Alla vigilia della deposizione dei capimafia, la sentenza di I° grado ricostruisce gli intrecci del braccio destro del premier con Cosa Nostra e gli accordi con Forza Italia
I RAPPORTI tra i Graviano e Dell’Utri. Le rassicurazioni che Forza Italia ha fornito ai boss alla vigilia del ‘94 e il patto elettorale con il partito di Berlusconi. Nella sentenza che ha condannato in primo grado il senatore Pdl a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa la chiave degli ultimi 15 anni di storia italiana. Dopo la puntata di ieri, ecco nuovi stralci del documento dei giudici di Palermo. Alla vigilia della deposizione - domani - proprio dei fratelli Graviano in una nuova puntata del processo d’Appello a Palermo al braccio destro del premier.
La Standa di Catania
Nel gennaio del 1990, i grandi magazzini Standa di Catania e provincia sono bersaglio di vari attentati incendiari, opera del clan Santapaola. La Standa appartiene da un paio d’anni alla Fininvest e Dell’Utri siede nel consiglio di amministrazione. Il fatto piú grave avviene all’ipermercato di via Etnea, il 18 gennaio 1990: l’intero edificio distrutto, danni da 14 miliardi di lire. Altri episodi meno gravi si susseguono il 21 gennaio, il 12, il 13 e il 16 febbraio. Poi la catena s’interrompe all’improvviso perché – scrivono i giudici – Dell’Utri si fa protagonista «di un’ennesima condotta di mediazione tra gli interessi di Cosa nostra e quelli del gruppo» Fininvest. Santapaola, essendo latitante, opera tramite il fratello Salvatore e il nipote Aldo Ercolano, figlio di sua sorella. Sia Nitto sia Aldo verranno condannati dalla Corte di Assise d’appello di Catania come mandanti degli incendi alla Standa e della tentata estorsione che ne seguí. Nello stesso periodo, anche i magazzini della Sigros (Rinascente, gruppo Agnelli) subiscono attentati estorsivi di stampo mafioso: se ne occupa un altro uomo di Santapaola, Salvatore Tuccio. Alla fine la Fiat, come racconteranno i suoi dirigenti, paga il pizzo a Cosa nostra e alla Sigros torna la quiete. Ma fra le estorsioni alla Standa e quelle contemporanee alla Sigros c’è un abisso. L’esecutore materiale degli attentati alla Standa, il mafioso catanese Severino Claudio Samperi, "accenna l’esistenza, accanto alla causale estorsiva, di ulteriori scopi perseguiti dai mandanti dei fatti criminosi, riferibili esclusivamente alla vicenda Standa e non all’estorsione ai danni del Sigros”. Anche l'ex senatore repubblicano Vincenzo Garraffa racconta che la sua amica Maria Pia La Malfa, moglie di Alberto Dell’Utri (gemello di Marcello), gli parlò degli attentati alla Standa: “Mi disse che Marcello Dell’Utri aveva risolto questo problema parlando con un certo Aldo Papalia, ma non so neanche chi sia. E mi disse anche che scese personalmente da Milano a Catania”. Chi è Aldo Papalia? Un imprenditore catanese processato e poi assolto dall’accusa di traffico d’armi, in affari con Publitalia e in ottimi rapporti sia con Alberto sia con Marcello Dell’Utri. Ma anche con Aldo Ercolano. Insomma, per i giudici Garraffa ha “colto nel segno” ed è totalmente “attendibile”: pur ignaro di chi fosse Papalia, l’ha indicato con nome e cognome. Diversi funzionari della Standa e poi gli stessi Berlusconi e Confalonieri raccontano però ai giudici che, dopo gli attentati, nessuno si fece vivo per chiedere alla società di pagare né lanciare altre minacce. Per i giudici, nessuno di loro dice la verità. Visto che è stata “acquisita la prova della mediazione di Dell’Utri” (sono stati trovati persino una serie di voli aerei di Dell'Utri a Catania nel periodo successivo agli attentati ndr), è “logico” che il Cavaliere “non abbia voluto fornire alcuna conferma in ordine all’effettiva sussistenza dell’«intervento» effettuato dal suo manager e amico [...], considerato il costante atteggiamento assunto da Silvio Berlusconi (e da Fedele Confalonieri) rispetto a tutte le condotte contestate a Dell’Utri in questo processo, una linea improntata all’assoluta protezione e tutela dell’imputato, fin dalle prime dichiarazioni risalenti al 1974”. .
Lo sponsor della Pallacanestro Trapani
Nell’estate del 1990 la Pallacanestro Trapani viene promossa dalla serie B alla serie A2. Il titolare, Vincenzo Garraffa, un medico e senatore nelle fila del partito repubblicano, si interessa per trovarle uno sponsor e si rivolge alla Publitalia, che lo mette in contatto con la multinazionale della birra Dreher-Heineken. Cosí, in agosto, firma il contratto con un marchio di quel gruppo, la Birra Messina, per un miliardo e mezzo di lire. Il denaro gli viene versato in due rate e lui, per i “diritti di agenzia”, gira come d’accordo a Publitalia prima 70 e poi 100 milioni in contanti. Ma a questo punto – come racconterà Garraffa agli inquirenti palermitani – si fanno vivi due uomini di Publitalia, Piovella e Biraghi, per battere ancora cassa: pretendono altri 530 milioni, in contanti e in nero, a titolo di “provvigione”. Garraffa chiede regolare fattura, ma gli rispondono picche. Allora propone di soddisfare la richiesta con una sponsorizzazione gratuita per la stagione successiva. Niente da fare. Cosí, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, Garraffa vola a Milano per incontrare Dell’Utri. Il quale gli conferma che la società non rilascerà alcuna fattura e gli ricorda che “i siciliani prima pagano e poi discutono”. Lui ribadisce di non avere fondi neri e di non poter pagare fuoribusta. Allora Dell’Utri lo ammonisce, scrivono i giudici, “con la frase, percepita come pregna di inquietante e minaccioso significato: «Ci pensi, perché abbiamo uomini e mezzi per convincerlo a