«Non viene mai abbastanza notato, ma nel Parlamento italiano sui grandi temi di politica sociale ed economica, pur nella legittima contrapposizione, c'è stato più consenso che dissenso. Nel '95 noi abbiamo votato la riforma Dini delle pensioni, non abbiamo fatto ostruzione sulla riforma del mercato del lavoro, e viceversa. In questi quindici anni non è mai venuto meno, c'è sempre stato il ruolo democratico dell’opposizione» dice il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Pronto ad aprire al dialogo pensando alle riforme istituzionali «da fare in Parlamento, o in alternativa con l'elezione di un 'corpus' politico ad hoc», e anche all’idea di una riforma fiscale che metta al centro «le famiglie, il lavoro, la ricerca e l’ambiente ».
Sulla Finanziaria 2010 c’è stato uno scontro molto duro con l’opposizione.
«Nei passaggi fondamentali il Parlamento ha avuto ed ha la capacità e la forza di fare riforme e di riformarsi. Così è stato anche giovedì scorso quando da una parte, alla Camera, si discuteva con animazione sulla fiducia messa sulla Finanziaria 2010-2013, e dall’altra, al Senato, si chiudeva la grande riforma della Legge finanziaria ispirata da un ordine del giorno bipartisan».
Anche la maggioranza ha criticato i pochi margini lasciati al dibattito.
«Quella che in Italia si chiama Finanziaria, e che in tutta Europa si chiama budget , cioè bilancio, non è una legge ordinaria, non lo è da nessuna parte. La simbologia più forte è quella britannica, quando il Cancelliere dello Scacchiere si presenta a Westminster con la valigetta rossa chiusa per indicare il prendere o lasciare. Non che siano così rigidi: è che la discussione tecnica e politica è avvenuta prima, e fuori dall'Aula, riservandosi a sua volta l'Aula il potere sovrano di dire sì o no. In tutti i Paesi europei le procedure di voto sul bilancio sono speciali: dal voto bloccato alla sfiducia costruttiva. La storia italiana è un po' diversa: finita l'unità nazionale che aveva certo dato avvio al deficit spending, ma con una visione organica, è iniziata la stagione dissennata degli assalti alla diligenza. Il Parlamento, nato nella storia per controllare la spesa del sovrano, è così diventato il sovrano della spesa in deficit, girando alle generazioni future il terzo debito pubblico del mondo. L'inversione sui grandi numeri c'è stata negli anni ’90, quella nelle prassi parlamentari dall'ottobre del 2001, quando ho chiesto la prima fiducia sulla manovra. Nel 2008 si è concretizzata l’intesa bipartisan per concentrare la discussione sui grandi numeri e le grandi scelte, e ora finalmente abbiamo la riforma della Finanziaria».
È stata proprio la richiesta di fiducia sulla Finanziaria a scatenare le polemiche.
«La discussione e le votazioni su questa Finanziaria sono state ordinate nel merito e condivise fino alla violenza di domenica scorsa. L’intesa era che la fiducia in Aula sarebbe stata considerata 'corretta' se posta sul testo votato dalla commissione Bilancio dopo l'estensione dei tempi per la discussione saggiamente concessa dalla presidenza della Camera. Dopo i fatti di domenica scorsa si è fatta l'ipotesi, politicamente intelligente, di rinunciare alla fiducia per trasmettere all'opposizione un messaggio di 'apertura'. In questa logica ho chiesto all’opposizione di fare anche lei un passo, ritirare gli emendamenti per aprire in Aula un grande dibattito sulla politica economica. Pur manifestando interesse di principio, confermato dalla disponibilità a una modifica dei regolamenti parlamentari coerente con la riforma del bilancio, la scelta dell’opposizione è stata quella di conservare gli emendamenti».
Erano appena cinquanta...
«Erano 100 pagine con un volume di interventi superiore a quello della Finanziaria stessa e con un limite intrinseco, non tecnico, ma politico. Il bilancio dello Stato, giusto o sbagliato che sia, è costruito come una 'cattedrale', come un insieme che si tiene organicamente. Non puoi togliere un'architrave per sostituirla più o meno casualmente con un'altra, nel caos concitato di cinquanta votazioni il cui esito avrebbe dovuto essere, senza alternative, cinquanta no. Non era il modo migliore per aprire il dialogo».
Fini ha definito «deprecabile» la fiducia e parlato di problemi con la maggioranza.
«Con Fini ci siamo parlati a lungo e con reciproca cordiale comprensione, come è stato negli ultimi anni. Ci sono due tipi di fiducia: la fiducia-fiducia e la fiducia-tecnica. Quella tecnica è un espediente parlamentare. Quella politica è politica: il governo chiama alla fiducia la sua maggioranza non perché la teme, ma perché ne vuole la fiducia. E l’effetto finale non è di debolezza, ma di forza. Non mi sembra questo il tempo, per inciso, per errori o rischi sul bilancio pubblico».
