mercoledì 9 dicembre 2009

B. E DELL’UTRI: QUEI SUMMIT CON I CAPIMAFIA


Non c’è soltanto l’ultimo super-pentito: nella sentenza di primo grado che condanna il cofondatore di Forza Italia, il sistema di relazioni tra il Cavaliere e Cosa Nostra
pagine a cura di Peter Gomez e Marco Travaglio


L’11 DICEMBRE 2004, dopo sette anni di processo, il Tribunale di Palermo condanna il senatore Marcello Dell’Utri a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa assieme all’amico Gaetano Cinà (6 anni per associazione mafiosa). La sentenza è emessa dalla Seconda sezione: presidente Leonardo Guarnotta, giudici estensori Gabriella Di Marco e Giuseppe Sgadari. Il 5 luglio 2005, i giudici depositano le motivazioni: la sentenza più pesante mai pronunciata da un tribunale su un parlamentare in carica.
Vertice Berlusconi-Bontate
Silvio Berlusconi, milanese, classe 1936, e Marcello Dell’Utri, palermitano, classe 1941, dicono di essersi conosciuti alla Facoltà di Legge dell’Università Statale di Milano nel 1961. Dell’Utri diventa il segretario di Berlusconi. Ma nel 1965 si trasferisce a Roma, dove dirige un centro sportivo dell’Opus Dei. E nel 1967 torna a Palermo, dove dirige l’Athletic Club Bacigalupo, squadra di calcio della borghesia palermitana, dove dice di aver conosciuto il giovane mafioso Vittorio Mangano, nonché Gaetano Cinà detto Tanino, titolare di una lavanderia e di un negozio di articoli sportivi nel quartiere Malaspina, considerato dai giudici un mafioso anche lui (è imparentato tramite la moglie con i capi della mafia dell’epoca: Stefano Bontate e Mimmo Teresi). Il tribunale descrive Mangano come un uomo di “particolare caratura criminale”, con una “fitta trama di rapporti con personaggi di spicco di Cosa Nostra operanti nel milanese”. E spiega che Mangano arriva ad Arcore per proteggere la famiglia Berlusconi dai sequestri di persona, allora frequentissimi. Lo raccontano decine di pentiti e lo conferma persino un testimone oculare: l’ex boss di Altofonte, Francesco Di Carlo, molto conosciuto negli ambienti della Palermo bene perché proprietario di celebri locali notturni: “Di Carlo ha riferito dei buoni rapporti di amicizia intrattenuti nel tempo con Cinà. [...] Tramite Cinà aveva avuto modo di conoscere Dell’Utri, presentatogli amichevolmente dal Cinà nei primi anni ‘70 in un bar vicino al negozio gestito dallo stesso Cinà [...] A breve distanza dalla sua presentazione a Dell’Utri, il collaborante aveva incontrato a Palermo il Cinà, mentre questi era in compagnia di Stefano Bontate e di Mimmo Teresi. Dovendo tutti recarsi a Milano nei giorni successivi, proposero di incontrarsi nella città lombarda e si diedero appuntamento negli uffici che Ugo Martello aveva in via Larga, nei pressi del Duomo di Milano. Dopo avere pranzato insieme in un ristorante, a Di Carlo venne proposto di accompagnarli a un incontro che avrebbero avuto di lì a poco con un industriale, tale Silvio Berlusconi, e con Dell’Utri. [...]”.
Ecco il racconto di quell’incontro dalla viva voce di Di Carlo: “A venirci incontro è stato proprio Dell’Utri e ci ha salutati. Una stretta di mano, con Tanino si è baciato, con gli altri si è baciato, con me no [...]. Con il Grado (il mafioso Nino Grado, ndr) che si conosceva bene hanno avuto battute di scherzo. Si è baciato anche con Stefano Bontate [...]. Dopo un quarto d’ora, è spuntato questo signore sui 30 anni e rotti, e hanno presentato il dottore Berlusconi a tutti... Certo non era quello di adesso senza capelli, aveva i capelli, era un castano chiaro, maglioncino a girocollo, una camicia sotto, un pantalone jeans, sportivo era comunque. [...] Tant’è che alla fine Cinà dice: “Stamattina... hanno fatto un’ora come le donne a truccarsi, a pitturarsi... Bontate e Teresi sembrava a chi dovevano incontrare, e quello è venuto in jeans e maglioncino!” [...]. Ci hanno offerto il caffè e quando arriva Berlusconi cominciano a parlare di cose più serie. Lavoro, ognuno che attività faceva. Teresi stava facendo due palazzi a Palermo: “Lei dottore sta facendo una città intera”. E lui: “Non c’è molta differenza... organizzare un’amministrazione, curarne due o curarne 20 [...]”. Berlusconi ha fatto 10-20 minuti di parlare, ci ha dato una lezione economica e amministrativa, perché aveva in costruzione una città 2, come chiamavano Milano 2”.
I giudici proseguono: “Durante l’incontro venne affrontato anche il discorso della ‘garanzia’ e Bontate rassicurò il suo interlocutore valorizzando la presenza al suo fianco di Dell’Utri e garantendo il prossimo invio di ‘qualcuno’”.
Di Carlo spiega:“A Milano succedevano un sacco di rapimenti, perché quando c’era Liggio fuori quello aveva intenzione di portarsi tutti i soldi del nord a Corleone [...]. Aveva ragione Berlusconi di essere preoccupato [...]. Hanno detto che lui aveva dei bambini, dei familiari, che non stava tranquillo, avrebbe voluto una garanzia [...]. Berlusconi ha detto a Stefano: “Marcello m’ha detto che lei può garantirmi questo e altro”. Allora Stefano ha detto: “Lei può stare tranquillo: se dico io può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, lei avrà persone molto vicine che qualsiasi cosa lei chiede avrà fatto e lei [...] rassicurandolo. Poi c’ha un Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello […] perché Marcello è molto vicino a noialtri” [...]. Noi di Cosa Nostra prima minacciavamo e poi ci andavamo a fare la garanzia, era una cosa normale in Cosa Nostra, altrimenti che bisogno ha uno di chiedere?
Dunque ci fu – scrivono i giudici – “una richiesta di protezione al Bontate”. Ma Bontate fece una “proposta a Berlusconi, a conferma delle aspettative che il capo di Cosa Nostra riponeva in questo primo contatto”.
Di Carlo: “Bontate ci ha detto (a Berlusconi, ndr): “Ma perché non viene a costruire a Palermo, in Sicilia?”.
Pm: Che cosa venne risposto?
Di Carlo: Con una battuta, un sorriso sornione: “Ma come, debbo venire proprio in Sicilia? Ma come, qua i meridionali e i siciliani ho problemi qua, e debbo venire...?”. E Stefano ci ha detto: “Ma lei è il padrone quando viene là, siamo a disposizione per qualsiasi cosa”. Berlusconi anche lui alla fine ci ha detto che era a disposizione per qualsiasi cosa: lo dicevano a Marcello [...]. Bontate ebbe una buonissima impressione”.