pagare...». Dopo qualche mese e, comunque, prima della sua elezione a senatore della Repubblica (avvenuta in occasione delle elezioni politiche del 5 aprile 1992), il Garraffa riceve la visita presso il nosocomio di Trapani, dove allora era primario, di due individui: Virga Vincenzo e Buffa Michele”. Virga è il boss di Trapani: sarà arrestato nel febbraio 2001 e condannato all’ergastolo per mafia e per vari omicidi. Buffa è il suo guardaspalle. Sono le sette del mattino quando i due rendono visita a Garraffa. Virga gli rivolge poche, ma indimenticabili parole: “Sono stato incaricato da Marcello Dell’Utri e da altri amici di vedere come è possibile risolvere il problema di Publitalia”. Garraffa ripete: “Senza fattura, non intendo pagare”. Virga non si scompone: “Capisco, riferirò. Se ci sono delle novità la verrò a trovare, altrimenti il discorso è chiuso”. Garraffa aveva già incontrato Virga qualche anno prima. Per sua fortuna aveva curato il giovane figlio del boss, ridotto in fin di vita da un incidente con un trattore. Per questo il capo-mafia non se la sente di fare la voce troppo grossa con lui. In ogni caso non appena i due uomini d'onore se ne vanno, Garraffa racconta quella visita a due suoi collaboratori, Valentino Renzi e Giuseppe Vento. A quest’ultimo confida pure che “se gli fosse successo qualcosa si doveva trovare la spiegazione nel fatto che era stato avvicinato da personaggi di primo livello, uomini sentiti”. Poi rompe con Publitalia e si rivolge a un’altra agenzia. che però non riesce a trovargli uno sponsor per via – sostiene Garraffa – dell’ostracismo di Publitalia, la cui “influenza in quel campo era terribile”. Alla fine si inventa una specie di auto-sponsorizzazione antimafia, applicando sulle divise dei giocatori lo slogan pubblicitario “L’Altra Sicilia”. La Pallacanestro Trapani, intanto, viene promossa in serie A e viene invitata al Maurizio Costanzo Show, su Canale 5. Ma all’ultimo momento l’invito viene annullato da Costanzo in seguito – sostiene Garraffa – all’intervento personale di Dell’Utri. Allora l’imprenditore scrive tutta la sua amarezza in una lettera a Costanzo. Secondo i giudici di Palermo, “la versione dei fatti fornita dal dott. Vincenzo Garraffa [...] ha trovato sostanziale conferma nel risultato delle indagini”. Il Tribunale ascolta come testimone Maria Pia La Malfa, moglie di Alberto Dell’Utri e amica di Garraffa. La signora conferma che Garraffa andò a incontrare Marcello a Milano accompagnato da Alberto per parlare della “sponsorizzazione”. Ma non raggiunse alcun accordo. E, al ritorno, si lamentò con lei e col marito perché “fu trattato proprio... fu sbattuto fuori all’ufficio”. Dunque “le dichiarazioni rese dalla La Malfa offrono obiettivo riscontro alla versione dei fatti fornita dal Garraffa e smentiscono quella di Marcello Dell’Utri, il quale ha sostenuto che i suoi incontri con il Garraffa erano dovuti a motivi del tutto diversi”.
Perché Dell’Utri spinse il braccio di ferro con Garraffa al punto da mandargli un boss mafioso? “La spiegazione dell’arcano, ad avviso del Collegio, risiede nel forte ed illecito interesse di Publitalia e conseguentemente di Marcello Dell’Utri, nell’operazione di sponsorizzazione da parte della Dreher-Heineken, quale è stato reso palese dalle risultanze processuali che hanno riscontrato la denuncia del Garraffa, e cioè quello di ricevere denaro in contanti ed in nero al fine di costituire fondi occulti, attraverso la restituzione a Publitalia da parte della Pallacanestro Trapani della somma di 750 milioni, pari alla metà dell’intero importo della sponsorizzazione. E che la costituzione di fondi occulti sia stata una «esercitazione» di contabilità in nero non inusuale in Publitalia è comprovato dal processo penale celebrato davanti l’autorità giudiziaria torinese a carico di Marcello Dell’Utri”.
Infine, secondo il Tribunale di Palermo, sono provati i rapporti di Dell’Utri con la mafia trapanese, oltreché con quella catanese e palermitana: “La notizia, appresa de relato, della vicinanza di Marcello Dell’Utri agli uomini d’onore del mandamento di Trapani (i quali «l’avevano nelle mani») deve ritenersi attendibile perché proveniente da un uomo d’onore, Vito Parisi, molto vicino a Vincenzo Virga, capo di quel mandamento, e pertanto ben a conoscenza delle relative dinamiche interne e dei rapporti con persone estranee a Cosa nostra ma contigue alla stessa”.
Per questo caso, nel 2004 il Tribunale di Milano ha condannato sia Virga sia Dell’Utri a 2 anni di carcere ciascuno per tentata estorsione aggravata ai danni di Garraffa, condanna confermata in appello, ma pio annullata in cassazione, che ha rinviato il acso a un nuovo processo d’appello. Qui i giudici hanno de-rubricato l’accusa di tentata estorsione in minacce gravi e dichiarato il reato ormai prescritto. Chi sollecitò Virga a intervenire su Garraffa per conto di Dell’Utri? I giudici di Palermo non hanno dubbi: “L’intervento del Virga non poteva che essere stato sollecitato da altri «uomini» e cioè da influenti esponenti della Cosa nostra trapanese, proprio come riferito da Vincenzo Sinacori il quale, ottemperando all’incarico ricevuto da Matteo Messina Denaro, affidò al Virga l’incombenza di «contattare» Vincenzo Garraffa al fine di risolvere la «questione» che interessava Dell’Utri. Il collaboranteha dichiarato di avere appreso da Messina Denaro (l'attuale numero uno di Cosa Nostra, responsabile delle stragi del '93 ndr) che il Garraffa doveva essere contattato per un «discorso», relativo a somme di denaro, al quale era «forse» interessato Dell’Utri ma che «era tramite Mangano”.
