venerdì 18 dicembre 2009

Garlasco, niente prove e tanti pregiudizi, ma ha vinto Alberto, il ragazzo no-fiction


di NATALIA ASPESI

Non c'era la certezza dell'innocenza. Non c'era la certezza della colpa. Quindi il giudice dell'udienza preliminare Stefano Vitelli, che da solo, in base ai risultati del lungo processo, doveva decidere, ha scelto secondo giustizia.

Per arrivare a una condanna, dice l'art. 530 del codice di procedura penale, bisogna che l'imputato risulti colpevole "al di là di ogni ragionevole dubbio", frase di derivazione americana che ha sostituito l'italiana "per insufficienza di prove". E di dubbi ragionevoli ce ne erano una montagna, in questa storia delittuosa, resa inestricabile dall'accavallarsi di indagini disordinate, dall'intervento esagerato di una ventina di periti di ogni genere, dalle solite assurde chiacchiere di paese e da virtuali scoop giornalistici, che hanno oscurato uno dei tanti delitti orribili di questi anni, quelli che hanno come vittima una giovane donna. E siccome ormai capita sempre più spesso che ad ammazzarla sia una persona molto vicina, un marito geloso, un amante abbandonato, anche un padre-padrone, o un fidanzato fragile, poche ore dopo il massacro a randellate di Chiara Poggi già si puntavano gli occhi i sussurri e i primi sospetti su quel suo ragazzo carino e sfuggente, dalla vita normale, di cui perciò c'era poco se non niente da raccontare: e già questo pareva un indizio.

Adesso Alberto Stasi, due anni e quattro mesi dopo quella mattina del 13 agosto del 2007, quando, in una Garlasco semivuota per le ferie, entrò nella casa dove Chiara era sola perché i genitori erano in ferie, per ritrovarla ammazzata su un pavimento chiazzato di sangue, esce da un lungo incubo che ha sopportato con silenzioso e indecifrabile distacco. Ha continuato la sua vita, in quel paese di cui era diventato un ambiguo eroe negativo, ha studiato, si è laureato, non ha dato notizie di sé, non ha alimentato le cronache, è rimasto nell'ombra delle sue semplici giornate, ha sopportato gli sguardi dei suoi compaesani, si è sottratto ad ogni esibizionismo. Si sa che soprattutto nei talk-show, i sospettati di crimini e gli accusati degli stessi prima durante e dopo i processi, sono star molto richieste perché consentono epocali scontri tra colpevolisti e innocentisti, essendo di solito il conduttore propenso all'innocenza anche per non perdere il fruttuoso personaggio. Rifiutando questo palcoscenico, Stasi non è stato a un gioco che tutti ormai sembrano pretendere, in questo modo aumentando la sospettosità della gente-pubblico. E già sin dall'inizio, i colpevolisti sembravano molti di più degli innocentisti, e anche per ragioni antilombrosiane: se infatti il vecchio studioso indicava come tratti fisiognomici del criminale quelli che oggi caratterizzano molti politici (ovviamente innocenti), Alberto, che al momento della tragedia aveva 24 anni, pareva e tuttora pare, un cherubino: biondo, pallido, dai tratti gentili, occhi chiari e innocenti, corpo ancora adolescente. E questa sua antilombrosità era un'altra ragione per ritenerlo l'assassino.

Si sa che ci sono regole di comportamento codificate dalle fiction televisive e in passato dalle sceneggiate napoletane: l'innocente strepita e durante il funerale della donna amata e uccisa si dispera, singhiozza, si fa sostenere dai parenti, sviene, invoca la cattura del colpevole. Alberto, neppure una lacrima: come si fa a credere a uno così, essendo la dignità e il pudore virtù che non fanno spettacolo, perciò del tutto dimenticate? Certo, c'era stato qualche tentativo di trovare altri colpevoli, alacremente segnalati dalle news, un parente alla lontana, due cugine gemelle sciocchine, forse anche un immancabile extracomunitario, però mai segnalato nella zona. Per fortuna c'era quel ragazzo lì, neppure tanto simpatico, il colpevole ideale.

Una girandola di storie si abbatteva su di lui, sempre più splatter, biciclette sporche di sangue, scarpe troppo pulite, sospetti di pedofilia informatica, i suoi computer e cellulari rivoltati da squadre di esperti, ora del massacro e orari dei suoi spostamenti continuamente ribaltati. Da questa montagna di indizi fluttuanti e intercambiabili non è venuta fuori una prova provabile. In tanto tempo, nessuno tra gli alacri detective e giornalisti in veste di Sherlock Holmes sono riusciti a trovare qualcosa che potesse essere definita l'arma del delitto. Di solito poi se si ammazza una ragione c'è, pur assurda: questo processo è nato invece per far luce su un delitto senza un movente, se non quelli che la fantasia può suggerire. Magari veri, reali, ma se non li puoi provare restano immaginari.

Il pm e le parti civili avevano chiesto 30 anni e si può immaginare come quel ragazzo dall'aria chiusa abbia aspettato la sentenza: che è stata letta a porte chiuse, ma già pochi minuti dopo si sapeva che Alberto Stasi, giudicato innocente, finalmente abbia pianto, dopo mesi e mesi in cui ha negato agli altri lo spettacolo delle sue lacrime. Capita così che qualcuno cominci a pensare che forse da quella mattina tragica in cui ha visto il corpo esanime della sua ragazza abbia provato un sentimento che nessuno sino ad ora aveva pensato di attribuirgli: magari sensi di colpa, magari paura, magari vergogna, sì, ma dolore, il dolore della perdita e della assenza, no. I legali della famiglia Poggi forse ricorreranno in appello: ragionevolmente, perché non è possibile accettare che nessuno paghi per l'atroce fine della loro bambina, di quella giovane donna studiosa che aveva tutta la vita davanti. Ma se Alberto Stasi è davvero innocente come dice la sentenza, sarebbe orribile che fosse lui a pagare. Pare anche impossibile ricominciare a indagare, a cercare un diverso colpevole, nel deserto immemore che resta di quella tragedia. Intanto il presunto assassino, dichiarato innocente dalla sentenza di primo grado, è giovane e chiude col passato: dicono che abbia un'altra ragazza, e Chiara per lui non è ormai forse, altro che l'ombra sempre più evanescente di un incubo.

(18 dicembre 2009)

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