Nelle mani della mafia
Quel che accade subito dopo lo ricostruisce il Tribunale, definendo il racconto di Di Carlo “nitido, preciso e pienamente compatibile col resto delle emergenze processuali”: Una volta usciti dagli uffici, [...] Cinà si era rivolto a Teresi e a Bontate e, facendo riferimento alla persona che avrebbe potuto essere mandata ad Arcore, fece il nome di Mangano Vittorio, conosciuto da Di Carlo come uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, in quegli anni aggregata al mandamento di Stefano Bontate. [...] Di Carlo ha riferito che il Cinà, rispondendo a una sua domanda, “mi ha detto che c’era Vittorio Mangano […] Mangano a Milano trafficava e nello stesso tempo si faceva la figura che Berlusconi aveva qualcuno vicino di Cosa Nostra e Stefano l’aveva vicino” [...]. Di Carlo ha riferito che, in seguito e in relazione a questo incontro milanese, Cinà gli aveva manifestato il suo imbarazzo perché gli era stato detto di chiedere 100 milioni (a Berlusconi, ndr). [...] Intorno al 1977-78 Cinà aveva chiesto il suo interessamento in quanto Dell’Utri si era nuovamente rivolto a lui per il problema relativo all’installazione delle antenne per la diffusione del segnale televisivo [...]. Anche in quel caso le somme corrisposte a Cosa Nostra erano a titolo di garanzia.
Che Di Carlo dica la verità “in merito all’incontro milanese tra Bontate e Berlusconi”, per i giudici lo dimostrano le dichiarazioni di altri collaboratori: Antonino Galliano, Salvatore Cucuzza, Francesco Scrima e Francesco La Marca. E poi il misterioso finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda, legato a mafiosi dell’entourage di Bontate e di Ciancimino, amico, futuro datore di lavoro e socio di Dell’Utri, salvo poi diventarne – a corrente alternata – il grande accusatore sul riciclaggio del denaro dei siciliani. Un “rapporto di amore-odio”, il loro, per dirla con Dell’Utri. Le conclusioni dei giudici sul “patto con il diavolo” stipulato fra i vertici di Cosa Nostra e il duo Berlusconi-Dell’Utri nel 1974 sono lapidarie: “Tutte le considerazioni che precedono non lasciano residuare alcun dubbio circa la ‘mediazione’ concretamente svolta dagli odierni imputati i quali, costituendo uno specifico canale di collegamento tra l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra (nella persona del suo più importante esponente dell’epoca, Stefano Bontate) e l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi (in evidente e rapida ascesa sulla scena economica di quella ricca regione) hanno con ciò posto in essere una condotta idonea a costituire un consapevole e valido apporto al consolidamento e rafforzamento del sodalizio mafioso, sempre pronto a cercare nuovi canali attraverso i quali riciclare gli (già allora) imponenti introiti ricavati dalle attività illecite gestite ma anche, e piú semplicemente, nuove fonti di guadagno attraverso la imposizione di indebite esazioni, con la conseguente configurabilità a carico di entrambi gli imputati del reato associativo”.
Il sequestro D’Angerio
Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 1974, al termine di una cena nella villa di Arcore con Berlusconi, Dell’Utri, Confalonieri, Mangano e altri invitati, Luigi d’Angerio sedicente “principe di Sant’Agata” viene sequestrato da un gruppo di delinquenti. Ma la loro auto, a causa della nebbia, ha un incidente e l’ostaggio riesce a fuggire. Sul luogo dello scontro i carabinieri ritrovano la carta d’identità del boss Pietro Vernengo. Scrivono i giudici: “L’episodio [...] offre uno spaccato autentico della vita all’interno della villa di Arcore nel periodo in cui vi risiedeva il Mangano. In particolare viene confermata la presenza a tavola dello stesso Mangano, ammesso tra gli invitati di rango della villa (viene ricordata più volte la presenza di Marcello Dell’Utri e di Fedele Confalonieri, entrambi amici e collaboratori del padrone di casa, di un industriale nel campo delle piastrelle e anche di una nobildonna imparentata con i Savoia). L’accertata presenza del Mangano a quella cena consente di qualificare, una volta per tutte, il particolare rapporto che si era venuto a instaurare tra Dell’Utri e Berlusconi e il Mangano e di individuare il ruolo che allo stesso era stato riconosciuto, non già quello di un semplice dipendente, addetto ai cavalli, ma di una persona di rispetto, trattata alla pari degli altri invitati, quale non poteva non essere ‘il rappresentante di Cosa Nostra’ ad Arcore”.
Secondo i giudici, Mangano ebbe “inequivocamente un ruolo attivo nell’organizzazione del sequestro”, insieme con Pietro Vernengo, Pietro Mafara, Nino Grado. Infatti aveva confidato a Salvatore Cucuzza che “l’incarico di ‘fattore’ a lui attribuito era solo apparente (un paravento) e […] in seguito a questo episodio i rapporti con Berlusconi si erano incrinati perché quest’ultimo aveva capito che il regista del sequestro era Mangano. Nonostante ciò, Berlusconi non aveva denunciato Mangano agli inquirenti: si era limitato a fargli intendere che aveva compreso il ruolo da lui avuto ed era stato poi lo stesso Mangano a decidere di andarsene [...]. A un volontario allontanamento del Mangano da Arcore ha fatto riferimento lo stesso Mangano, nel periodo immediatamente successivo alla sua scarcerazione del gennaio ‘75 e alla sua decisione di andare via da Arcore, seguita alla diffusione delle notizie di stampa secondo cui era stato assunto in quanto mafioso per fare da guardaspalle a Berlusconi: “E allora, Confalonieri mi chiama e dice: ‘Che, Vittorio?’. Ci ho detto: ‘Ho pensato di ritornarmene a Palermo, sa forse l’aria non ci giova ai miei figli, li vedo un po’ palliducci’. Dice: ’Ma lei si preoccupa dei giornali che attaccano?... Se ne fotte, per noi non ci sono problemi’. Ci dissi: ‘Dottore, io lo ringrazio delle sue bontà e di quello che mi sta dicendo, però io per guardarci la faccia, l’immagine e la dignità a Berlusconi, che lo voglio bene finora, fino a oggi, io me ne vado. Cosí i giornali ci danno un taglio’ [...] Nessuno mi ha mandato via. Questa è la verità, a livello Vangelo, quel che ho detto ora...”.
Confalonieri conferma: “Mangano andò in prigione, credo durante l’inverno fra il ’74 e il ’75, e poi se ne andò perché non voleva mettere in difficoltà la famiglia”.
Berlusconi invece è più vago: “Non ricordo come il rapporto lavorativo del Mangano cessò, se cioè per il prelevamento delle forze dell’ordine o per suo spontaneo al-
Perché Mangano ha fatto sequestrare D’Angerio? I giudici non hanno dubbi: “E’ facile immaginare come il Mangano sarebbe ‘cresciuto’ di importanza agli occhi di Silvio Berlusconi e quali vantaggi avrebbe potuto trarne (e, con lui, l’intera organizzazione criminale Cosa Nostra) nel caso in cui il sequestro fosse andato a buon fine e lo stesso Mangano avesse potuto gestirlo garantendo in prima persona la salvezza dell’ostaggio e il buon esito delle trattative per il riscatto. [...] Questo episodio era destinato a inserirsi in una più complessa strategia destinata ad avvicinare e legare maggiormente l’imprenditore Berlusconi all’organizzazione criminale, secondo un disegno al quale non appaiono affatto estranei i vertici di quel sodalizio, e in particolare lo stesso Bontate”.
