mercoledì 16 dicembre 2009

Giustizia, a qualcuno piace sorda


di Gian Carlo Caselli


La giustizia è cieca. Ma l’importante è che sia sorda. Questo dialogo di una vignetta di Altan sembra ispirare la politica della maggioranza in tema di giustizia. Il Senato finirà per approvare una riforma delle intercettazioni che ridurrà all’osso la possibilità di ascoltare le conversazioni di fior di delinquenti sui delitti commessi o da commettere: il che significa assicurare loro consistenti prospettive di impunità, sacrificando la sicurezza dei cittadini tutti per coprire i vizi pubblici o privati di questo o di quello.
Ma l’obiettivo della “sordità” della giustizia sembra essere, per qualcuno, una vera ossessione. E allora, in attesa del Senato, ecco che (come anticipato dal Fatto) ci si porta avanti col lavoro, inserendo d’improvviso nella Finanziaria un emendamento che fissa un tetto di spesa per le intercettazioni. Poiché “spettano al ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” (art. 110 Costituzione), sarebbe lecito aspettarsi una qualche resistenza all’emendamento in via Arenula. Al contrario, ecco che il ministero, senza fare una piega, prende atto – con apposita tempestiva circolare – della novità e semplicemente avverte gli uffici giudiziari che ad essa dovranno adeguarsi. Ora, che le risorse non siano infinite e che occorrano limiti e controlli per evitare sprechi è ovvio. Ma fissare un tetto inderogabile di spesa in base a considerazioni meramente contabili, senza tenere in nessun conto le esigenze delle indagini, significa depotenziare l’attività delle forze dell’ordine e della magistratura a tutela dei diritti e della sicurezza dei cittadini. Quando i soldi finiscono (nonostante un’oculata gestione delle risorse) che si fa? Si dichiara non doversi procedere per... mancanza di fondi? Cerchiamo di non farglielo sapere, ai delinquenti, sennò sai che figura. Ad incupire il quadro concorrono poi altri profili. Ad esempio il progetto del cosiddetto “processo breve” . L’uso di questa accattivante formuletta (degna di un pubblicitario spregiudicato e scaltro) non deve ingannare. Come si fa a non essere d’accordo? Rifiutare il “processo breve” sarebbe come rifiutare una medicina capace di debellare il cancro. Assurdo! Ma non basta fissare un traguardo, bisogna anche fare in modo che esso sia davvero raggiungibile. Se la pista (cioè la procedura) è un labirinto pieno di trabocchetti e di ostacoli, al traguardo non ci si arriva. E se l’operatore che dovrebbe correre su quella pista, invece di scarpette veloci (cioè mezzi e risorse), è costretto a usare scarponi da sci o da palombaro, hai voglia a fissare tempi stretti entro cui il processo deve finire a pena di estinzione... Siamo ai limiti della propaganda ingannevole. Più mezzi e risorse significa in particolare assumere nuovi segretari e cancellieri – oggi sotto organico mediamente del 15% –, mentre circolano ufficiosamente notizie secondo cui si vorrebbe... ridurre l’organico, mediamente proprio del 15 %. Un colpo da illusionista, che all’evidenza non porterà alcun miglioramento alla produttività degli uffici e alla durata dei processi.
Parlare di “processo breve” è poi in stravagante contraddizione con un altro progetto su cui il ministro della Giustizia dichiara spesso di puntare molto. Si tratta del ddl n. 1440 Senato, contenente modifiche al Codice di procedura penale in favore della difesa, la quale – tra l’altro – potrà presentare liste di testi con una lunghezza anche infinita, senza che il giudice possa (com’è nel sistema vigente) depennare le testimonianze manifestamente superflue. E non occorre essere giuristi per capire subito che in questo modo si va in rotta di collisione con qualunque prospettiva di accelerazione del processo. Lo scenario è poi complicato dal fatto incontestabile che ormai molte procure (soprattutto, ma non solo, in zone di “frontiera” della Sicilia e della Calabria) sono in situazione di insostenibile sofferenza per l’assenza di magistrati in quantità rilevante, talora persino in doppia cifra. Non intervenire con rimedi adeguati sul piano ordinamentale (senza confidare più di tanto nel “volontariato” individuale) significa rischiare la paralisi di importanti uffici. Si potrebbe invece ripristinare la possibilità di impiegare nelle procure anche magistrati di prima nomina, garantendo loro una formazione professionale “miratissima” , con un tirocinio specificamente modulato sulle concrete esigenze delle funzione da assolvere. Altrimenti potrebbe alla lunga prendere piede addirittura l’ipotesi (fin qui malevola e ingiusta) di una “inefficienza efficiente”, cioè funzionale a riforme di più ampio respiro, che usino i vuoti nelle procure come rampa di lancio per la separazione delle carriere, anticamera della dipendenza del pm dal potere esecutivo.
Per fortuna nel grigiore c’è anche un (ipotetico) raggio di luce. Le recenti esternazioni del ministro Alfano, secondo cui i magistrati – in particolare i pm – devono lavorare di più, senza andare in tv o fare convegni, così da assicurare la cattura di un maggior numero di latitanti, possono far pensare che il Guardasigilli voglia mettere in discussione, solo per i magistrati, il diritto di partecipare al dibattito e al confronto culturale sui temi della giustizia. E ciò in un paese in cui di giustizia discettano tutti – proprio tutti – e spesso con toni da bar. Ma paradossalmente si potrebbe anche pensare che il ministro abbia voluto (al di là dell’apparenza) attestare un fatto non da tutti ammesso: e cioè che la cattura dei latitanti, più che dei politici che se ne ammantano, è merito – oltre che delle forze di polizia – pure dei magistrati che le dirigono e coordinano. E in questa tormentata stagione, di attacchi furibondi e ingiusti ai magistrati, anche un ipotetico, pallido raggio di luce è sempre... meglio di niente.

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