I Graviano, boss di Brancaccio
Anche i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, capi-mafia del quartiere palermitano di Brancaccio e organizzatori delle stragi del ’93 a Milano, arrestati il 27 gennaio 1994 dai carabinieri nella trattoria milanese “Da Gigi il Cacciatore” dopo anni di latitanza, avevano “accertati rapporti e contatti, diretti o mediati da terze persone” con Dell’Utri. Insieme a loro, vengono arrestatiicognati Salvatore Spataro e Giuseppe D’Agostino, anch’essi palermitani, che avevano favorito la loro latitanza. Quando gli chiedono che cosa ci faccia a Milano, D’Agostino spiega di esserci giunto nel ’92 insieme a Francesco Piacenti e a Carmelo Barone, i quali gli avevano promesso un interessamento presso il “sig. Dell’Utri” per trovargli un lavoro. Poi però Barone morí all’improvviso e non se ne fece nulla. Interrogato dai carabinieri, Dell’Utri sostiene che D’Agostino, Barone e Piacenti sono per lui dei perfetti sconosciuti: mai sentiti nominare. Ma, secondo il Tribunale, mente. Nella sue agende il nome “Barone Melo” (diminutivo di Carmelo), compare spesso, pure seguito dai numeri telefonici dell’abitazione e dell’auto. Risentito sul punto a Palerm all’inizio Dell’Utri dice di non ricordare nessun Barone “nel contesto di cui qui si sta parlando”. Ma poi Giuseppe D’Agostino viene riarrestato: non piú per favoreggiamento, ma per mafia, e decide di collaborare con la giustizia. “Le dichiarazioni rese dal D’Agostino hanno fornito la chiave di lettura del contenuto di alcune significative annotazioni riportate nelle agende curate dalla segretaria dell’imputato. In particolare, sotto la data del 2 settembre 1992, è stata rinvenuta una annotazione nell’ambito della quale si parla di tale «Melo», con un cognome non riconoscibile accanto, e l’indicazione: «interessa al Milan». Altre conferme alle dichiarazioni del D’Agostino si rinvengono in altre annotazioni quali l’indicazione «10 anni» (quanti ne contava all’epoca il figlio del collaborante), «in ritiro pullman del Milan, interessato D’agostino Giacomo (Patrassi – Zagatti)». I due cognomi indicati tra parentesi sono quelli di due tecnici della società di calcio del Milan ai quali si sarebbe dovuto presentare il figlio del D’Agostino [...] per essere sottoposto ad un provino”. Anche il cognato Salvatore Spataro collabora e conferma il racconto di D’Agostino. “In sintesi, dal complesso delle dichiarazioni rese dai due collaboranti emerge che il D’Agostino, intenzionato a far entrare il figlio Gaetano nel settore giovanile della squadra del Milan, aveva interessato Melo Barone, appassionato del gioco del calcio e presidente di una squadra dilettantistica locale, il quale si era rivolto a Marcello Dell’Utri ottenendo che il giovanissimo D’Agostino Gaetano, che contava 10 anni, effettuasse un provino per il Milan nell’anno 1992. Dopo il decesso del Barone, avvenuto alla fine di quell’anno, il D’Agostino non si era perso d’animo e, allo scopo di raggiungere l’obiettivo prefissosi, si era rivolto ai fratelli Graviano, i quali si erano detti disponibili a favorirlo e gli avevano fatto capire che non sarebbe stato un problema per loro contattare i responsabili del Milan e procuragli un posto di lavoro a Milano presso una catena di esercizi commerciali, che gli inquirenti hanno, poi, individuato nell’«Euromercato» facente parte del gruppo Fininvest”. Dunque, nel 1996, Dell’Utri dice di non sapere chi sia Melo Barone, anche se compare nelle sue agende con il diminutivo “Melo”. Allora gli leggono le dichiarazioni del pentito Pasquale Di Filippo, il quale racconta che Barone – legato al clan Graviano – era stato titolare di un negozio di abbigliamento a Palermo. A quel punto gli torna la memoria e ricordato di aver conosciuto un Barone, commerciante di tessuti, presidente della squadra di calcio “Juventina”, mai piú rivisto dopo il suo allontanamento da Palermo. Ma anche questa è una bugia: “Che tra il Barone e l’imputato non vi fosse stata soltanto una lontana conoscenza, dovuta alla comune passione per il pallone, è dimostrato da documentazione, reperita presso le aziende Fininvest ed acquisita agli atti, dalla quale risulta che: la “dott.ssa Lattuada di Fininvest”, segretaria personale dell’imputato, aveva, nel gennaio 1993, segnalato per l’acquisto un immobile, ubicato in Via Lincoln a Palermo, il cui proprietario era il “sig. Barone”, cioè il Melo Barone”.
Francesco Zagatti, nel 1993-94 capo degli osservatori delle Giovanili del Milan, conferma il pentito Spataro e inguaia Dell’Utri. Il Tribunale conclude: “È lecito affermare che, negli anni 1993-94, c’è stato un interessamento nei riguardi del figlio di D’Agostino Giuseppe da parte di Marcello Dell’Utri e che, essendo già deceduto Melo Barone, tale interessamento non poteva che essere stato caldeggiato al prevenuto, direttamente o in via mediata, dai fratelli Graviano di Brancaccio. La conclusione alla quale perviene il Collegio poggia sulla constatazione che il giovane D’Agostino ha effettuato un altro «provino» ad inizio del 1994 (ne ha dato conferma il teste Buriani Ruben) e cioè nel periodo in cui D’Agostino Giuseppe era vicino ai fratelli Graviano, favorendone la latitanza, ed aveva ottenuto, per il figlio Gaetano, il loro intervento diretto presso la dirigenza del Milan e, in particolare, presso Marcello Dell’Utri, il quale in effetti aveva «segnalato» il promettente calciatore al tecnico che doveva visionarlo, come candidamente e spontaneamente affermato dal teste Zagatti Francesco”.