Pronti al dialogo? Tra voi c’è chi parla di componenti eversive nell'opposizione.
«Sui grandi temi della politica economica, che poi sono quelli che interessano la vita delle persone, dalle pensioni al lavoro, alla salute, e questa Finanziaria per esempio incorpora un grande accordo con tutte le Regioni proprio sulla sanità, non c’è mai stato contrasto, ma costruzione comune, seppure nella dialettica. C’è piuttosto, in Italia, un fattore-rischio politico. Se la politica continua a divorare se stessa nella lotta, convinta di fare il proprio interesse, in realtà finisce per essere la prima vittima».
È il momento delle riforme condivise?
«La crisi ha avuto un impatto economico più o meno forte su tutti i Paesi, ma dovunque si è presentata come crisi esterna. In Italia è un po’ diverso: c’è il rischio di una doppia crisi, esterna ed interna. Quella di origine esterna ha avuto e ha in Italia un impatto relativamente minore. Non ignoro che settori, situazioni, famiglie e persone ne soffrano, ma il sistema ha tenuto, tiene e terrà non peggio che altrove, anzi. Ma abbiamo un sistema politico che da un lato è vecchio e poco efficiente, dall’altro tende ad autodistruggersi. Possiamo restare l’unico Paese che ha due Camere, il bicameralismo perfetto e di conseguenza, quattro, sei, otto o più voti su ciascun singolo comma o articolo di legge? Possiamo andare avanti con un continuo crescente conflitto di poteri alimentato da componenti paranoiche e parossistiche della vita cosiddetta civile?».
La via per le riforme è una Bicamerale?
«In questi mesi ho riflettuto a lungo con il presidente del Consiglio sulle riforme istituzionali, abbiamo parlato della Bicamerale, del Titolo Quinto, del federalismo, della Bozza Violante. La missione delle riforme è nel nostro programma elettorale e in aggiunta, per ridurre la 'cifra' della violenza, va notato che le riforme costituzionali non divorano, ma all’opposto legittimano i loro padri. Le tecniche di riforma possono essere diverse, interne al Parlamento, o esterne, con la creazione di un corpo ad hoc, Convenzione o Bicamerale. La Bicamerale di D’Alema, ma non si fissi sul nome bicamerale, fu votata in soli sei mesi, estate inclusa. La pacificazione e la modernizzazione del Paese postulano, per l’interesse generale e nell’interesse generale, l’esclusione dell’intero corpo politico da pressioni esterne».
Pensa all’immunità?
«Mi pare che nella sua saggezza, costituente dell’architettura dell’Unione, il Parlamento europeo abbia qualcosa di molto simile».
C’è un punto da cui ripartire?
«Riprendere nella lettera e nello spirito comune la Bozza Violante con cui è terminata l’altra legislatura sarebbe il modo migliore per continuare il cammino».
D’Alema dice che dagli inciuci può nascere qualcosa di buono...
«Un impegno costituente comune avrebbe un effetto naturale di pacificazione».
Che tipo di riforma fiscale immagina?
«Ho cominciato a parlarne con il presidente del Consiglio, riprendendo il nostro Libro bianco del ’94: 'dal complesso al semplice, dal centro alla periferia, dalle persone alle cose'. Il nostro sistema fiscale è stato pensato negli anni ’60, avviato negli anni ’70 e poi continuamente rattoppato, peggiorato significativamente con l’Irap, migliorato marginalmente con il 5 per mille. Nel frattempo, in quarant’anni, tutto è cambiato. È cambiato il modello economico, la grande fabbrica sostituita dai distretti, dalle piccole e medie imprese e da 8 milioni di partite Iva. È variato il modello competitivo: allora l’obiettivo era entrare nel 'Mercato unico europeo', adesso quello europeo non è più l’unico mercato. Sono variati il modello tecnologico, con la rivoluzione informatica, il modello sociale, con l’inversione del rapporto tra giovani e vecchi e l’arrivo di milioni di immigrati, il modello ambientale, perché l’ambiente non è più risorsa da consumare, ma da conservare. Ed è variato soprattutto il modello istituzionale, con il federalismo. Non credo si possa immaginare il futuro come una continuazione del passato. Conosciamo le enormi difficoltà e le nostre responsabilità verso l’Europa, che dovrà comunque esprimere il suo parere, ma sappiamo anche che il rapporto fiscale è quello fondamentale tra lo Stato e i cittadini, tra lo Stato e l’economia. Non possiamo entrare nel nuovo secolo con la visione del vecchio. Un sistema che esprima sfavore per la speculazione finanziaria e per la distruzione ambientale, e favore per la famiglia con i bambini, il lavoro, la ricerca e l’ambiente: questo era il sogno fatto nel ’94 con Silvio Berlusconi».
