L'uno-due che doveva disarcionare il Cavaliere, prima l'aula di tribunale e poi la piazza come tribunale, non sembra essere andato a segno. Nonostante il Financial Times scommetta che prima o poi accadrà, e nonostante che la politica italiana continui ancora a dipendere da ciò che dirà un boss mafioso (stavolta Graviano), Berlusconi è uscito politicamente rafforzato, non indebolito, dall'Armageddon che era stato annunciato. L'enormità dell'accusa rivoltagli è tale che perfino chi non lo ama tituba. Insomma: credere che Silvio abbia corrotto il teste Mills è una cosa, accettare l'idea che abbia organizzato stragi mafiose è tutt'altra.
È un po' come la storia di al lupo al lupo. E infatti, non a caso, a gridare al lupo Spatuzza sono stati più i giornali vicini al Cavaliere che quelli a lui avversi. Il risultato politico inevitabile è che Fini stesso ha dovuto ricompattarsi, e per qualche giorno almeno si è messa la sordina allo scontro interno che dilania il Pdl. Di più: il No B. Day, la giornata che doveva imprimere negli italiani l'immagine di un Berlusconi amico dei mafiosi, ha perso le aperture dei giornali a vantaggio di due clamorosi arresti di mafiosi. Il premier dovrà fare un bel regalo di Natale a Maroni, se non l'ha già fatto.
All'inverso, e solo apparentemente per paradosso, il No B. Day ha lasciato invece il segno sull'altro B. della politica italiana: Bersani. È lui, non il Cavaliere, che ora è chiamato a discolparsi. Non di collusioni con la mafia, ovviamente, ma, peggio, di collusioni con il Cavaliere: «Certe volte - ha detto Ezio Mauro, il direttore di Repubblica - sembra che i leader del Pd e la loro base abbiano avversari politici diversi». Nel senso: gli elettori ce l'hanno con Berlusconi, ma il Pd no.
È una vecchia storia. E sempre la stessa. Raccolta di firme - articoli sui giornali - mobilitazione sul web - piazza. Segue dibattito: perché il Pd non c'era? Una storia così vecchia che Bersani è stato più che generoso nel vederci l'emergere di «energie nuove»: si sarà riferito a Dario Fo e Franca Rame? O a Moni Ovadia e Roberto Vecchioni? Chissà. Fatto sta che a lui si chiede conto, mica a Berlusconi.
E già. Perché anche chi in piazza ci è andato sapeva benissimo che l'obiettivo dichiarato come principale, disarcionare il Cavaliere, era finto, o impossibile. A chi si domanda perché il Pd non ha aderito alla manifestazione e perché Bersani non c' è andato, basterebbe rispondere così: perché la parola d'ordine del No B. Day era «Berlusconi dimettiti». E questa, semplicemente, non è la parola d'ordine del Pd. A dire il vero, nemmeno di Repubblica. Dove nessuno, neanche per Noemi, meno che mai per Spatuzza, ha finora tratto questa conclusione: Berlusconi si deve dimettere. E per le ragioni che lo stesso fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ha scritto nel suo fondo domenicale: «Quando si arriva alle intenzioni di voto, si scopre che il consenso verso il governo è ancora sopra al 50% e il Pdl e la Lega sono posizionati a quota 49%. Se si votasse domani con questa legge elettorale, la coalizione guidata da Berlusconi vincerebbe ancora largamente».
Questa è la ragione per cui il Pd non chiede le dimissioni del governo: perché sa che non le otterrebbe, perché sa che il governo dispone del requisito costituzionale di un'ampia maggioranza parlamentare, perché sa che se le chiederebbe ricompatterebbe il centrodestra anche più di quanto non abbia fatto Spatuzza. E perché sa che se pure Berlusconi l'ascoltasse sarebbe per spazzarlo via il giorno dopo nelle urne. Ecco perché il Pd non aderisce a una manifestazione che ha come parola d'ordine «Berlusconi dimettiti». Ma la Repubblica, che pure lo sa, vorrebbe che il Pd aderisse a quella parola d'ordine, compiendo un mini-suicidio politico.
