iraq”. Dove gli americani hanno instaurato contatti con i sunniti, che poi si sono “svegliati” e hanno ridotto il legame con Al Qaeda. Questa vicenda l'abbiamo già vista nella storia. È l'applicazione di una strategia antica: “Divide et impera”.

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