Mario Sensini
20 dicembre 2009
Sulla Finanziaria 2010 c’è stato uno scontro molto duro con l’opposizione.
«Nei passaggi fondamentali il Parlamento ha avuto ed ha la capacità e la forza di fare riforme e di riformarsi. Così è stato anche giovedì scorso quando da una parte, alla Camera, si discuteva con animazione sulla fiducia messa sulla Finanziaria 2010-2013, e dall’altra, al Senato, si chiudeva la grande riforma della Legge finanziaria ispirata da un ordine del giorno bipartisan».
Anche la maggioranza ha criticato i pochi margini lasciati al dibattito.
«Quella che in Italia si chiama Finanziaria, e che in tutta Europa si chiama budget , cioè bilancio, non è una legge ordinaria, non lo è da nessuna parte. La simbologia più forte è quella britannica, quando il Cancelliere dello Scacchiere si presenta a Westminster con la valigetta rossa chiusa per indicare il prendere o lasciare. Non che siano così rigidi: è che la discussione tecnica e politica è avvenuta prima, e fuori dall'Aula, riservandosi a sua volta l'Aula il potere sovrano di dire sì o no. In tutti i Paesi europei le procedure di voto sul bilancio sono speciali: dal voto bloccato alla sfiducia costruttiva. La storia italiana è un po' diversa: finita l'unità nazionale che aveva certo dato avvio al deficit spending, ma con una visione organica, è iniziata la stagione dissennata degli assalti alla diligenza. Il Parlamento, nato nella storia per controllare la spesa del sovrano, è così diventato il sovrano della spesa in deficit, girando alle generazioni future il terzo debito pubblico del mondo. L'inversione sui grandi numeri c'è stata negli anni ’90, quella nelle prassi parlamentari dall'ottobre del 2001, quando ho chiesto la prima fiducia sulla manovra. Nel 2008 si è concretizzata l’intesa bipartisan per concentrare la discussione sui grandi numeri e le grandi scelte, e ora finalmente abbiamo la riforma della Finanziaria».
È stata proprio la richiesta di fiducia sulla Finanziaria a scatenare le polemiche.
«La discussione e le votazioni su questa Finanziaria sono state ordinate nel merito e condivise fino alla violenza di domenica scorsa. L’intesa era che la fiducia in Aula sarebbe stata considerata 'corretta' se posta sul testo votato dalla commissione Bilancio dopo l'estensione dei tempi per la discussione saggiamente concessa dalla presidenza della Camera. Dopo i fatti di domenica scorsa si è fatta l'ipotesi, politicamente intelligente, di rinunciare alla fiducia per trasmettere all'opposizione un messaggio di 'apertura'. In questa logica ho chiesto all’opposizione di fare anche lei un passo, ritirare gli emendamenti per aprire in Aula un grande dibattito sulla politica economica. Pur manifestando interesse di principio, confermato dalla disponibilità a una modifica dei regolamenti parlamentari coerente con la riforma del bilancio, la scelta dell’opposizione è stata quella di conservare gli emendamenti».
Erano appena cinquanta...
«Erano 100 pagine con un volume di interventi superiore a quello della Finanziaria stessa e con un limite intrinseco, non tecnico, ma politico. Il bilancio dello Stato, giusto o sbagliato che sia, è costruito come una 'cattedrale', come un insieme che si tiene organicamente. Non puoi togliere un'architrave per sostituirla più o meno casualmente con un'altra, nel caos concitato di cinquanta votazioni il cui esito avrebbe dovuto essere, senza alternative, cinquanta no. Non era il modo migliore per aprire il dialogo».
Fini ha definito «deprecabile» la fiducia e parlato di problemi con la maggioranza.
«Con Fini ci siamo parlati a lungo e con reciproca cordiale comprensione, come è stato negli ultimi anni. Ci sono due tipi di fiducia: la fiducia-fiducia e la fiducia-tecnica. Quella tecnica è un espediente parlamentare. Quella politica è politica: il governo chiama alla fiducia la sua maggioranza non perché la teme, ma perché ne vuole la fiducia. E l’effetto finale non è di debolezza, ma di forza. Non mi sembra questo il tempo, per inciso, per errori o rischi sul bilancio pubblico».
Pronti al dialogo? Tra voi c’è chi parla di componenti eversive nell'opposizione.