Non è chiaro quando Mangano se ne vada davvero dalla villa di Arcore. Sicuramente fa le valigie molto tempo dopo il sequestro anche se: “È certo che l’allontanamento avvenne in modo indolore per decisione (autonoma o suggerita da Dell’Utri) presa da Berlusconi, il quale continuò a ospitare presso la propria villa la famiglia del Mangano e non risulta che abbia in alcun modo indirizzato i sospetti degli investigatori sul suo “fattore”, conservando ancora a distanza di molti anni le grate parole del Mangano. [...] Dell’Utri non ha mai interrotto i rapporti con il Mangano, pur essendo ben consapevole, alla luce delle sue stesse ammissioni, della caratura criminale del personaggio”.
Prima bomba in via Rovani
Il 26 maggio 1975 esplode una bomba nella villa berlusconiana di via Rovani 2, nel centro di Milano, provocando gravi danni. La denuncia la presenta un prestanome del Cavaliere, Walter Donati. Nessuno, sul momento, collega la villa al vero proprietario della Fininvest: Silvio Berlusconi, che pure in quel periodo – scrivono i giudici – aveva ricevuto “una richiesta estorsiva accompagnata dalla minaccia di sequestro del figlio, collegata all’attentato”, ma non l’aveva denunciata. Così le indagini non approdano a nulla, almeno fino al 28 novembre 1986, quando gli inquirenti milanesi intercettano per caso (nell’ambito di un processo per bancarotta a carico di Dell’Utri) una telefonata fra Berlusconi, Confalonieri da un capo del telefono, e Dell’Utri dall’altro: quella sera il palazzotto di via Rovani ha subìto un altro attentato. I tre interlocutori, parlandone a caldo, rievocano la bomba del 1975, attribuendo anche quella a Mangano. Insomma, già nel 1975, “malgrado non si nutrissero dubbi in merito al responsabile (Mangano, ndr), nessuna utile indicazione all’epoca era stata offerta agli investigatori; ma, al contrario, si era deciso addirittura di non denunciare direttamente l’attentato. In questa sede, il teste Confalonieri, pur confermando le minacce di sequestro ricevute non più tardi del 1976 (“...Io ricordo una lettera con... delle lettere dei ritagli di giornale e una croce in fondo...”) e malgrado il tenore letterale della conversazione intercettata, ha negato che fossero state fatte ipotesi sui possibili responsabili (“...venne fatta qualche ipotesi? Si fece l’ipotesi di scappare”), giungendo finanche a negare un precedente attentato dinamitardo. Secondo il teste Confalonieri, sarà proprio in concomitanza con queste minacce, subito dopo l’allontanamento di Mangano, che Berlusconi, dopo essersi rifugiato all’estero per alcuni mesi con la sua famiglia, si era premunito con un adeguato sistema di difesa privata. Quanto sopra dimostra, ancora una volta, che, prima di quel momento, Silvio Berlusconi aveva ritenuto che la protezione della sua famiglia potesse essere adeguatamente garantita e assicurata dalla sola presenza di Mangano a villa Arcore”.
Il compleanno del boss
Dell’Utri continua a frequentare Mangano “anche dopo l’allontanamento di questi da Arcore”. Il boss catanese pentito Antonino Calderone racconta che il 24 ottobre 1976, giorno del suo 41° compleanno, pranzò al ristorante milanese “Le colline pistoiesi” con Nino Grado, Mangano e Dell’Utri: “Dell’Utri Marcello, me l’hanno presentato, lui (Mangano) mi diceva che era il suo principale. [...] Io e Nino Grado eravamo lì al ristorante e sono entrati Mangano e questo signore, era vestito molto elegante, con ricercatezza, e Nino Grado si è alzato per andarlo a salutare, a ossequiare [...] con molta deferenza”.
Dichiarazioni riscontrate da varie prove, comprese le ammissioni dello stesso Dell’Utri: “L’episodio riferito dal Calderone è vero. [...] Io frequentavo abitualmente questo ristorante, e ho avuto talvolta occasione di pranzare con il Mangano inperiodo successivo all’allontanamento di quest’ultimo dalla villa di Arcore. Invero, come ho già spiegato, proprio perché mi ero reso conto della personalità del Mangano, pur dopo il suo allontanamento da Arcore, avevo un certo timore nei suoi confronti, e quando lo incontravo non lo respingevo, ma accettavo la sua compagnia. È chiaro che nella circostanza ho pranzato con il Mangano e con queste altre persone, che egli come al solito mi avrà presentato come amici, senza farmene i nomi”.
Ma, per il Tribunale di Palermo, “appare smentita dallo stesso comportamento dell’imputato la tesi difensiva che vorrebbe attribuire solo a un atteggiamento di timore la prosecuzione dei suoi rapporti con Mangano”. Anche perché il braccio destro del Cavaliere si è autosmentito in un’intervista del 1° luglio 1996 sul Tgr Sicilia: “Non vedo niente di strano nel fatto che io abbia frequentato il signor Mangano, e lo frequenterei ancora adesso...”: “Appare evidente che le motivazioni (timore di eventuali ritorsioni) addotte dall’imputato per giustificare il mantenimento dei rapporti con il Mangano costituiscono un mero espediente difensivo da addurre solo all’interno delle aule giudiziarie, ma non da manifestare all’esterno. Dal canto suo, sentito in dibattimento sul pranzo al ristorante ‘Le Colline Pistoiesi’, Mangano ha decisamente negato l’episodio”.
Il fattore di Arcore
Secondo Dell’Utri, Berlusconi & C, quando fu assunto ad Arcore, Mangano era uno stinco di santo e solo dopo si guastò. In realtà, già prima di arrivare ad Arcore nel 1974, era un delinquente doc: “Per quanto riguarda il periodo precedente, il 16 agosto 1972 Mangano Vittorio era stato fermato in compagnia di Mafara Gioacchino e, il successivo 23 agosto 1972, era stato sorpreso, all’ingresso dell’autostrada PA-CT, in compagnia di La Rosa Antonino e Vernengo Antonino, quest’ultimo imputato nel procedimento penale “maxi-uno” e indicato da Contorno Salvatore come esperto nella trasformazione della morfina base in eroina [...]. L’ispettore Piu ha fatto riferimento anche all’arresto del Mangano, il 15 febbraio 1972, a seguito di un ordine di cattura della Procura di Milano per tentata estorsione, a ulteriore dimostrazione della presenza di Mangano in quella città ben prima del suo trasferimento nella villa di Arcore, registrato all’anagrafe di quel comune il 1° luglio 1974. Il 27 dicembre1974, l’arresto di Mangano da parte dei carabinieri [...] per truffa, pochi giorni dopo il sequestro D’Angerio. Dopo soli 26 giorni, il 22 gennaio 1975, a causa di un difetto di notifica, Mangano veniva scarcerato dalla Casa Circondarialedi Termini Imerese e faceva rientro ad Arcore. Il 1° dicembre ’75 veniva nuovamente arrestato per porto di coltello proibito in compagnia della moglie, ed entrambi dichiaravano di risiedere ad Arcore, presso la villa San Martino. Il 6/12/1975 Mangano veniva scarcerato per fine pena e dichiarava di eleggere domicilio in Arcore, via Villa San Martino n. 42.