La stagione politica
Dalla metà degli anni ‘80, a Berlusconi e al suo entourage, Cosa nostra non chiede piú soltanto soldi: il legame si sposta progressivamente da “un primario e immediato interesse di natura economica, sfociato in rapporti a base estorsiva” a un interesse “politico”. Riina spera di agganciare Craxi tramite il Cavaliere. Vota e fa votare Psi nel 1987. Ma non si sa se poi l’aggancio al “gotha socialista” si sia realizzato “attraverso il canale costituito da Dell’Utri-Berlusconi-Craxi, oppure se tale risultato fosse stato ottenuto attraverso l’ausilio di altri soggetti […]. L’assenza di prova in ordine alla realizzazione di trattative, accordi, favori politici fatti, o semplicemente richiesti, da Cosa nostra a Berlusconi, per il tramite di Dell’Utri, permane, ad avviso del Tribunale, fino al 1993, epoca in cui l’imprenditore milanese aveva deciso di lanciarsi in prima persona in politica, portando con sé, quale primo paladino di tale importante scelta, l’imputato Marcello Dell’Utri, un uomo che da circa venti anni aveva ripetutamente intessuto, con piena consapevolezza, rapporti di vario genere con soggetti mafiosi o paramafiosi”. L’appoggio dato una tantum al Psi, per punire la Dc di non aver ostacolato a sufficienza il maxiprocesso non portò a Cosa nostra i vantaggi sperati. Tant’è che “proprio dalla constatazione di tale insuccesso [...] aveva preso le mosse quell’efferata e sanguinosa rivolta contro lo Stato voluta da Salvatore Riina, culminata negli eclatanti omicidi e stragi a partire dalla prima metà del 1992; quando all’insoddisfazione per i «nuovi» politici, che non avevano mantenuto le promesse, si era sommato identico rancore verso i «vecchi», vieppiú alimentato dalla principale delle cocenti sconfitte subite sul fronte giudiziario da Cosa nostra e cioè il passaggio in giudicato, il 30 gennaio 1992, della sentenza emessa all’esito del procedimento penale maxi-uno”. La strategia stragista di attacco allo Stato dimostra, nel 1992, “l’assenza di contatti sicuri tra la mafia ed il mondo della politica, la mancanza di accordi, referenti, garanzie, canali ecc., successivamente alla perdita di quelli precedentemente esistenti, vecchi o giovani che fossero stati”. I vecchi referenti, ormai incapaci di garantire l’impunità a Cosa nostra, vacillano sotto i colpi delle prime indagini milanesi su Tangentopoli, il che fa maturare in Cosa nostra “un’idea politica di tipo separatista, o almeno autonomista, il cui obiettivo era quello di costituire una nuova forza politica, tutta siciliana e tutta mafiosa”. Il che non esclude che “nello stesso preciso torno di tempo in cui questo progetto si stava realizzando e prendeva corpo, vi fossero rassicuranti e definite alternative politiche, frutto di accordi e promesse ottenute dai soggetti mafiosi attraverso altri referenti”.
Sicilia Libera
Per due anni, prima del suo arresto nel 1995, Tullio Cannella viene incaricato di «curare» la latitanza del boss corleonese Leoluca Bagarella, cognato di Riina, balzato ai vertici di Cosa nostra dopo l’arresto di Zu’ Totò il 15 gennaio 1993. Nato e cresciuto a Brancaccio, vicinissimo ai fratelli Graviano, Cannella ha fatto politica nella Dc. I giudici lo considerano un collaboratore attendibile per le sue «dichiarazioni coerenti, logiche, particolareggiate» sull’evoluzione dei progetti politici di Cosa nostra nei primi anni 90: “Il delatore ha precisato che Bagarella era stato suo ospite nel villaggio Euromare «intorno alla metà di giugno, fino alla fine di agosto e i primi di settembre del 1993» [...]”. DUNQUE, partorito dalla mente di Leoluca Bagarella (ma, per quel che lo stesso diceva, era interessato anche il suo amico Provenzano), il progetto politico indipendentista, che sfocerà nella costituzione del partito Sicilia Libera a Palermo, era stato affidato dallo stesso boss corleonese al Cannella”. Nello stesso periodo fioriscono in tutto il Sud Italia movimenti indipendentisti, e in quel filone Bagarella pensa di inserire il progetto politico-mafioso di Sicilia Libera. “Con alcuni esponenti di tali agglomerati politici, il Cannella, dopo aver ricevuto la delega dal Bagarella, si era incontrato in diverse occasioni, una dell quali, particolarmente ricordata, svoltasi a Lamezia Terme, alla fine del 1993. Tra gli altri, presenti a quell’incontro vi erano alcuni esponenti della Lega Nord, in quanto tale movimento era interessato «a che si potesse effettuare un’operazione del genere nel meridione d’Italia», i quali erano stati accompagnati alla riunione politica dal principe Domenico Napoleone Orsini. […] Nella fase iniziale della vicenda, Bagarella aveva finanziato l’attività di proselitismo dello stesso Cannella [...] Poi, però, il boss non aveva voluto affrontare altri costi, pretendendo che fosse il collaborante a sostenerli”.
È importante la scansione temporale del passaggio di Cosa nostra da Sicilia Libera a Forza Italia: “Si è detto che la nascita del movimento a Palermo, per opera del Cannella e su input di Bagarella, era avvenuta a ottobre del 1993; fino al mese di novembre, certamente, la questione non era ancora chiusa. Invece il cambio di direzione verso Forza Italia e l’abbandono definitivo del progetto si era apprezzato «intorno al gennaio del 1994». [...]. Il collaborante, a quel punto, [...] aveva interpellato il Bagarella sulla eventualità che qualche candidato di Sicilia Libera potesse essere inserito nelle liste di Forza Italia, il nuovo partito che il suo interlocutore aveva deciso di appoggiare”.
Secondo Cannella, nel gennaio ’94, un mese e mezzo prima delle elezioni, “Bagarella mi disse che avrebbe parlato con una persona che sarebbe stato in grado di ordinare, allora si sapeva, noi sapevamo che l’onorevole Miccichè si occupava della formazione delle liste qui in Sicilia insieme ad un certo La Porta [...]. Allora disse: «io ho la persona che è in grado di dire a questo Miccichè quello che deve fare». Io me ne andai, aspettai qualche giorno, non ricordo se venne Calvaruso o Nino Mangano [uomo d’onore della famiglia di Brancaccio, ndr] a dirmi che di lí a breve mi dovevo ritenere rintracciabile in ufficio perché [...] mi avrebbero fatto incontrare un certo Vittorio Nangano o Mangano. [..]. ma l’incontro con questo Mangano non avvenne. Successivamente [...] mi capitò solo di incontrare Bagarella... e gli chiesi: «ma come è finita?». Dice: «niente, purtroppo non c’è piú niente da fare». Lui mi disse [...] che non c’era piú il tempo per metterlo in lista”.
