martedì 22 dicembre 2009

IL METRONOMO DEL PRESIDENTE E IL CORO DEI BIG


di Luca Telese

La battuta può restare anonima, perché ieri, al Quirinale circolava su molte bocche: “Il discorso di Napolitano è stato lungo e alto. Ma ora cosa gli resta da dire nel saluto di fine anno?”. I vip, si sa, a volte possono essere caustici, e cortesemente irriguardosi. Che giornata è stata, allora, quella degli auguri del capo dello Stato? E’ iniziata o no, nel Palazzo, l’era dell’inciucio? Si apre oppure no, l’ennesima stagione delle “riforme condivise”? Se devi raccontare con una immagine la serata di ieri, sul Colle, è tutta in questa differenza di voltaggio tra il tempo del presidente e quello del suo uditorio. Napolitano che legge un lungo e articolatissimo discorso, di appassionato sostegno a una grande riforma. Gli invitati e la città, invece, sembrano correre veloci, nelle luci del Natale. La lentezza regale del presidente, e la febbricitante molecolarità della politica. Una nuvola di auto blu che assediano piazza del Quirinale per un’ora, e che subito dopo si dilegua, nella pioggerellina della sera. Il presidente parla in piedi, sotto un enorme bassorilievo di marmo, incastonato tra due colonne. La sala curiosamente è poco illuminata e molto fredda: avverti, in questa scena, tutta la teatralità istituzionale del Quirinale, quell’atmosfera in cui Napolitano è riuscito a calarsi con incredibile capacità: è il tempo del Palazzo, con tutti i suoi (tanti) pregi e i suoi difetti, contro il tempo della tv, con tutti i suoi (pochi) pregi e i suoi difetti. Pier Luigi Bersani è al fianco di Lorenzo Cesa, e anche questo in fondo è un segnale di familiarità e di affinità che non è scontato. Gianni Letta è quasi scultoreo, in prima fila.
Nel discorso del presidente ci sono tutti i richiami a cui Napolitano ci ha abituati, spesso giocati in punta di citazione e di dottrina. Ma c’è anche l’equilibrio quasi esasperato dei pesi e dei contrappesi: istituzionale o cerchiobottista, a seconda dei punti di vista. Renato Schifani, di fatto, si rifrigge lo stesso discorso degli auguri al Senato. E’ quasi raggiante il ministro Ronchi: “Avete visto? Tutto si aggiusta, tutto si sta aggiustando!” (Si riferisce al conflitto fra Berlusconi e Fini, ovviamente). E’ soddisfatta anche Rosy Bindi: “Mi pare chiaro: Napolitano ha detto che il confronto va fatto, senza aut aut”. Hanno ragione sia lei sia Ronchi. O almeno: se questo discorso doveva essere la pietra angolare su cui ruota la politica del nuovo anno, è come quegli oroscopi in cui dentro ci puoi leggere tutto. C’è dentro una doppia, e quasi calorosa, citazione di Silvio Berlusconi (“E’ stato bravo”, sussurra la ministra Michela Brambilla a un funzionario del ministero), ma anche un passaggio insistito sulle riforme istituzionali che non si possono fare per legge elettorale. Un riferimento che parte da un ricordo di Leopoldo Elia, e che in realtà è una sottolineatura esplicita al fatto che il premier non è eletto dal popolo direttamente, ma dal Parlamento (su mandato del Colle).
Certo Luchino Cordero di Montezemolo fa in tempo a cesellare una battuta, mentre infila il soprabito: “Musica per le orecchie di chi spera che poi quanto il presidente ha detto si avveri”. Ma sembra che la frase più azzeccata, mentre scende lo scalone la sussurri Dario Franceschini: “Il discorso è bellissimo. Ma i tempi sono questi: "15 giorni fa eravamo al fronte popolare di Casini; la settimana scorsa l’Udc ha votato il legittimo impedimento. Cosa accade domani nessuno può dirlo”. Anche il Palazzo aspetta il ritorno di Berlusconi, per capire se questo è l’anno della riforma, dell’inciucio, o della battaglia.

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