La carriera criminale di Mangano, “testa di ponte di Cosa Nostra a Milano”, prosegue dopo l’uscita da villa Berlusconi: “Nel periodo successivo, Mangano veniva raggiunto da una serie di provvedimenti giudiziari e misure restrittive fino a che, nel maggio 1980, veniva tratto in arresto ad Arcore, su segnalazione della Questura di Palermo, nell’ambito di una vasta operazione che vedeva coinvolti numerosi importanti personaggi inseriti in Cosa Nostra palermitana; da questa indagine scaturiva il processo a carico di Spatola Rosario più altri, [...] istruito dal dr. Giovanni Falcone, avente a oggetto un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base [...]. Importanti elementi di prova erano emersi dalle intercettazioni telefoniche sulle utenze intestate ad alcuni esercizi commerciali riconducibili agli Inzerillo e su quelle dell’hotel “Duca di York” di Milano, ove alloggiava a quel tempo il Mangano.
[...] Mangano aveva ritenuto di poter camuffare i traffici illeciti usando espressioni riferibili al commercio di cavalli [...]. Mangano, nell’ambito di quel gruppo, svolgeva il compito di curare la compravendita di sostanze stupefacenti nella piazza di Milano [...]. Nel corso della disposta intercettazione dell’utenza telefonica in uso al Mangano presso l’Hotel Duca di York, emergeva una serie di contatti con talune società ubicate nella via Larga n. 13 di Milano, i cui amministratori risultavano a loro volta avere rapporti con tale “Tanino” (il noto latitante Martello Ugo), e la indicazione di quell’indirizzo come luogo di abituale incontro tra esponenti di Cosa Nostra”.
Ne parla anche Paolo Borsellino (che il processo maxi-uno istruì insieme con Falcone) nell’intervista rilasciata poco prima di morire ai giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo. E i collaboratori di giustizia sono unanimi nel datare l’affiliazione di Mangano a Cosa Nostra “fin dagli anni Settanta”: come ricordano i giudici, “in un periodo quantomeno contemporaneo alla sua permanenza ad Arcore”.
IL 14 FEBBRAIO 1980 la Criminalpol di Milano intercetta una telefonata di Mangano a Dell'Utri. Mangano propone a Dell’Utri “il secondo affare che ho trovato per il suo cavallo”. Dell’Utri risponde che non ha i “piccioli”, i soldi. Mangano suggerisce di farseli dare “dal suo principale Silvio”, cioè Berlusconi (per il quale formalmente Dell’Utri non lavora più dal 1977, essendo passato gruppo Rapisarda). Su questo colloquio – scrivono i giudici – Dell’Utri “ha fornito una sua chiave di lettura non coincidente affatto con il significato letterale delle frasi utilizzate dai due interlocutori [...]. Appare chiaro che l’”affare” di cui si trattava, in relazione al quale non veniva chiesto alcun chiarimento, segno evidente che entrambi ben sapevano di cosa si trattasse, era proposto direttamente da Mangano a Dell’Utri, il quale, infatti, pur dimostrandosi ben disponibile, dichiarava di non potere accettare per mancanza di denaro e rispondeva immediatamente “per questo dobbiamo trovare i soldi”, “sono veramente in condizioni di estremo bisogno”. Quindi, il riferimento alla persona del «principale» di Dell’Utri, cioè Silvio Berlusconi (malgrado in quel periodo l’imputato non avesse con lo stesso rapporti di tipo lavorativo e malgrado non abitasse più ad Arcore), è fatto solo per indicare una persona che avrebbe potuto favorirlo”.
E l’«affare» del presunto «cavallo»? “Il significato da attribuire alle espressioni utilizzate dai due interlocutori rende ininfluente la produzione documentale offerta dalla difesa dell’imputato, costituita da una scrittura privata, apparentemente risalente al 1974 (priva, però, di qualsiasi data certa) e asseritamente ritrovata solo di recente nella biblioteca di villa Casati, concernente l’acquisto da parte del Mangano di una cavalla purosangue di tal Pepito Garcia. Ma tale circostanza non è stata riferita né da quest’ultimo, né tanto meno dallo stesso Mangano, il quale fornisce una ulteriore versione affermando che la cavalla in questione, pur trovandosi ad Arcore, non era custodita in una stalla della villa di Berlusconi, bensí nel vicino maneggio del Pepito Garcia”.
Le nozze del boss a Londra
Il 19 aprile 1980 il narcotrafficante Girolamo Maria Fauci detto “Jimmy”, siciliano trapiantato in Inghilterra, si sposa a Londra con una ragazza inglese. Fra gli invitati che partecipano alla messa e al ricevimento ci sono Dell’Utri, Cinà e i boss Teresi e Di Carlo (in quel periodo latitante a Londra, dove lavora come copertura alla “Fauci Continental Imports”). Bontate, pur invitato, non ha potuto intervenire. Di Carlo racconta ai giudici che Fauci era socio occulto dei mafiosi Bontate, Teresi, Cinà e Santo Inzerillo, fratello di Salvatore, capoclan dell’Uditore; e che Dell’Utri e Teresi, seduti al suo tavolo, erano stati invitati dallo sposo. Dell’Utri fornisce la sua versione in un’intervista a Giampiero Mughini per Panorama, il 12 dicembre 1996: “Cinà mi aveva detto che un tal giorno sarebbe stato a Londra dove un amico siciliano avrebbe sposato una giovane londinese. Il caso voleva che anch’io, quel giorno, sarei stato a Londra, dove volevo visitare una grande mostra dedicata ai Vichinghi. Perciò andai al matrimonio, che si svolse in un grande locale a Piccadilly Circus, e dov’era quella strana mescolanza di facce siciliane e buona società londinese”. Concludono i giudici: “Casuale o concordata che fosse stata la sua presenza a Londra il giorno delle nozze, è rimasto incontrovertibilmente accertato che Marcello Dell’Utri ha accettato l’invito rivoltogli dal coimputato, sodale ed amico di sempre, Cinà Gaetano, il quale, pur essendo necessariamente a conoscenza della “personalità” di alcuni degli invitati palermitani e dello stesso sposo, non si fece scrupolo alcuno di fare intervenire Dell’Utri alla cerimonia in chiesa ed al trattenimento successivo perché, evidentemente, era ben consapevole che alcune di quelle facce, «che non erano proprio quanto di piú... come posso dire...» (espressione che, secondo il giornalista Mughini, aveva usato Dell’Utri per descrivere negativamente alcuni degli invitati siciliani), erano le facce di Di Carlo e Teresi soggetti ben conosciuti dallo stesso Dell’Utri perché incontrati in precedenti occasioni [...]. Si ricorderà, infatti, che il Cinà è stato l’organizzatore dell’incontro a Milano, avvenuto nel 1974, tra Dell’Utri e Silvio Berlusconi con il Bontate, il Teresi e lo stesso Cinà, al quale aveva partecipato anche il Di Carlo. [...] Di Carlo ha dichiarato di avere preso informazioni dal Fauci sul conto delle persone invitate al matrimonio al fine di non correre rischi in ordine alla sua condizione di latitante. Orbene, la presenza di Dell’Utri, non solo non gli creò alcuna preoccupazione, ma fu occasione per intrattenersi con Dell’Utri prima della cerimonia religiosa e, poi, sedersi al suo stesso tavolo durante il banchetto”.