Per i giudici «le dichiarazioni di Cannella, assoluto padrone della materia, sono state pienamente riscontrate da una mole di elementi esterni». Un lancio Ansa del 26 settembre 1993 conferma la riunione di Lamezia Terme. Dai tabulati telefonici «incrociati» dal consulente della Procura Gioacchino Genchi, risulta «la prova di numerosi contatti tra vari soggetti indicati da Cannella» a proposito di Sicilia Libera. Tanto per cambiare, salta fuori anche Dell’Utri, in contatto nel febbraio del 1994 con il principe Domenico Napoleone Orsini, il cui nome è anche presente nelle agende del manager. Ma Dell’Utri dice di non conoscerlo. Le sue negazioni, smentendo anche l’evidenza, diventano così un «elemento indiziante». Anche perché un altro riscontro alle dichiarazioni di Cannella arriva dal pentito Tony Calvaruso, autista di Bagarella. Riscontro tanto piú importante in quanto nemmeno lui, come Cannella, parla direttamente di Dell’Utri. Ma racconta che “andò scemando questo discorso di Sicilia Libera, tanto si rafforzava il discorso di Forza Italia «perché c’era la voce unanime di votare Forza Italia, anche quando si parlava del partito Sicilia Libera». In ogni caso, egli aveva saputo da Bagarella che il partito di Forza Italia andava sostenuto in quanto aveva una linea garantista e, quindi, «o volutamente o non volutamente», avrebbe aiutato i boss di Cosa nostra”. Ora, osservano i giudici:
“Che nelle elezioni politiche del 1994, scomparso il partito della Democrazia cristiana (da sempre destinatario dei voti della mafia, eccezion fatta per il 1987), all’interno di Cosa nostra si fosse deciso di votare per Forza Italia, non è circostanza che può essere messa in discussione, tale è la mole delle dichiarazioni rese da tutti i collaboratori di giustizia che hanno fatto riferimento al tema, in assoluta sintonia”. Naturalmente l’adesione di Cosa nostra a Forza Italia non è un reato per i promotori del nuovo partito. E non è nemmeno un fatto sorprendente, visto che una politica ipergarantista era «destinata fatalmente (o non volutamente, come ha detto Calvaruso) ad aiutare gli affiliati a Cosa nostra (e non solo)». Il problema è un altro: “In questa sede occorre stabilire soltanto se siano emerse prove in ordine al fatto che gli imputati Dell’Utri e Cinà (in particolare il primo) abbiano, in qualche modo, collaborato con uomini di Cosa nostra, tramite accordi, promesse o quant’altro, contribuendo a far nascere o, anche semplicemente, a rafforzare il convincimento politico dei loro interlocutori mafiosi di sostenere il nuovo partito, del quale, come è noto e come meglio ancora si vedrà, Dell’Utri era stato, in prima persona, promotore e nel cui organico è stato eletto deputato e poi senatore, carica tuttora rivestita. Se, cioè, si siano evidenziate, anche in relazione a siffatto ambito avente ad oggetto la politica, condotte compiute dai prevenuti, sussumibili nell’alveo dei capi di imputazione, la cuiforma «libera» consente di ritenere rilevanti anche le «promesse elettorali» o i «patti politico-mafiosi»”.
È «incontestabile», per il Tribunale, che “proprio nel periodo riferito da Cannella (fine 1993-inizi 1994), era stato ufficialmente costituito il partito di Forza Italia [...] e che, secondo la versione dello stesso Dell’Utri, il proposito di Berlusconi di fondare il nuovo partito si era definitivamente concretizzato alla fine di settembre del 1993 [...]. La pubblica accusa ha sostenuto essere emerse prove in ordine al fatto che Dell’Utri, prima dell’ufficializzazione della scelta politica di Berlusconi nell’autunno del 1993, avesse già cominciato ad interessarsi in prima persona alla costituzione di una nuova forza politica, benché non avvezzo ad occuparsi di siffatti compiti.”.
Nasce Forza Italia
Secondo l’accusa, Dell’Utri spinse Berlusconi a scendere in campo politico per curare da vicino gli interessi di Cosa nostra, che aveva perso i suoi referenti politici. Secondo il Tribunale, “le motivazioni che possono avere indotto l’attuale presidente del Consiglio dei ministri a fondare un nuovo partito sono state molteplici e trovano ampia giustificazione su altri piani [...]. Berlusconi si sentiva «perseguitato» dall’autorità giudiziaria di Milano, come risulta da un passo del libro [di Federico Orlando, allora condirettore de Il Giornale di Indro Montanelli: Il sabato andavamo ad Arcore, 1995, ndr] in cui si racconta di una riunione ad Arcore del 3 luglio 1993 (sono del 22 giugno precedente le perquisizioni della Guardia di finanza alle sedi della Fininvest di Milano e Roma, eseguite dietro ordine dei giudici di Milano). Ma già il 4 giugno 1993 Berlusconi avrebbe annunciato ad Indro Montanelli l’intenzione di «scendere in politica per ricomporre l’area moderata». Dunque vi erano pressanti e gravi ragioni [...] perché questo impegno in politica avvenisse ed altrettanto ampie motivazioni perché il nascente partito assumesse, sul fronte giudiziario, una linea ideologica di tipo garantista. […] Ragioni e motivazioni che non possono essere ritenute, tout court, inquinate dal fine di agevolare Cosa nostra ma che, ovviamente, non potevano non essere apprezzate da qualunque soggetto che, in quel periodo storico, si fosse trovato ad avere a che fare con la giustizia, a qualsivoglia titolo”.
Dell’Utri è fin da subito un tifoso accanito della discesa in campo del Cavaliere, come testimoniano Confalonieri e Letta, all’epoca contrari . E alla fine, dopo un periodo di incertezza, Berlusconi si schiera con Dell’Utri. Lo conferma Ezio Cartotto, politico della Dc lombarda e consulente della Fininvest fin dagli anni 70. I giudici sintetizzano il suo racconto: “Nel settembre 1992, in occasione di una convention, Berlusconi aveva fatto per la prima volta un accenno al tema politico, affermando che bisognava guardare alla situazione politica italiana con grande preoccupazione ed attenzione; nell’aprile del 1993, nel corso di un incontro tra lo stesso Berlusconi e l’onorevole Craxi, quest’ultimo aveva fatto presente al suo interlocutore che si sarebbe dovuto dare da fare per creare un movimento politico al Nord Italia, per contrastare l’offensiva della Lega e che sarebbe stato opportuno che qualcuno, come lui, creasse un «canestro» in cui convogliare i voti in libera uscita dai partiti tradizionali di area moderata, ormai in crisi irreversibile; nell’estate del 1993, ad Arcore, Silvio Berlusconi aveva incontrato Vincenzo Muccioli e si era parlato della situazione politica italiana; nell’autunno 1993, Berlusconi aveva incontrato gli onorevoli Amato, Segni e Martinazzoli, ma già era sorta in lui l’idea di scendere personalmente in politica”.