«Sui grandi temi della politica economica, che poi sono quelli che interessano la vita delle persone, dalle pensioni al lavoro, alla salute, e questa Finanziaria per esempio incorpora un grande accordo con tutte le Regioni proprio sulla sanità, non c’è mai stato contrasto, ma costruzione comune, seppure nella dialettica. C’è piuttosto, in Italia, un fattore-rischio politico. Se la politica continua a divorare se stessa nella lotta, convinta di fare il proprio interesse, in realtà finisce per essere la prima vittima».
È il momento delle riforme condivise?
«La crisi ha avuto un impatto economico più o meno forte su tutti i Paesi, ma dovunque si è presentata come crisi esterna. In Italia è un po’ diverso: c’è il rischio di una doppia crisi, esterna ed interna. Quella di origine esterna ha avuto e ha in Italia un impatto relativamente minore. Non ignoro che settori, situazioni, famiglie e persone ne soffrano, ma il sistema ha tenuto, tiene e terrà non peggio che altrove, anzi. Ma abbiamo un sistema politico che da un lato è vecchio e poco efficiente, dall’altro tende ad autodistruggersi. Possiamo restare l’unico Paese che ha due Camere, il bicameralismo perfetto e di conseguenza, quattro, sei, otto o più voti su ciascun singolo comma o articolo di legge? Possiamo andare avanti con un continuo crescente conflitto di poteri alimentato da componenti paranoiche e parossistiche della vita cosiddetta civile?».
La via per le riforme è una Bicamerale?
«In questi mesi ho riflettuto a lungo con il presidente del Consiglio sulle riforme istituzionali, abbiamo parlato della Bicamerale, del Titolo Quinto, del federalismo, della Bozza Violante. La missione delle riforme è nel nostro programma elettorale e in aggiunta, per ridurre la 'cifra' della violenza, va notato che le riforme costituzionali non divorano, ma all’opposto legittimano i loro padri. Le tecniche di riforma possono essere diverse, interne al Parlamento, o esterne, con la creazione di un corpo ad hoc, Convenzione o Bicamerale. La Bicamerale di D’Alema, ma non si fissi sul nome bicamerale, fu votata in soli sei mesi, estate inclusa. La pacificazione e la modernizzazione del Paese postulano, per l’interesse generale e nell’interesse generale, l’esclusione dell’intero corpo politico da pressioni esterne».
Pensa all’immunità?
«Mi pare che nella sua saggezza, costituente dell’architettura dell’Unione, il Parlamento europeo abbia qualcosa di molto simile».
C’è un punto da cui ripartire?
«Riprendere nella lettera e nello spirito comune la Bozza Violante con cui è terminata l’altra legislatura sarebbe il modo migliore per continuare il cammino».
D’Alema dice che dagli inciuci può nascere qualcosa di buono...
«Un impegno costituente comune avrebbe un effetto naturale di pacificazione».
Che tipo di riforma fiscale immagina?
«Ho cominciato a parlarne con il presidente del Consiglio, riprendendo il nostro Libro bianco del ’94: 'dal complesso al semplice, dal centro alla periferia, dalle persone alle cose'. Il nostro sistema fiscale è stato pensato negli anni ’60, avviato negli anni ’70 e poi continuamente rattoppato, peggiorato significativamente con l’Irap, migliorato marginalmente con il 5 per mille. Nel frattempo, in quarant’anni, tutto è cambiato. È cambiato il modello economico, la grande fabbrica sostituita dai distretti, dalle piccole e medie imprese e da 8 milioni di partite Iva. È variato il modello competitivo: allora l’obiettivo era entrare nel 'Mercato unico europeo', adesso quello europeo non è più l’unico mercato. Sono variati il modello tecnologico, con la rivoluzione informatica, il modello sociale, con l’inversione del rapporto tra giovani e vecchi e l’arrivo di milioni di immigrati, il modello ambientale, perché l’ambiente non è più risorsa da consumare, ma da conservare. Ed è variato soprattutto il modello istituzionale, con il federalismo. Non credo si possa immaginare il futuro come una continuazione del passato. Conosciamo le enormi difficoltà e le nostre responsabilità verso l’Europa, che dovrà comunque esprimere il suo parere, ma sappiamo anche che il rapporto fiscale è quello fondamentale tra lo Stato e i cittadini, tra lo Stato e l’economia. Non possiamo entrare nel nuovo secolo con la visione del vecchio. Un sistema che esprima sfavore per la speculazione finanziaria e per la distruzione ambientale, e favore per la famiglia con i bambini, il lavoro, la ricerca e l’ambiente: questo era il sogno fatto nel ’94 con Silvio Berlusconi».
Mario Sensini
20 dicembre 2009
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