Rapisarda, il nemico-amico
Alla fine del 1977, poco dopo la partenza di Mangano da Arcore, anche Dell’Utri lascia Berlusconi e va a lavorare nel gruppo “Inim” di Rapisarda, il terzo gruppo immobiliare d’Italia, che controlla a Milano varie società. Diventa presidente e consigliere delegato della Bresciano costruzioni Spa (con sede in via Chiaravalle 9); consigliere della Cofire (Compagnia Fiduciaria di Consulenze e Revisione Spa) e, insieme al fratello gemello Alberto, della Internazionale Immobiliare (Inim Spa). Di quest’ultima Rapisarda era socio al 60 per cento insieme a Francesco Paolo Alamia e Angelo Caristi. Rapisarda racconta che era stato Cinà a raccomandargli caldamente l’assunzione di Dell’Utri. Il quale dichiara al Tribunale di Palermo: “Rapisarda mi ha fatto una corte spietata, lo ripeto, altro che assumermi perché la mafia gliel’aveva chiesto! Ma quale mafia! [...] Di Cinà, Rapisarda non mi ha detto nulla. Mi diceva soltanto, quando poi siamo entrati in confidenza eccetera, non so per quale motivo, che lui conosceva a Palermo pezzi grossi della mafia: «Io conosco Tizio, Caio e Sempronio». E io ho detto, visto che lui millantava, per non sentirmi meno importante di lui, dicevo: “Anch’io conosco Tizio, Caio e Sempronio”. Ma questo è vero che io l’ho detto, ma ripeto solo per questa esclusiva ragione..”.
Poi aggiunge: “Il discorso di Rapisarda mafioso fa ridere, perché se c’è uno che non può essere mafioso è Rapisarda, in quanto proprio è uno che parla in maniera sconsiderata di tutto e di tutti e credo che sia anche una persona che non ha nessun senso dell’amicizia, nessun rispetto dell’amicizia, cioè secondo me è completamente fuori da ogni logica diciamo cosí di carattere semplicemente da questo punto di vista mafioso”.
«Parole queste – osserva il Tribunale – che si commentano da sole». Ma perché è cosí importante l’assunzione di Dell’Utri nel gruppo Rapisarda? Perché – spiegano i giudici – Rapisarda aveva «complessi intrecci con personaggi certamente vicini alla criminalità organizzata». Per esempio il suo socio Alamia, «soggetto notoriamente in rapporti con Vito Ciancimino, già sindaco di Palermo, condannato in via definitiva per la sua partecipazione a Cosa nostra». Per non dire degli «accertati contatti con mafiosi del gruppo Cuntrera-Caruana nel periodo di latitanza del Rapisarda seguito all’emissione dei provvedimenti restrittivi per il fallimento della Venchi Unica».
Berlusconi e i calabresi
In questo ambientino Berlusconi finisce per avere problemi pure con la ‘ndragheta. Scrive il tribunale: “Angelo Siino [un importante collaboratore di giustizia ndr] ha riferito di un viaggio [fra il 1977 e il ’79, ndr] effettuato a Milano con Stefano Bontate in occasione del quale ebbe ad incontrare Marcello Dell’Utri (già conosciuto a Palermo, dove avevano frequentato la stessa scuola, e Siino era stato compagno di classe del fratello, Giorgio Dell’Utri), proprio mentre l’imputato scendeva le scale dell’ufficio di via Larga insieme allo stesso Bontate e a Martello Ugo [...]. Siino ha riferito che, in quello stesso periodo (quando, cioè, Dell’Utri non era piú vicino a Berlusconi), ebbe ad accompagnare a Milano Stefano Bontate il quale, in quella città, doveva «intervenire» presso alcuni «calabresi» che volevano rapire Silvio Berlusconi. [...]. E fu proprio nel corso di questo viaggio che Bontate, parlando con Siino, ebbe a commentare il fatto che i Pullarà (autorevoli esponenti della sua stessa famiglia mafiosa i quali, dopo la uccisione di Bontate, ebbero a subentrargli nella stessa posizione di vertice, essendo vicini ai corleonesi di Salvatore Riina) stavano vessando Berlusconi con esose richieste di denaro (gli stavano «tirando il radicone»), indirettamente confermando le difficoltà incontrate dall’imprenditore milanese nel periodo in cui Dell’Utri non era al suo fianco”.
Siino dice, tra l'altro: “ Ho saputo che Bontate e Mimmo Teresi soprattutto, si erano occupati... per fargli acquistare una televisione a Palermo. [...] Il rapporto tra il Bontate e il Berlusconi era un po’ sbandierato [...] soprattutto da Te-resi. Teresi ogni tre parole diceva «Berlusconi è amico mio...», dice che si dava addirittura del tu con Paolo Berlusconi. […] Lo portavano piú come un fatto di amicizia, forse iniziata... con problemi di ordine estorsivo, ma sicuramente dopo non fu piú cosí, perché io, per esempio quando è stato il fatto delle televisioni, ho visto che si interessavano in maniera assidua.
Le holding del Biscione
Come nacquero le tv Fininvest? E con quali capitali? A queste domande ha cercato di rispondere la Procura di Palermo, a caccia di riscontri alle numerose accuse dei collaboratori di giustizia sul riciclaggio del denaro di Cosa nostra (in particolare del «tesoro di Bontate»). Indagati fin dal 1994 nel procedimento penale 6031/94 per «concorso in riciclaggio continuato con Bontate, Teresi e altri ignoti, commesso in Palermo, Milano ed altrove dal 1980-1981 in poi», Berlusconi e Dell’Utri sono stati poi archiviati per decorrenza dei termini. I giudici spiegano:
“Il Rapisarda aveva riferito di avere incontrato, nel 1978 in Piazza Castello a Milano, il Bontate ed il Teresi e di avere appreso da quest’ultimo che stava per entrare in società con Silvio Berlusconi in una azienda televisiva per la quale occorrevano 10 miliardi. Al riguardo, gli aveva chiesto, tra il serio ed il faceto, il suo parere sulla «bontà» dell’affare. Lo stesso Rapisarda era tornato sull’argomento, il 7 novembre ed il 12 dicembre 1997, nel corso di spontanee dichiarazioni rese alla Procura della Repubblica, riferendo che, nel 1980-1981, Marcello dell’Utri aveva chiesto ed ottenuto dal Bontate e dal Teresi un finanziamento di 20 miliardi da utilizzare per l’acquisto di «pacchetti-film»”.