Intanto, a Palermo, “sino alla fine del 1993, in Cosa nostra si stavano cercando nuovi sbocchi politici e, in assenza di «agganci», si realizzavano stragi in tutta Italia e si cercava di costituire un partito sicilianista tutto mafioso [...]. E fino all’abbandono dell’idea autonomista, alla fine del 1993, per quel che si è anticipato, Cosa nostra non aveva ottenuto «certezze» e «garanzie» politiche provenienti da altri «canali». Ulteriore dimostrazione di tale assunto è l’affermazione di Giuffrè (Nino, capomafia di Caccamo, ndr) in ordine al fatto che, solo in un secondo momento [...], Bernardo Provenzano, scettico rispetto all’ideologia autonomista di Bagarella, «esce allo scoperto» e si fa sostenitore dell’appoggio a Forza Italia, a partire dalla fine del 1993, epoca in cui sarebbero arrivate delle «garanzie» in tal senso”.
Provenzano sponsorizza Forza Italia
Fedelissimo del superboss Michele Greco fino al 1981, «reggente» del mandamento di Caccamo dal 1987 per volontà di Riina, Giuffrè ha fatto parte fino al ‘92 della commissione provinciale di Cosa nostra, diventando dal ’93 uno dei piú stretti collaboratori di Provenzano. Arrestato il 16 aprile 2002, decide di collaborare . E la sua attendibilità è «fuori discussione», anche «sul tema della politica» dove «è stato pienamente riscontrato». “Nella primavera del 1993 il collaboratore aveva appreso da Provenzano che, dopo l’arresto di Riina (15 gennaio 1993), all’interno di Cosa nostra si erano create due linee di pensiero, rappresentative di due fazioni mafiose «contrapposte»: la prima, della quale faceva parte il collaborante, aveva come leader il Provenzano e ad essa erano aggregati alcuni importanti «uomini d’onore», come Benedetto Spera, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Raffaele Ganci; un’altra, facente capo a Bagarella, nella quale si riconoscevano altri importantissimi esponenti mafiosi, come Giovanni Brusca, i fratelli Graviano, i Farinella, Salvatore Biondino ed altri. In particolare, una delle due fazioni non concordava sulla scelta di una strategia stragista propugnata dall’altra”. Ma anche sui rapporti con la politica, Cosa nostra è divisa: il gruppo Bagarella puntava su Sicilia Libera; Provenzano preferisce cercare referenti nelle forze politiche nazionali, sul modello dei rapporti intrecciati a suo tempo con la Dc. Il Tribunale ritiene dimostrati “singoli «agganci» ottenuti da Cosa nostra nella ricerca di referenti all’interno di una nuova, grande compagine politica come Forza Italia, sul modello ideologico fatto proprio da Provenzano (cui accederà anche il gruppo di Bagarella)”. Giuffrè prosegue nel suo racconto: “Verso la fine del 1993 già si aveva dei sentori che si muoveva qualcosa di importante nella politica nazionale. Cioè si cominciava a parlare della discesa in campo di un personaggio molto importante. [...] Berlusconi... Queste notizie venivano portate all’interno di Cosa nostra, per un periodo è stato motivo di incontri, di dibattiti all’interno di Cosa nostra, di valutazioni molto, ma molto attente. Cioè tutte le persone che avevano sentore, notizie di questo movimento che stava per nascere, venivano trasmessi ed arrivavano dentro Cosa nostra. Queste, in modo particolare di Provenzano, se ne cercavano l’affidabilità. Cioè persone che di un certo valore e di una certa serietà e inizia, appositamente, un lungo periodo di discussione e nello stesso tempo di indagine, per vedere se era un discorso serio che poteva interessare a Cosa nostra per potere curare quei mali che da diverso periodo avevano afflitto Cosa nostra, che erano stati causa di notevoli danni. [...] Abbiamo fatto anche degli incontri, delle riunioni, assieme, appositamente per discutere, fino a quando il Provenzano stesso ci ha detto che eravamo in buone mani, che ci potevamo fidare. Per la prima volta il Provenzano esce allo scoperto, assumendosi in prima persona delle responsabilità ben precise. E nel momento in cui lui ci dà queste informazioni e queste sicurezze , ci mettiamo in cammino, per portare avanti, all’interno di Cosa nostra e poi successivamente estrinsecarlo all’esterno, il discorso di Forza Italia”.
Cosí, a fine ’93, Provenzano riceve “garanzie” e si decide a «uscire allo scoperto».
Cioè, scrive il Tribunale, “a sponsorizzare il partito di Forza Italia all’interno di Cosa nostra, invitando i suoi componenti a votarvi ed, evidentemente, convincendo anche la fazione legata a Bagarella, il quale, infatti, nello stesso torno di tempo di fine 1993, aveva deciso di abbandonare al suo destino Sicilia Libera”. «Garanzie» da chi? Giuffrè dice di aver saputo dai boss Carlo Greco e Giovanni Brusca i nomi di alcuni intermediari, come il costruttore Giovanni Ienna (secondo i giudici «legato ai fratelli Graviano, il quale sarebbe stato direttamente in contatto con Berlusconi» e «condannato definitivamente per mafia»); l’avvocato Massimo Maria Berruti (consulente della Fininvest e infine deputato di Forza Italia); Mangano; e Dell’Utri (quest’ultimo –scrivono i giudici – era secondo Giuffè «reputato dai suoi interlocutori mafiosi persona seria, affidabile e vicina a Cosa nostra»).
“In ogni caso, il sostegno a Forza Italia da parte dei mafiosi era stato profuso in tutte le competizioni elettorali successive, fino a quelle del 2001 [...]. Il resto delle dichiarazioni di Giuffrè, nella parte rappresentativa piú generale appare assolutamente esente da critiche e deve essere positivamente apprezzato, anche in relazione a ciò che attiene all’indicazione di «garanzie» ottenute da Provenzano” ”.
Il ritorno di Mangano
Il fatto che Mangano rispunti al fianco di Dell’Utri anche nel 1994-’95, dopo i 10 anni trascorsi in carcere per le condanne definitive per mafia e droga, suscita nel Tribunale «seria preoccupazione e vivo disappunto, a prescindere dall’aspetto prettamente penalistico». Perché “si può affermare senza tema di smentita che Mangano Vittorio, dopo l’arresto di Salvatore Cancemi nel luglio 1993, aveva assunto un incarico mafioso di rango, a coronamento di una lunga e gloriosa carriera criminale”. Anche in campo politico.