Però Bersani sembra fatto di un'altra pasta rispetto a chi l'ha preceduto. Il suo «lodo viola» è stato perfetto: vada chi vuole, io non vado. Amici sì, servi no. Propongo anzi che da ora in poi a tutte le manifestazione autoconvocate da Repubblica ci vadano sempre Franceschini e la Bindi, e se ha tempo anche Veltroni. Delegati alla piazza. Gli altri nei circoli a far politica. Come ha fatto stavolta il Pd. Il quale, per la prima volta dopo molto tempo, sembra avere una coerenza e una direzione di marcia, che può rafforzarlo.
Spezzare quel consenso che Scalfari vede così granitico - e che forse non lo è poi tanto - è infatti opera lunga e difficile che presuppone l'esistenza di partito politico serio, che si occupa del paese e non delle sue avanguardie viola, che non dà l'idea di amare le piazzate, che pensa alle leggi da fare, piuttosto che ai processi da guardare. Nelle stesse ore della mancata manifestazione, il Pd ha fatto qualcosa di molto più radicale, in termini di opposizione: ha fatto l'Aventino nella commissione parlamentare dove si vota la Finanziaria. Ma questo, si sa, non basta a conquistarsi patenti di buon oppositore, ai giorni nostri, se non si va a battere le mani in corteo.
La storia delle resurrezioni di Berlusconi è del resto costellata di boomerang giudiziari: sembra finito, sembra alle corde, sembra boccheggiante, sotto i colpi di un pm o di un verbale di pentito. E, come d'incanto, il Caimano risorge dalle sue ceneri appena quell'accusa s'inceppa, si stempera, o si ribalta. Potrebbe succedere anche stavolta. Perché mai allora si vorrebbe trascinare il maggior partito di opposizione in una trappola così? Chiunque abbia un po' di buon senso sa che solo due cose possono far danni al Cavaliere: la politica e il consenso. Non si capisce perché si pretende che l'unico che non debba capirlo è Bersani. Oppure si capisce benissimo.
8 dicembre 2009
È un po' come la storia di al lupo al lupo. E infatti, non a caso, a gridare al lupo Spatuzza sono stati più i giornali vicini al Cavaliere che quelli a lui avversi. Il risultato politico inevitabile è che Fini stesso ha dovuto ricompattarsi, e per qualche giorno almeno si è messa la sordina allo scontro interno che dilania il Pdl. Di più: il No B. Day, la giornata che doveva imprimere negli italiani l'immagine di un Berlusconi amico dei mafiosi, ha perso le aperture dei giornali a vantaggio di due clamorosi arresti di mafiosi. Il premier dovrà fare un bel regalo di Natale a Maroni, se non l'ha già fatto.
All'inverso, e solo apparentemente per paradosso, il No B. Day ha lasciato invece il segno sull'altro B. della politica italiana: Bersani. È lui, non il Cavaliere, che ora è chiamato a discolparsi. Non di collusioni con la mafia, ovviamente, ma, peggio, di collusioni con il Cavaliere: «Certe volte - ha detto Ezio Mauro, il direttore di Repubblica - sembra che i leader del Pd e la loro base abbiano avversari politici diversi». Nel senso: gli elettori ce l'hanno con Berlusconi, ma il Pd no.
È una vecchia storia. E sempre la stessa. Raccolta di firme - articoli sui giornali - mobilitazione sul web - piazza. Segue dibattito: perché il Pd non c'era? Una storia così vecchia che Bersani è stato più che generoso nel vederci l'emergere di «energie nuove»: si sarà riferito a Dario Fo e Franca Rame? O a Moni Ovadia e Roberto Vecchioni? Chissà. Fatto sta che a lui si chiede conto, mica a Berlusconi.
E già. Perché anche chi in piazza ci è andato sapeva benissimo che l'obiettivo dichiarato come principale, disarcionare il Cavaliere, era finto, o impossibile. A chi si domanda perché il Pd non ha aderito alla manifestazione e perché Bersani non c' è andato, basterebbe rispondere così: perché la parola d'ordine del No B. Day era «Berlusconi dimettiti». E questa, semplicemente, non è la parola d'ordine del Pd. A dire il vero, nemmeno di Repubblica. Dove nessuno, neanche per Noemi, meno che mai per Spatuzza, ha finora tratto questa conclusione: Berlusconi si deve dimettere. E per le ragioni che lo stesso fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ha scritto nel suo fondo domenicale: «Quando si arriva alle intenzioni di voto, si scopre che il consenso verso il governo è ancora sopra al 50% e il Pdl e la Lega sono posizionati a quota 49%. Se si votasse domani con questa legge elettorale, la coalizione guidata da Berlusconi vincerebbe ancora largamente».