Dichiarazioni poi arricchite dalle rivelazioni dei pentiti Francesco Di Carlo, Gioacchino Pennino e Tullio Cannella, oltreché dello stesso Rapisarda. Ma anche e soprattutto da alcune note informative della Dia, da cui risulta che “ – nella costituzione della società televisiva Trinacria Tv era intervenuta la società Par.Ma.Fid, indicata come società in rapporti con Monti Luigi e Virgilio Antonio, coinvolti nel processo penale susseguente alla Operazione San Valentino a cagione dei loro rapporto con esponenti mafiosi; – la stessa Par.Ma.Fid aveva interessi nella Realtyfin Spa, società cardine del gruppo facente capo a Virgilio Antonio; – alle suddette società del gruppo televisivo Fininvest erano interessati soggetti vicini all’associazione mafiosa”.
Le indagini vengono per questo allargate all’acquisizione di altre tv siciliane da parte del gruppo Berlusconi. Si scopre che una di esse era di proprietà di Antonio Inzaranto, un parente acquisito del boss, Tommaso Buscetta, che sino alla fine degli anni 80 lavorerà per il gruppo. Gli acquisti delle varie reti, inoltre, avvenivano attraverso le innumerevoli «Holding Italiana» (numerate dalla 1 alla 37) che stavano dietro la Fininvest e che, secondo il consulente dei pm Francesco Giuffrida, dirigente della Banca d’Italia di Palermo, ricevettero ingenti finanziamenti fra il 1975 e il 1983 di provenienza allo stato misteriosa. Ma durante il processo, sia Cannella sia Pennino innescano la retromarcia e minimizzano le accuse lanciate in precedenza. Cannella però non può «fare a meno di confermare che Vitale, cognato di Bontate Stefano, gli aveva confidato che Dell’Utri “si era fottuto i piccioli di Bontate”». Così, «seppure non vi sia stata prova diretta di un passaggio di denaro fresco da ambienti per cosí dire “mafiosi” alla Fininvest», il tribunale ricorda che “le conclusioni alle quali è pervenuto il consulente del pm, il quale ha evidenziato tra l’altro la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984, non hanno trovato smentita in quelle alle quali è pervenuto il consulente della difesa Dell’Utri; non è stato possibile, da parte di entrambi i consulenti, risalire, in termini di assoluta certezza e chiarezza, all’origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holdings del gruppo Fininvest. Ed allora le «indicazioni» dei collaboranti e del Rapisarda non possono ritenersi del tutto «incompatibili» con l’esito degli accertamenti svolti, i quali non hanno evidenziato elementi di insuperabile contrasto con le dichiarazioni accusatorie, ma neppure riscontri specifici ed individualizzanti alle stesse. La consulenza redatta dal prof. Iovenitti (consulente di Dell’Utri, ndr) non ha fatto chiarezza sulla vicenda in esame, pur avendo il consulente della difesa la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest”. Chiarezza che avrebbe potuto fare Silvio Berlusconi, il quale però, il 26 novembre 2002, si avvale si della facoltà di non rispondere.
I soldi per le «antenne»
Il boss dei boss Stefano Bontate viene assassinato dai «corleonesi», nella guerra di mafia, il 23 aprile 1981. Anche Mimmo Teresi poco tempo dopo scompare, vittima della «lupara bianca». L’uomo forte dell’organizzazione, eliminati fisicamente quasi tutti i rivali, è dal 1983 Totò Riina, che impone a Cosa nostra non solo una «gestione dittatoriale violenta», ma anche una «diversità di atteggiamento e di mentalità», con «effetti rilevanti sia nei rapporti interni all’organizzazione mafiosa che nei rapporti tra gli uomini d’onore e soggetti “esterni” o contigui». Che fine fanno, dopo il «ribaltone», le relazioni di Cosa nostra con Berlusconi e Dell’Utri, gestite da Cinà, da Mangano e dai Pullarà? Vari pentiti hanno spiegato che attraverso di loro giungevano a Palermo prima 100 e poi 200 milioni di lire l’anno regalati dal Cavaliere alla mafia anche per proteggere i suoi ripetitori televisivi da eventuali attentati. Quando però va al potere Riina, che non sa nulla di quel denaro inizialmente destinato a Bontade, la situazione cambia. Il capomafia corleonese prima s’infuria per non essere stato avvertito, poi fa chiedere spiegazioni a Pippo Di Napoli, il nuovo capo della famiglia di Malaspina (quella in cui milita Cinà). Siamo nel 1986 e alla fine dell’indagine interna, raccontano i collaboratori di giustizia, si arriva a una riunone in cui Cinà fa presente ai propri superiori che Dell’Utri lo sta trascurando. Cinà dice che Dell’Utri è sempre in ritardo con i pagamenti e che oltretutto lui non capisce come mai quei soldi finiscono ancora alla famiglia mafiosa di Villagrazia, un tempo capeggiata da Bontade, quando adesso a comandare sono i corleonesi. L’accaduto è ricostruito dai pentiti Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Antonino Galliano, tutti del mandamento palermitano della Noce (che comprendeva anche la famiglia di Malaspina e aveva a capo il boss Raffaele Ganci, fedelissimo di Riina). I tre raccontano, pur con qualche diversa sfumatura, la stessa storia. Si sono messi d’accordo? No, «non è emersa alcuna dolosa preordinazione nelle dichiarazioni rese al dibattimento dai tre collaboratori di giustizia», dunque «non può che trarsene un positivo convincimento in ordine alla loro attendibilità specifica». Cosí bastò «una lamentela del Cinà» per giustificare agli occhi dei mafiosi «un intervento che servisse a “rafforzare” detto imputato agli occhi dello stesso Dell’Utri. Da qui l’iniziativa di Mimmo Ganci, su ordine di Riina, di effettuare da Catania le anonime intimidazioni telefoniche e per lettera all’on. Berlusconi».