Ne parla Salvatore Cucuzza, «collaborante di sicura attendibilità»: “Per come riferitogli da Bagarella, uno dei motivi per i quali il Mangano veniva mantenuto nella reggenza del mandamento di Porta Nuova era costituito dal fatto che egli garantiva rapporti con Dell’Utri e, quindi, era reputato utile in tal senso perché era notorio il rapporto che legava quest’ultimo a Silvio Berlusconi. [...] Il collaborante ha dichiarato di aver saputo da Mangano che questi si era incontrato «un paio di volte con Dell’Utri». [...] Dell’Utri aveva promesso che si sarebbe attivato per presentare proposte molto favorevoli per Cosa nostra sul fronte della giustizia, in un periodo successivo, a gennaio del 1995 («modifica del 41 bis, sbarramento per gli arresti relativi al 416 bis»). Infatti, vi era stato un primo tentativo a livello parlamentare che, però, non era riuscito a concretizzarsi. Inoltre Dell’Utri aveva detto a Mangano che sarebbe stato opportuno stare calmi, cioè evitare azioni violente e clamorose, le quali non avrebbero potuto aiutare la riuscita dei progetti politici favorevoli all’organizzazione mafiosa”.
Le conclusioni del Tribunale sono raggelanti: “La promessa di aiuto politico a Cosa nostra [...], aveva un effetto rassicurante per il sodalizio criminale; lo orientava verso il sostegno a Forza Italia, incoraggiandolo a nutrire aspettative favorevoli in un momento di crisi profonda. Siffatta condotta rafforzava Cosa nostra, ingenerando il convincimento di raggiungere obiettivi fondamentali nella sua strategia criminale, addirittura contando sui massimi vertici della politica nazionale. Una promessa reputata, in quel frangente, seria ed affidabile negli ambienti mafiosi, in quanto proveniente da un soggetto influente che, in passato, aveva dato buona prova di sé, dimostrandosi disponibile verso Cosa nostra. Una promessa fatta ad un mafioso come Vittorio Mangano, altrettanto importante nel suo «campo», ad un capomandamento in stretto contatto con coloro i quali erano posti al vertice del sodalizio criminale in quel torno di tempo.”.
Che poi, come sostiene la difesa, il primo governo Berlusconi – naufragato dopo 7 mesi – non sia riuscito a varare misure favorevoli alla mafia, o che invece, come ribatte la Procura, abbia inviato precisi segnali a Cosa nostra, non interessa “Quel che conta, ai fini della decisione, è stabilire se può ritenersi provato che la promessa politica a Cosa nostra, effettuata dal senatore Dell’Utri per mezzo di Mangano (nel frattempo diventato un capo di un mandamento mafioso), avente ad oggetto un progetto di aiuto sul fronte giudiziario in relazione al tema del 41 bis ed altro, siccome riferito da Cucuzza, si fosse effettivamente verificata in quel torno di tempo delicatissimo in cui la politica nazionale stava veramente cambiando e l’organizzazione mafiosa era alle corde e senza referenti politici sicuri”. [...]
La prova per il tribunale c'è. E a incastrare Dell’Utri, provvedono non i pentiti o i magistrati, ma sempre le sue agende dove “si sono ritrovate due annotazioni, relative ad incontri tra lo stesso e Mangano Vittorio, sotto le date del 2 e 30 novembre 1993. Trattasi di un dato documentale incontestabile ed altamente significativo della condotta tenuta da Marcello Dell’Utri [...] Dell’Utri, ancora nel 1993, nonostante la crescita del suo prestigio personale anche in campo politico, aveva continuato ad intrattenere rapporti di frequentazione con un mafioso conclamato ed importante come era Mangano in quel periodo, e nonostante tutto quello che era successo in passato”.
Dell’Utri non può negare quel che è scritto nelle agende: “Si limita ad addurre impacciate giustificazioni di facciata, affermando che Mangano, di tanto in tanto, era solito andarlo a trovare in ufficio (a Milano!), ove si intratteneva pochi minuti per esporgli non meglio identificati problemi di carattere personale, precisando che egli «subiva» tali rapporti e non ricordando quali fossero i problemi personali che Mangano gli avrebbe sottoposto il 2 e 30 novembre 1993, periodo in cui era in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica, anche attraverso l’abbandono del progetto autonomista di Sicilia Libera”.
Due incontri a Milano, proprio come diceva Cucuzza. Quale miglior riscontro si potrebbe trovare? In seguito, nel 1995, Mangano viene di nuovo arrestato (stavolta per omicidio). Ma Dell’Utri, eletto nel ’96 al Parlamento italiano, nel ’99 al Parlamento europeo, e nel 2001 di nuovo in quello italiano, continua a intrattenere rapporti con la mafia, come risulta da alcune intercettazioni ambientali.
Microspie nell’autoscuola
Nel 1999, subito prima delle elezioni europee del 13 giugno in cui Dell’Utri è candidato nel collegio Sicilia - Sardegna, l’Arma intercetta le conversazioni di alcuni fedelissimi di Provenzano nell’autoscuola «Primavera», gestita da Carmelo Amato, poi arrestato. Da anni quello è un ritrovo abituale dei piú stretti collaboratori di Provenzano, talora alla presenza del boss medesimo. Altre volte alla presenza di Tanino Cinà. Nelle intercettazioni, Amato parla spesso di Dell’Utri. Il 5 maggio 1999 ne discute con l’amico Michele Lo Forte e fa riferimento al voto della Camera che ha appena salvato Dell’Utri dall’arresto chiesto da quei «cornuti» dei giudici , e alla necessità di mandarlo al Parlamento europeo per renderlo intoccabile:
Amato – ...maaah, ma dobbiamo portare a Dell’Utri!
Lo Forte – Minchia... ora c’è Dell’Utri! Dell’Utri...
Amato – Compare, lo dobbiamo aiutare, perché se no lo fottono!
Lo Forte – È logico, perché non lo tocca nessuno, nemmeno qua! [o simile].