Questa è la ragione per cui il Pd non chiede le dimissioni del governo: perché sa che non le otterrebbe, perché sa che il governo dispone del requisito costituzionale di un'ampia maggioranza parlamentare, perché sa che se le chiederebbe ricompatterebbe il centrodestra anche più di quanto non abbia fatto Spatuzza. E perché sa che se pure Berlusconi l'ascoltasse sarebbe per spazzarlo via il giorno dopo nelle urne. Ecco perché il Pd non aderisce a una manifestazione che ha come parola d'ordine «Berlusconi dimettiti». Ma la Repubblica, che pure lo sa, vorrebbe che il Pd aderisse a quella parola d'ordine, compiendo un mini-suicidio politico.
Però Bersani sembra fatto di un'altra pasta rispetto a chi l'ha preceduto. Il suo «lodo viola» è stato perfetto: vada chi vuole, io non vado. Amici sì, servi no. Propongo anzi che da ora in poi a tutte le manifestazione autoconvocate da Repubblica ci vadano sempre Franceschini e la Bindi, e se ha tempo anche Veltroni. Delegati alla piazza. Gli altri nei circoli a far politica. Come ha fatto stavolta il Pd. Il quale, per la prima volta dopo molto tempo, sembra avere una coerenza e una direzione di marcia, che può rafforzarlo.
Spezzare quel consenso che Scalfari vede così granitico - e che forse non lo è poi tanto - è infatti opera lunga e difficile che presuppone l'esistenza di partito politico serio, che si occupa del paese e non delle sue avanguardie viola, che non dà l'idea di amare le piazzate, che pensa alle leggi da fare, piuttosto che ai processi da guardare. Nelle stesse ore della mancata manifestazione, il Pd ha fatto qualcosa di molto più radicale, in termini di opposizione: ha fatto l'Aventino nella commissione parlamentare dove si vota la Finanziaria. Ma questo, si sa, non basta a conquistarsi patenti di buon oppositore, ai giorni nostri, se non si va a battere le mani in corteo.
La storia delle resurrezioni di Berlusconi è del resto costellata di boomerang giudiziari: sembra finito, sembra alle corde, sembra boccheggiante, sotto i colpi di un pm o di un verbale di pentito. E, come d'incanto, il Caimano risorge dalle sue ceneri appena quell'accusa s'inceppa, si stempera, o si ribalta. Potrebbe succedere anche stavolta. Perché mai allora si vorrebbe trascinare il maggior partito di opposizione in una trappola così? Chiunque abbia un po' di buon senso sa che solo due cose possono far danni al Cavaliere: la politica e il consenso. Non si capisce perché si pretende che l'unico che non debba capirlo è Bersani. Oppure si capisce benissimo.
8 dicembre 2009
1 commento:
Una analisi tutt'altro che condivisibile, che risente della proprietà del quotidiano (la famiglia Angelucci) e cade in una contraddizione logica proprio nel finale, laddove Polito dice: "Chiunque abbia un po' di buon senso sa che solo due cose possono far danni al Cavaliere: la politica e il consenso."
Appunto: quello in quella piazza cos'era, una scampagnata fuori porta? Era consenso Polito, e Bersani ha perso l'occasione per convogliarlo decisamente nel PD, nonostante le ripetute esortazioni di di Pietro, prontissimo a cogliere l'occasione.
Strano che Polito non citi mai Di Pietro, altri quando lo citano (Piercasinando, per es.) lo fanno per stigmatizzarne la politica di opposione e di ripristino della legalità, bollandola come 'giustizialismo'.
Cosa dovrebbero fare i cittadini, rassegnarsi o dare i voti a Pier Ferdinando Casini, col suo trascorso DC e cinque anni di legislatura con Forza Italia e AN, gratificato con l'elezione a Presidente della Camera?
La realtà è che Di Pietro fa paura a tutti, è intelligente e scaltro e tanto mi basta.
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