Seconda bomba in via Rovani
Anche di queste minacce esiste la prova: una telefonata intercettata fra Berlusconi e Dell’Utri nella notte del 28-29 novembre 1986 dopo un secondo attentato dinamitardo contro la villa di via Rovani:
“Dalla conversazione risulta evidente come Berlusconi e, prima di lui, gli investigatori con i quali si era consultato, fossero convinti che il responsabile dell’attentato dovesse essere Vittorio Mangano, il quale, secondo una segnalazione poi rivelatasi inesatta, essi ritenevano essere stato scarcerato. Dell’Utri aveva acceduto alla tesi che gli era stata prospettata con vigore dal suo interlocutore non senza perplessità, fugata solo dall’aver appreso, per l’appunto, che Mangano era libero, circostanza della quale non era a conoscenza [...]. Aveva ragione Dell’Utri a mostrarsi perplesso: infatti Mangano non era «fuori» e l’attentato di che trattasi non era opera sua (al contrario dei precedenti noti). È interessante [...] il segnalato motivo di perplessità manifestato dall’imputato nell’apprendere la notizia (in effetti non vera), relativa alla libertà di Mangano in quel preciso momento, quasi che egli, sull’argomento, si sentisse legittimato a pensare che, se effettivamente fosse stato cosí, l’avrebbe subito dovuto sapere. [...] Altro interessante elemento si coglie nel resoconto di Berlusconi al suo braccio destro, a proposito della chiacchierata avuta con i carabinieri di Monza sull’argomento, laddove l’imprenditore, ridendo, aveva riferito a Dell’Utri di aver detto che, se gli anonimi danneggiatori gli avessero chiesto 30 milioni, anziché fargli l’attentato, egli non avrebbe avuto difficoltà a pagare. È sintomatico, anche se chiaramente ironico, l’atteggiamento mentale dell’imprenditore Silvio Berlusconi, disponibile a soddisfare, ma non a denunciare, le richieste estorsive rivoltegli, pur di stare tranquillo”.
Ironico, poi, fino a un certo punto: “Caratterizzato da seria preoccupazione, è l’identico punto di vista espresso in occasione di altre intimidazioni, di ignota e mai da alcuno chiarita matrice, subite dal medesimo Berlusconi nel 1988, come emerge da una frase della conversazione telefonica del 17 febbraio di quell’anno intercorsa tra l’imprenditore e l’amico Della Valle, intercettata ed acquisita agli atti: «Se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle pagherei tranquillo».
Due giorni dopo l’attentato del 1986, il 30 novembre alle ore 14,01, Dell’Utri e Berlusconi si risentono. Dice Dell’Utri: “Dunque, io stamattina ho parlato con quello lí [Eleuterio Rea, funzionario di polizia, ndr]... e poi ho visto Tanino, che è qui a Milano. Ed invece è da escludere quella ipotesi, perché [Mangano] è ancora dentro. Non è fuori. E Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere, ma proprio categoricamente. Comunque, poi ti parlerò... perché... di persona. E quindi, non c’è proprio...guarda, veramente, nessuna, da stare tranquillissimi, eh!”
Tanino è Cinà ed è presente a Milano accanto a Dell’Utri durante la telefonata. Il che conferma il racconto dei tre pentiti della Noce, secondo i quali «Cinà si sarebbe effettivamente recato nel capoluogo lombardo per incassare dal suo coimputato la famosa somma di danaro per Cosa nostra»: .“Ma quel che piú rileva è che Tanino Cinà, nella specifica occasione di fine novembre 1986, era salito a Milano per comunicare, evidentemente perché richiestone, il fatto che Vittorio Mangano fosse ancora detenuto e che, pertanto, non potesse essere l’autore dell’attentato di appena due giorni prima. Dunque, un Cinà che – ad onta del fatto di essere un semplice amico palermitano di Dell’Utri, culturalmente e socialmente modesto – viene informato (da chi, se non dallo stesso Dell’Utri?) di un attentato dinamitardo subíto dall’imprenditore Berlusconi a Milano e, immediatamente, si era premurato non solo a fornire una corretta indicazione (piú corretta di quella dei carabinieri di Monza) sullo stato di detenzione del mafioso, oramai conclamato, Mangano Vittorio [...], ma anche sul fatto che Berlusconi potesse stare tranquillo, anzi «tranquillissimo». [...] Ci si chiede come, se non facendo riferimento al suo spessore mafioso, Cinà potesse arrogarsi l’autorità di discettare su un siffatto argomento e di rassicurare gli animi dei due interlocutori (uno diretto e l’altro mediato). E perché, se non per il fatto che fosse nota al Dell’Utri la sua mafiosità, immediatamente ritenere di «compulsare» proprio Cinà su un argomento di quel genere, fidandosi delle risposte fornite nell’immediatezza dell’episodio, di segno contrario rispetto alle conoscenze degli investigatori lombardi?
Ma, per il Tribunale, è molto interessante anche l’atteggiamento del Cavaliere: “Accanto alle significative parole di Dell’Utri, sono altrettanto illuminanti i silenzi di Berlusconi, che ad esse fanno da contraltare. L’imprenditore, avendo sentito le rassicurazioni del suo manager – provenienti dalla conversazione avuta con «Tanino», piú che da quella con il dottor Rea – aveva interloquito, soltanto, prima con un «Ah!», poi con un «Uh!», dopo con un «Ah sí, eh?», poi, ancora, con un triplo «Uh, Uh, Uh!» e, finalmente, dopo la precisazione di Dell’Utri che bisognava parlarne «di persona», con un «perfetto, ho capito». E Berlusconi aveva effettivamente compreso che vi era dell’altro, perché l’argomento della conversazione era stato immediatamente cambiato. I silenzi sono illuminanti perché Berlusconi palesa, attraverso essi, di sapere chi era «Tanino» e che «voce» aveva in siffatto contesto”
Chi è il vero autore dell’attentato? Come ha svelato il pentito Galliano, la bomba era stata piazzata dalla mafia catanese, anche se – osservano i giudici – “Riina l’aveva voluta furbescamente sfruttare per le ulteriori intimidazioni telefoniche all’imprenditore [Berlusconi] ordinate a Mimmo Ganci e da costui effettuate poco tempo dopo da Catania. Una volta raccordatosi con il suo sodale Santapaola di Catania, il capo di Cosa nostra aveva, come si suol dire, «preso in mano la situazione» relativa a Berlusconi e Dell’Utri [...], non soltanto per fini prettamente estorsivi, ma anche per potere «agganciare» politicamente Craxi. Sicché, da una parte, rispondeva effettivamente a verità l’estraneità di Mangano all’attentato di via Rovani (opera dei «catanesi»); dall’altra, vi era ragione [per Cinà, ndr] di rassicurare Berlusconi sul fronte delle intimidazioni, stante il controllo di Salvatore Riina mirante ad altri scopi.Due importanti notizie delle quali «Tanino» si era fatto latore a Marcello Dell’Utri,riscontrate «dall’interno» dell’organizzazione mafiosa (quella di riferimentodel Cinà), attraverso le dichiarazioni di Galliano”.