Amato – Eh, compa’, se passa lui e acchiana [sale] alle europee, non lo tocca
Due giorni dopo, i due riparlano della cosa, poi Amato ne ragiona con altri “amici”. Amato dice, tra l'altro, che per far eleggere Dell'Utri “c'è un impegno”. Riassumendo le conversazioni, i giudici scrivono: “Emerge a chiare lettere, per quanto attiene alla posizione dell’imputato Marcello Dell’Utri, che nell’ambiente mafioso era stata presa una netta e precisa decisione in ordine al candidato da votare e fare votare in occasione delle imminenti consultazioni. [...] E che si trattasse di un proposito non facente esclusivamente capo alla persona di Amato Carmelo, ma che fosse maturato e deciso in seno al sodalizio criminale, è circostanza emergente da alcuni passaggi, come quello che si evidenzia nella conversazione del 22 maggio, quando l’Amato specifica al suo interlocutore (Gioacchino Severino) il fatto che «i cristiani si stanno preparando», evidentemente riferendosi[...] ad una moltitudine di persone della cui disponibilità a votare Dell’Utri l’Amato era certo perché, evidentemente, persone facenti parte del suo stesso sodalizio criminoso o ad esso vicine. [...] Inoltre, che non fosse una determinazione, frutto di una libera scelta, anche di ordine collettivo, si coglie in diversi passaggi delle conversazioni intercettate, nei quali l’Amato mostrava di aderire a questa decisione con riluttanza, espressa dalla considerazione che «purtroppo» si doveva votare per Dell’Utri, perché c’era un impegno in tal senso”.Ancora una volta la prova contro Dell’Utri non arriva dalla voce di un pentito, ma da intercettazioni: cioè da «elementi obbiettivi di prova, formatisi in un contesto assolutamente genuino e scevro da qualsivoglia condizionamento.
Il patto con la mafia
Nella primavera del 2001 è di nuovo campagna elettorale, stavolta per le politiche nazionali e per le regionali. La Procura infila alcune microspie nell’abitazione del medico mafioso Giuseppe Guttadauro, «reggente» del mandamento di Brancaccio, appena uscito dal carcere. Anche in queste conversazioni ricorre il nome di Dell’Utri, candidato stavolta al Senato. Il 9 aprile 2001 Guttadauro parla con Salvatore Aragona, anche lui medico, anche lui già condannato per fatti di mafia e dice:
“Dell’Utri, si presentò alle europee, compreso Musotto, hanno preso degli impegni, dopo le europee ca acchianaru [furono eletti] non si sono visti piú con nessuno”. Il 20 maggio Guttadauro si lamenta di nuovo: “Ma lui se viene deve pigghiari impegni e l’ava a manteniri però”. Poi il 29 maggio il boss rivela a un amico persino il nome del capomafia con cui Dell'Utri si era accordato. Dice Guttadauro: “Dell’Utri non è piú venuto a Palermo... perché l’unica persona con cui parlava Dell’Utri lo hanno arrestato, quello con cui Dell’Utri ha preso l’impegno, ca fú ddu cristiano, chistu Iachinu Capizzi.”. Poco importa che Dell’Utri non abbia mantenuto gli impegni: “Quel che importa è che l’imputato la promessa, quella particolare promessa sopra descritta, l’avesse fatta e fosse stato ritenuto credibile dai suoi referenti mafiosi nel momento in cui si era verificato l’accordo. [...]. l’ennesima emergenza obbiettiva conferma l’effettiva verificazione di un patto di scambio politico-mafioso tra Cosa nostra e Dell’Utri, relativamente alle elezioni europee del 1999, quelle a cui fa riferimento nel 2001 il boss Guttadauro quando dice che Dell’Utri aveva «preso impegni»; quelle stesse consultazioni alle quali si era fatto riferimento nelle conversazioni intercettate [...] all’interno dell’autovettura in uso ad Amato Carmelo”.
Fondamentale il riferimento che il boss Guttadauro fa a “Gioacchino Capizzi, il vecchio capomafia con il quale Dell’Utri aveva parlato ed aveva preso impegni (si ricordi che, a quell’epoca, Mangano era detenuto). E Gioacchino Capizzi, è stato compiutamente identificato [...] nel responsabile del mandamento della «Guadagna o Santa Maria di Gesú», cioè quello stesso mandamento comandato, molti anni prima, da Stefano Bontate, al quale erano succeduti i fratelli Pullarà ed al quale apparteneva anche Vittorio Mangano fino a quando la sua «famiglia» non era passata sotto il comando di Pippo Calò. E, ancora, non a caso, Capizzi era uno dei soggetti, ritenuti responsabili di numerosi omicidi, in stretti rapporti di frequentazione con Amato Carmelo, proprio nel [...] 1999”. La conclusione fa rabbrividire: “Ritiene il Tribunale che le emergenze dibattimentali abbiano consentito l’acquisizione di certi e sufficienti elementi di prova in ordine alla compromissione mafiosa dell’imputato anche relativamente alla sua stagione politica, [...]. l’indagine dibattimentale ha evidenziato [...] inoppugnabili elementi di prova della responsabilità dell’imputato in ordine ai reati contestatigli”.
Considerazioni conclusive
Per Dell'Utri la pena deve essere “più severa” rispetto ai 7 anni comminati a Cinà “e deve essere determinata in anni 9 di reclusione, dovendosi negativamente apprezzare la circostanza che l’imputato ha voluto mantenere vivo per circa trent’anni il suo rapporto con l’organizzazione (sopravvissuto anche alle stragi del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non piú affidabili, venivano raggiunti dalla «vendetta» di Cosa nostra) e ciò nonostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso e pur avendo, a motivo delle sue condizioni personali, sociali, culturali ed economiche, tutte le possibilità concrete per distaccarsene e per rifiutare ogni qualsivoglia richiesta da parte dei soggetti intranei o vicini a Cosa nostra [...]. Infine, si connota negativamente la sua disponibilità verso l’organizzazione mafiosa attinente al campo della politica, in un periodo storico in cui Cosa nostra aveva dimostrato la sua efferatezza criminale attraverso la commissione di stragi gravissime, espressioni di un disegno eversivo contro lo Stato, e, inoltre, quando la sua figura di uomo pubblico e le responsabilità connesse agli incarichi istituzionali assunti, avrebbero dovuto imporgli ancora maggiore accortezza e rigore morale, inducendolo ad evitare ogni contaminazione con quell’ambiente mafioso le cui dinamiche egli conosceva assai bene per tutta la storia pregressa legata all’esercizio delle sue attività manageriali di alto livello”.
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