Una cassata per il Cavaliere
L’attentato a Berlusconi, infatti, non era mai finito su alcun giornale: Galliano doveva per forza conoscerlo di suo. “La persona dell’imprenditore Silvio Berlusconi veniva vista da Riina sia come soggetto che doveva pagare (alla stregua di tanti altri imprenditori), sia, anche, come soggetto che avrebbe potuto aiutare l’organizzazione mafiosa sul piano politico. Quindi, una persona che andava «coltivata», e non semplicemente estorta, nella speranza di ottenerne favori (non dimostrati al processo) […].A cavallo delle festività natalizie del 1986, una fitta serie di contatti tra Gaetano Cinà, Marcello Dell’Utri, la moglie ed il fratello Alberto, fa riferimento alla spedizione a Milano ed a Roma, da parte di Cinà, di alcune cassate siciliane. I destinatari erano gli stessi fratelli Dell’Utri, Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri. L’incombenza è gestita dal Cinà con estrema cura [...] dimostrativa di quanto egli ci tenesse a fare bella figura con tutti i destinatari del regalo [...]. Del tutto privo di senso, senza la premessa ricostruttiva di cui sopra, il dono di Cinà a Berlusconi [...]. In primo luogo Cinà, personal-mente (e non tramite Dell’Utri), spedisce a Berlusconi, con il mezzo aereo, una, anzi due cassate siciliane [...]: la prima, delle stesse dimensioni di quelle destinate all’amico Marcello ed a Confalonieri , l’altra – con su stampato lo stemma di Canale 5 (il «biscione»), come suggerito dallo stesso Dell’Utri – di enormi, si direbbe spropositate dimensioni, deducibili dal peso di 11 chili e 800 grammi[...] e dalla confezione, che Cinà aveva appositamente fatto predisporre”.
Che senso ha quel dolce regalo al Cavaliere?
“Un significato simbolico: per Cinà, quello era un regalo «importante». [...]Cinà sentiva di dover omaggiare Berlusconi con un bel pensiero di Natale. [...] Ma Cinà era quella persona alla quale Berlusconi avrebbe dovuto essere riconoscente per il suo interessamento in occasione dell’attentato di via Rovani, [...] Invece, nonostante Berlusconi fosse in debito con Cinà, è quest’ultimo che aveva omaggiato l’imprenditore di un’enorme cassata, curandone la confezione ed il trasporto nei minimi particolari in modo da ingraziarsi il destinatario del suo «pensiero»”
La conclusione dei giudici non può essere che una: “Dell’Utri era in condizione di comprendere – conoscendo Cinà nel suo reale spessore mafioso, come sempre piú risulta provato [...] – che, nel plateale ed esagerato omaggio natalizio di Cinà a Berlusconi, passato attraverso la sua diretta osservazione, era facilmente ravvisabile l’interesse del medesimo Cinà, non di natura personale (perché di scambi di favori tra Cinà e Berlusconi, di qualsiasi natura, non è stata mai acquisita prova), a «coltivare» l’imprenditore milanese, al di là del fatto estorsivo, poiché (e qui ha ragione l’accusa), non si è mai visto un imprenditore estorto che riceve regali da un emissario dei suoi aguzzini (anche se amico del suo manager). Dunque il tema, cosí interpretato , dà riscontro ai collaboranti anche sul punto della dimensione politica attribuita da Riina alla vicenda, altrimenti di carattere esclusivamente estorsivo, relativa ai rapporti tra Cinà, Dell’Utri e l’imprenditore Berlusconi”.
Il libro mastro di San Lorenzo
Berlusconi, dunque, secondo i giudici pagava la mafia. I collaboratori di giustizia ripercorrono infatti con precisione il percorso del denaro. E spiegano che a partire dalla fine degli anni 80 i soldi vengono divisi tra tre diverse famiglie tra cui quella di San Lorenzo, capeggiata dall’autista di Riina, Salvatore Biondino. Per loro però quello non era un semplice pizzo. C’era qualcosa di più: era una strada intrapresa nella speranza di arrivare a Craxi. Esistono riscontri a questo racconto? Sì, secondo il Tribunale, che ricorda come grazie al pentito Giovan Battista Ferrante sia stato scoperto il libro mastro del pizzo della famiglia di San Lorenzo, composto da due diverse agende: “Per quel che qui interessa, l’attenzione si era concentrata su una delle indicazioni («Can 5 numero 8», da una parte e, dall’altra, al numero 8, «regalo 990, 5000») che il Ferrante ha decodificato riferendo che trattavasi di una dazione di 5 milioni di lire da parte di Canale 5, nell’anno 1990, a titolo di «regalo» e cioè, come si diceva piú sopra, non ricollegata a una estorsione posta in essere dalla «famiglia» di San Lorenzo”.
Insomma, anche dopo l’avvento dei corleonesi, “deve ritenersi raggiunta la prova che sia Dell’Utri che Cinà hanno continuato ad avere rapporti con il sodalizio criminale. Tali rapporti, almeno fino agli inizi degli anni 90, si sono strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, con il contributo consapevolmente fornito, hanno fatto sí che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di danaro alla mafia. Relativamente a quest’arco temporale [...], si è evidenziato l’inizio di una aspettativa di natura politica coltivata dal Riina nei confronti di Berlusconi (atteso il suo risaputo rapporto di amicizia con Craxi), la quale, come si vedrà, solo in anni successivi verrà accompagnata da concreti comportamenti posti in essere da Dell’Utri. [...] Deve ritenersi provata, da parte dell’imputato Cinà, la commissione di una condotta agevolatrice nei confronti del sodalizio mafioso, consistente nell’essersi personalmenteattivato per far conseguire a tale organizzazione illecita ingenti somme di danaro quale compendio estorsivo. ”.Tutto questo chiarisce anche la posizione di Dell’Utri. I suoi difensori sostengono che anche lui era una vittima. Ma il Tribunale scrive: Dell’Utri non è mai stato l’estorto. Non vi è dubbio, infatti, che le somme incassate dalla mafia provenissero dalla Fininvest e non dal patrimonio personale dell’imputato. Egli «rappresentava» presso i mafiosi gli interessi del gruppo, per conto di Silvio Berlusconi. Era un manager dotato di altissima autonomia e di capacità decisionali, non un qualunque sottoposto al quale non restava altro che eseguire le decisioni del proprietario dell’azienda, in ipotesi impostegli. È significativo che egli, anziché astenersi dal trattare con la mafia [...] ha scelto, nella piena consapevolezza di tutte le possibili conseguenze, di mediare tra gli interessi di Cosa nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi (un industriale, come si è visto, disposto a pagare pur di stare tranquillo). Dunque Dell’Utri ha non solo oggettivamente consentito a Cosa nostra di percepire un vantaggio, ma questo risultato si è potuto raggiungere grazie e solo grazie a lui. [...]. Conclusivamente, ad avviso del Collegio, Marcello Dell’Utri ha consapevolmente assunto [...] lo stesso ruolo del coimputato Cinà; è stato, come quest’ultimo, un anello, il piú importante, di una catena che ha consolidato e rafforzato Cosa nostra, consentendole di «agganciare» una delle piú importanti realtà imprenditoriali italiane e di percepire dal rapporto estorsivo, posto in essere grazie alla intermediazione del Dell’Utri e del Cinà, un lauto guadagno economico. L’ulteriore e decisivo tramite, al fianco dell’amico palermitano portatore diretto di interessi mafiosi. Cosí operando, Marcello Dell’Utri (come Cinà), ha favorito Cosa nostra reiterando le condotte, tenute in precedenza [...]. Una condotta ripetitiva, quella di tramite tra gli interessi della mafia e quelli di Berlusconi, posta in essere da Dell’Utri anche in tempi successivi.

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